Perché il pensiero di ‘Abduh, capofila del riformismo islamico, ha dato vita a correnti opposte: modernismo e fondamentalismo
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:06:50
Questo contributo rientra nelle attività del progetto Non un'epoca di cambiamento, ma un cambiamento d'epoca realizzato grazie al contributo di Fondazione Cariplo.
Muhammad ‘Abduh ha dato il meglio di sé tre anni prima della sua morte, avvenuta nel 1905, con il libro “L’Islam, il Cristianesimo e il loro approccio alla scienza e alla civiltà” (Al-Islām wa-l-Nasrāniyya ma‘ al-‘Ilm wa-l-Madaniyya), alla cui base si trova una serie di articoli pubblicati su al-Manār, rivista fondata nel 1898 dal suo discepolo e biografo autorizzato Rashid Rida (m. 1935). In realtà, ‘Abduh aveva solamente reagito all’elogio che nel 1902 Farah Antun (m. 1922), cristiano libanese rifugiato al Cairo, aveva riservato sulla sua rivista, al-Jāmi‘a, al libro "Averroè e l’averroismo", di Ernest Renan (1853).
Protrattosi per diverse settimane per interposta rivista, il dibattito (che attende ancora di essere tradotto) merita attenzione perché contrappone un ‘Abduh rivestito dell’ineguagliabile prestigio di Mufti d’Egitto (dal 1899) a un libero pensatore, ma anche perché mostra i limiti del pensiero riformista. A un Antun che fa di Averroè e di Aristotele dei “materialisti”, ‘Abduh risponde che i due erano deisti. Alla domanda su quale religione, tra il Cristianesimo e l’Islam, sia meno dogmatica e più tollerante rispetto alla scienza e agli uomini di scienza, ‘Abduh risponde essere senza dubbio l’Islam, che non ha conosciuto l’inquisizione. A questo proposito, egli cita molti uomini di scienza non-musulmani, rispettati da califfi e principi e prossimi di questi ultimi. Il Cristianesimo, invece, aveva ostacolato il progresso occidentale, che ‘Abduh spiega attraverso quattro cause principali: la formazione di società dotte anticlericali, l’inquisizione che ha offuscato l’immagine della Chiesa, la Rivoluzione francese e infine l’abbandono del Cristianesimo come religione.
Le cose non stanno diversamente per quanto riguarda la laicità: l’Islam, di per sé laico (senza Chiesa), è più vicino allo spirito di Cristo di quanto non lo sia la Chiesa stessa. Infine, ‘Abduh descrive l’Islam attraverso otto caratteristiche, tra cui le seguenti: il primato alla ragione sulla tradizione, il rifiuto dell’eccesso e del takfīr (l’accusa di empietà), il “rovesciamento dell’ordine teocratico” e la capacità di far coesistere le credenze. Risparmiando l’Islam, egli ritiene i politici “bugiardi”, i conservatori “ignoranti” e le masse “cieche” colpevoli d’innovazione indebita, d’immobilismo e di divisione.
Ecco la triade infernale a cui è imputato il declino dell’Islam: il principe tirannico, il giurista conservatore e il santo intercessore – le tre figure che dominano l’Islam post-classico a partire dal XIII secolo. È questo approccio a fondare il riformismo, la nuova ortodossia, lo spirito del tempo, lo Zeitgeist, che ‘Abduh nella “Lettera sull’unità divina” (Risālat al-tawhīd) – un compendio di teologia moderna e il suo secondo miglior opuscolo (1897) –, chiama letteralmente “lo stato dell’epoca e del tempo presente” (Hālat al-‘asr wa al-zaman). Fatto proprio da nuovi letterati sovversivi, questo riformismo, che ha dominato dal XIX secolo agli anni ’30 del XX, ha coltivato invano la speranza di reinventare la tradizione senza tradirne lo spirito. Innanzitutto, il concetto è ambiguo: il riformismo è un fondamentalismo (“usuliyya”) vale a dire “un ritorno alle fonti della fede, purificate dalle scorie e dalle deformazioni prodottesi in secoli di decadenza”, secondo una definizione canonizzata da Anwar Abd al-Malek in "La pensée politique arabe contemporaine" (“Il pensiero politico arabo contemporaneo”, 1970).
Da qui la sua parentela con il salafismo, letteralmente il fatto di essere seguace dei Salaf, i “pii predecessori”, gli “Antichi” dell’Islam. Riformismo, fondamentalismo e salafismo appartengono quindi alla stessa famiglia semantica: in “collisione” con “un modernismo di tipo razionalizzante” – ci avverte Henri Laoust in "Le réformisme orthodoxe des Salafiya et les caractères généraux de son orientation actuelle" (1932) –, ma, letteralmente, non privo di “collusioni”, anche con il movimento della rinascita (Nahda) modernista di tipo laico promossa dai cristiani libanesi.
In seguito il percorso stesso dei suoi iniziatori avrebbe alimentato l’equivoco. ‘Abduh era un giovane formatosi ad al-Azhar, ininfluente prima di conoscere il suo mentore di origine iraniana Jamāl al-Dīn al-Afghānī (morto nel 1897), ideologo e attivista controverso, sospettato di eresia dai suoi principali biografi[1]. Durante il suo soggiorno in Egitto (1871-1879), al-Afghānī esercitò un’influenza decisiva sulla politicizzazione del novizio, la cui sola opera all’epoca era una “Epistola d’ispirazione mistica” (Risālat al-wāridāt, 1871). Coinvolto in tutti gli intrighi e i disordini, al-Afghānī fu espulso dall’Egitto. ‘Abduh invece sarà costretto all’esilio per aver sostenuto la rivolta del colonnello ‘Urābī (1881-1882). Aveva 34 anni. È a Beirut che fece la conoscenza di Abbas Efendi, figlio del fondatore del Bahaismo di cui, su ammissione stessa di Rashid Rida, ‘Abduh parlerà sempre bene. Sempre a Beirut venne a conoscenza della simpatia che correva tra il filosofo francese Ernest Renan e al-Afghānī che, in Francia, si era distinto per una serie di articoli propriamente eretici, tra cui un commento alla conferenza di Renan dal titolo L’islamisme et la science, uscito sul Journal des débats (18 maggio 1883): “In verità la religione musulmana ha soffocato la scienza e bloccato il progresso”, scriveva al-Afghānī.
Indispettito, il discepolo “agnostico”, secondo la definizione di Lord Cromer, console generale d’Egitto dal 1886 al 1907, rimprovera al maestro di aver divulgato il segreto del loro programma sovversivo: “Noi continuiamo a seguire la tua via diritta: tagliamo la testa della religione solamente con la spada della religione” – scrive ‘Abduh (la lettera è ripresa da Elie Kedourie). Alla fine del 1883 ‘Abduh raggiunge al-Afghānī a Parigi e nel 1884 insieme fondano, in rue Martel, al-‘Urwa al-wuthqā’ (Il legame indissolubile), una società segreta (il cui articolo IV degli statuti sancisce l’obbligatorietà del jihad difensivo), e una rivista a servizio dell’unità mediorientale minacciata dalla distruzione. Ne saranno pubblicati soltanto 18 numeri (13 marzo-17 ottobre 1884), praticamente tutti scritti da ‘Abduh forse sotto dettatura del maestro, eccellente oratore ma pessimo scrittore. Tra i primi articoli, due in particolare meritano di essere segnalati: “Il passato della Umma, il suo presente e il rimedio ai suoi mali”, e “Le cause del declino e della sclerosi dell’Islam”.
È in questo momento che il salafismo riformista nasce come Pharmakon: l’Islam è in declino, soffre. La cura è chiara e prevede il ritorno ai fondamenti, a quei fondamenti che ne hanno fatto la gloria. Lo stesso leitmotiv è ripreso nell’editoriale del primo numero della rivista al-Manār (18 marzo 1898). Dopo questo momento epico, le strade dei due uomini si separano. Amnistiato, nel 1889 ‘Abduh ritorna in Egitto per dedicarsi alla riforma dell’istruzione e di al-Azhar, del cui consiglio di amministrazione diventa membro nel 1895. Il suo corso di esegesi coranica, iniziato nel 1899 e interrotto alla sura 4 alla sua morte, rimane la principale esegesi del Corano detta “moderna”. Pubblicato su al-Manār, il lavoro è stato proseguito da Rashid Rida, ma in uno spirito nettamente conservatore. Tra il XIX secolo e gli anni Trenta del XX nascono focolai riformisti simili un po’ ovunque nel mondo islamico, dall’India al Maghreb.
Sono dunque alcune intuizioni forti a unire i riformisti, i salafiti e i fondamentalisti. In primo luogo, il ritorno ai fondamenti sulla base di un versetto “cult”:
«O voi che credete! Non portate avanti vostre personali opinioni al cospetto di Dio e del suo Messaggero» (49,1)
che il fondamentalismo interpreta come il divieto di far prevalere alcune parola sulle fonti primarie. Il Corano infatti è «una Luce, un Libro limpido» con i quali Dio guida lungo le vie della salvezza (5,15-16). In secondo luogo, la Sunna completa il Corano che include lo statuto “legislativo” di Muhammad: «Vi insegna il Libro e la Sapienza» (2,151), da intendersi come la sua sapienza, ovvero la Sunna. Voltando le spalle all’erudizione dei letterati, riformisti, salafiti e fondamentalisti si sono rivolti ai Salaf. Ritenuti l’unica fonte di riferimento, i Salaf sono una classe di uomini definita dalla prossimità a Muhammad (morto nel 632), che va dalla prima generazione dei compagni fino a Ibn Hanbal (m. 855) passando per la generazione intermedia detta dei Successori. Per poter vantare un periodo così ampio (che comprende la formazione delle quattro scuole giuridiche), i riformisti fanno leva su alcuni hadīth prodotti molto probabilmente post eventum: «La migliore tra voi è la mia generazione, poi coloro che seguono, e poi coloro che li seguono». Altrettanto esplicito è un secondo hadīth attribuito all’imam Mālik ibn Anas (morto nel 795): «Chi, di questa umma, verrà dopo avrà la salvezza solo seguendo la Sunna dei predecessori».
Tuttavia, l’accordo che prevede il ritorno alla tradizione “pura” non è mai stato rispettato: i salafiti, di tutte le tendenze (compreso ‘Abduh), infatti prolungano la sequenza iniziale fino a Ibn Taymiyya (XIV secolo). Ciò significa che, in fondo, il fondamentalismo è un neo-tradizionalismo. Detto questo, è difficile raggruppare tutti i fondamentalismi in uno stesso termine, tanto più quelli di ieri con quelli di oggi. Consapevoli del ritardo dei musulmani, i fondamentalisti del XIX secolo si sono dati il compito di riformare l’Islam: «E già abbiam scritto nei Salmi, dopo che venne il Monito, che i miei uomini giusti erediteranno la terra» (21,105), facendo eco ai Salmi «I giusti possederanno la terra» (37/29).
Rashid Rida inizia il suo Ta’rīkh al-ustādh al-imām al-shaykh Muhammad ‘Abduh (“Storia dell’imam Muhammad ‘Abduh”) menzionando l’hadīth secondo il quale Dio invierà in ogni secolo un riformatore. Questi riformatori sono anti-tradizionalisti in un senso particolare: rifiutano l’imitazione (taqlīd) quale argomento di autorità. Nella Lettera sull’unità divina ‘Abduh scrive:
«L’imitazione può valere per il vero così come per il falso, per l’utile così come per il nocivo; essa è smarrimento che si perdona all’animale ma che non si addice all’uomo»
Chi siano gli imitatori, ‘Abduh lo spiega nel commentario coranico detto Juz’ ‘amma (letteralmente l'ultimo trentesimo del Corano), dove li associa agli increduli. Anche un contemporaneo che avesse “seguito” Muhammad senza esaminare le prove del suo Apostolato è un “imitatore” – dice ‘Abduh. La critica si estende poi alla gente del Libro che si è ripiegata sulle proprie Scritture. Da qui deriva l’esaltazione della ragione ragionante, una facoltà naturale che consente all’uomo di conoscere in “maniera certa” (“jazm”) attraverso delle “prove” (“hujaj”) e delle “indicazioni” (“dalā’il”), ma che abdica nell’ambito che eccede il suo potere (l’Essere necessario, la profezia, l’immortalità...).
A immagine di ‘Abduh, il riformista è un educatore, politicamente moderato, “leale” alle potenze europee occupanti (inglese e francese) perché crede fermamente che “il jihad con il Corano” sia più appropriato del “jihad secondo il Corano”, ovvero con la spada. Questo è ciò che dice Ibn Bādīs (morto nel 1940), fondatore della rivista Shihāb (“Meteora”, 1925-1939) e leader dell’Associazione degli ulema musulmani algerini, fondata nel 1931. Raccogliendo la sfida della modernità, egli fa l’apologia di un Islam “universalista” che onora gli esseri umani creati da «un solo essere», scisso «in maschio e femmina» capaci di generare «uomini e donne» (4,1), «popoli e tribù» (49,13), ciascuno con la propria religione: «Voi avete la vostra religione, io la mia» (109,6). È in questo che il riformismo salafita è animato da uno spirito eterodosso, benché l’esaltazione della ragione derivi dalla teologia ortodossa. Ciò spiega perché i suoi discepoli si sono divisi in modernisti (‘Alī ‘Abd al-Rāziq, Ahmad Amīn...) e conservatori: Rashid Rida e lo stesso Hasan al-Bannā, fondatore dei Fratelli musulmani.
Il salafismo contemporaneo ripristina l’ortodossia detta della “gente della tradizione e della comunità”, ma nella sua versione più letteralista prendendo alla lettera le fonti primarie e accordando addirittura più importanza agli hadīth che al Corano. Esso non cerca di riformare l’Islam, pensa al puritanesimo come a un modo di vestire, uno stile di vita (il qamīs [abito lungo tradizionalmente indossato dagli uomini musulmani] e la barba lunga senza baffi ne sono i segni distintivi). Per il salafismo contemporaneo, l’Islam è innanzitutto una ortoprassi: l’adorazione spetta soltanto a Dio e qualsiasi altro tipo di obbedienza è assimilato al politeismo associazionista. Questo spiega l’odio per il sufismo, la distruzione dei mausolei, dalla presa dei luoghi santi da parte dei wahhabiti nel 1803-6 a Isis passando per i talebani. Ciò avviene sulla base di alcuni hadīth: «Dio ha dannato gli ebrei e i cristiani che hanno fatto delle tombe dei loro profeti luoghi di preghiera», e ancora «Non prendete le tombe per moschee». Ciò significa che il “ritorno ai fondamenti” è passato dall’essere un riformismo velleitario a un salafismo oscurantista.
Di quest’ultimo ne esistono tre forme: la forma scritturale detta letteralmente “salafiyya ‘ilmiyya” (salafismo dotto e missionario), quella jihadista detta “salafiyya jihādiyya”, un innesto di wahhabismo e jihadismo (tra cui l’Isis), e la “salafiyya siyāsiya”, il salafismo organizzato in partiti in concorrenza con l’Islam politico degli anni Settanta (in Egitto è addirittura rappresentata in parlamento con il partito al-Nur). Il missionario, il politico e il combattente hanno sempre perseguitato l’Islam. Il salafismo illuminato del XIX secolo non è morto anche se è quasi scomparso (infatti nessuno dei tre salafismi fa riferimento ad ‘Abduh). Esso produce dei movimenti non-violenti ma retrogradi, e barbari che tagliano la testa della religione e decapitano gli uomini.
[1] Nikki R. Keddie, Sayyid Jamāl al-Dīn “al-Afghānī”: A Political Biography, University of California Press, Berkeley 1972, Elie Kedourie, Afghani and ‘Abduh: An Essay on Religious Unbelief and Political Activism in Modern Islam, Cass, London, 1966).