‘Abd al-Wahid Pallavicini, A Sufi Master’s Message. In Memoriam René Guénon, Fons Vitae, Louisville (KY) 2010
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:54
COREIS è un acronimo che sta per Comunità Religiosa Islamica Italiana, una realtà fondata a metà degli anni ’80 a Milano e che negli anni ha saputo ritagliarsi un originale spazio all’interno del variegato panorama dell’Islam europeo. La connotazione della COREIS come realtà italiana è da intendersi come una pura constatazione geografica? Chi abbia letto qualcuno degli scritti dello Shaykh ʿAbd al-Wahid Pallavicini, come anche del figlio Yahya, sa bene che non è così. L’insistenza sul radicamento occidentale è in entrambi voluta. A riassumere le ragioni profonde di questa scelta provvede ora la raccolta di saggi A Sufi Master’s Message, presentata da S.A.R. il principe Ghazi Ibn Muhammad di Giordania e di cui è in circolazione anche un’edizione italiana a tiratura limitata. Attraverso una serie di brevi contributi, l’autore, convertitosi all’Islam all’età di 25 anni, presenta e rielabora alla luce della propria esperienza personale alcuni aspetti del pensiero dell’esoterista francese René Guénon, che dopo un travagliato percorso esistenziale scelse di abbracciare l’Islam, assumendo il nome di ʿAbd al-Wahid Yahya. Nel libro Pallavicini non è tenero verso l’Occidente, di cui lamenta, sulla scorta di Guénon, la completa perdita del senso del sacro a favore di un’arida razionalità meramente strumentale. «In Occidente l’intellettualità è diventata intellettualismo, la logica razionalismo o peggio psicologismo» (33). A suo avviso, anche il Cristianesimo occidentale sarebbe fatalmente coinvolto in questa crisi, mentre una forma più autentica si sarebbe conservata nell’ortodossia. Il periodo citato continua peraltro in questi termini: «In Oriente, l’intuizione crea impulsività e il fatalismo produce fanatismo». Viene così diagnosticata una doppia crisi: «Le Chiese oggi parlano poco di Dio e predicano soltanto la pace, ma nelle moschee si parla troppo di guerra» (51). A fronte di questo contesto piuttosto negativo, Pallavicini ricava uno spazio per sé e per la propria confraternita (il discorso, anche quando formulato sul piano individuale, ha sempre uno sfondo comunitario): quello di una realtà, numericamente limitata, che tiene fede alla Tradizione primordiale (dîn al-qayyima), di cui tutte le religioni sarebbero espressione. Il tema è in sé assolutamente islamico, giacché l’Islam, cronologicamente “ultimo” rispetto a Ebraismo e Cristianesimo, comprende se stesso come “primo”, nel senso di una restaurazione della fede originaria di Abramo che – dichiara il Corano medinese – «non era né ebreo né cristiano» (3,67). Nello stesso tempo esso rappresenta anche una delle categorie portanti della riflessione di Guénon, grande teorico dell’unità trascendente di tutte le religioni. Come osservò il Cardinal Daniélou, questa posizione comporta necessariamente una ricomprensione del fatto cristiano, e in particolare dell’Incarnazione e dei Sacramenti, entro la generale categoria del “sacro”. Anche la tensione escatologica, che occupa un grande posto nel Libro Sacro dell’Islam, emerge con forza in questi scritti, pensati per gli “ultimi tempi” quando, come afferma una tradizione islamica cara a Pallavicini, «il sole sorgerà da Occidente». Sempre in questa linea, Pallavicini sottolinea che anche per l’Islam la restaurazione finale sarà operata da Cristo, un dato che a suo avviso è generalmente sottovalutato dai credenti. Il tema della Tradizione primordiale implica per l’autore il rifiuto di un anticristianesimo di principio, spesso diffuso tra i musulmani d’origine; per i guénoniani «il cammino di conversione è generalmente slegato da un rifiuto del Cristianesimo» (26). L’esperienza mostra che esiste anche il reciproco: credenti musulmani per i quali la conversione al Cristianesimo non rappresenta un ripudio del passato, ma un suo approfondimento, «vagliando tutto e conservando ciò che vale», secondo il noto principio paolino. Si tratta di due posizioni speculari, accanto alle quali si situa, come alternativa, il rifiuto della cultura di provenienza. Tertulliano e Giustino illustrano nella storia della Chiesa primitiva la coesistenza di questi due atteggiamenti. L’insistenza sulla Tradizione originaria solleva naturalmente la questione del sincretismo. Pallavicini lo rifiuta decisamente poiché ritiene sempre necessario appartenere a una forma storica di religione. «La consapevolezza dell’unica Tradizione soprastante non può giustificare la non aderenza del singolo a una religione ortodossa particolare» scrive IlhamAllah Chiara Ferrero nell’introduzione (12). A dire dell’autore, il “sacro fai da te” che caratterizza tante espressioni di religiosità post-moderna è uno dei sintomi più evidenti della decadenza spirituale dell’epoca presente. Tuttavia, anche se tutte le religioni esprimono la stessa tradizione, ve n’è una, l’Islam storico, che per l’autore lo fa nel modo più completo. Se questa precisazione chiude la porta al sincretismo, non è chiaro dal testo se la maggiore fedeltà alla Tradizione Primordiale sia da intendere in assoluto, o in relazione alle condizioni storiche, ciò che aprirebbe la strada a una lettura relativista. La tensione alla verità rimane comunque il criterio essenziale per giudicare tra le diverse espressioni religiose: «A nostro avviso, l’unico buon motivo per abbracciare una religione è il fatto di considerarla vera» (58). Dall’opzione di fondo a favore della religiosità storica discendono in Pallavicini una serie di scelte pratiche: l’insistenza sulla catena iniziatica della confraternita, il rispetto della Legge islamica anche nei suoi aspetti formali e di vestiario che non vanno intesi come concessioni all’esotismo, l’attenzione a non scindere mai la coppia esoterico-essoterico, infine la sottolineatura del tema dell’autorità. L’influenza di Guénon, esponente di spicco dello gnosticismo nella Francia del Primo Novecento, è ben presente anche nella definizione del contenuto della Tradizione primordiale: essa consiste in fondo nel ricondurre ogni aspetto dell’esistente all’Unico, come un riflesso alla luce da cui proviene, superando la distinzione tra creatore e creatura. L’esistenza individuale è valutata negativamente («Esistenza è “stare fuori”, una mancata accettazione o una ribellione come quella di Lucifero», 43). La posizione si riconnette in tal modo a una delle due principali forme del misticismo islamico, il monismo esistenziale, che Massignon distingueva dalla corrente del monismo testimoniale per la quale l’obiettivo finale non sarebbe l’annientamento del fedele in Dio, ma piuttosto l’unione amorosa. Evidentemente una visione, la seconda, più affine al Cristianesimo, nel quale certamente «Dio sarà tutto in tutti» (una frase paolina che lo shaykh sicuramente sottoscriverebbe), ma in cui lo spazio della differenza è preservato fino alla fine. Se la COREIS è ben nota per le numerose iniziative di dialogo, non solo con esponenti cristiani, ma anche (fatto molto più raro) ebrei, la lettura di questo breve volume permette di cogliere la motivazione di questo impegno, che ha naturalmente una dimensione politica, ma attinge a una precisa concezione teologica e spirituale dei rapporti tra i fedeli delle diverse tradizioni religiose e del loro compito storico nell’ora presente.