Le rivolte del 2011 e la successiva esplosione della violenza jihadista hanno aperto una nuova fase, in cui tuttavia non è venuto meno anche per gli esperti religiosi un antico dilemma: sostenere i governanti in nome dell’ostilità all’Islam politico o contestare il dispotismo in vista dell’edificazione di una democrazia islamica

Questo articolo è pubblicato in Oasis 27. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 16:59:06

Smentendo chi ne aveva sancito l’irrilevanza, negli ultimi decenni gli uomini di religione musulmani sono tornati al centro della scena in molti Paesi del Medio Oriente. Le rivolte del 2011 e la successiva esplosione della violenza jihadista hanno aperto una nuova fase, in cui tuttavia non è venuto meno anche per gli esperti religiosi un antico dilemma: sostenere i governanti in nome dell’ostilità all’Islam politico o contestare il dispotismo in vista dell’edificazione di una democrazia islamica.

 

Per cinquant’anni, dal 1961 al 2011, teologi e giuristi musulmani – gli ulema – hanno vissuto e prosperato in Egitto sotto un regime autoritario. Lo stesso si può dire per gli ulema di Arabia Saudita, Siria e Iraq. Che fossero monarchie o repubbliche, i regimi arabi avevano ritagliato per i loro ulema uno spazio politico delimitato che offriva risorse, sicurezza economica e un ruolo funzionale alla promozione delle priorità statali. A partire dagli anni ’70, la polarizzazione ideologica legata alla “guerra fredda araba” cedette il passo a un lungo periodo di risveglio religioso (la cosiddetta sahwa), che offrì agli ulema nuove opportunità nella predicazione, nell’insegnamento, nella pubblicistica, e sempre di più, in televisione, tutto con la benedizione dello Stato.

 

Mentre molti ulema mantennero la propria fedeltà ai regimi, restando sui loro libri-paga, altri si spostarono su posizioni più critiche. Alcuni aderirono alle tendenze islamiste, che hanno assunto forme diverse in Siria, Egitto e Arabia Saudita, mentre solo pochi si spinsero al punto di unirsi ai gruppi jihadisti violenti. Questi ultimi, dal canto loro, svilupparono un marcato anticlericalismo. Quando all’inizio del 2011 sono scoppiate le rivoluzioni arabe, gli ulema, così come chiunque altro, sono stati colti di sorpresa. Molte persone si sono rivolte a loro in cerca di una guida, ma ben presto è divenuto chiaro che la placida coesistenza con i regimi in carica era tramontata. Iniziava il tempo delle scelte difficili.

 

Questo articolo esamina le risposte degli ulema, dei regimi e delle correnti dell’Islam politico a questa nuova fase. Alla fine, si discuterà della fattibilità di quello che può essere chiamato un neo-madhhabismo, o neotradizionalismo, come contrappeso al salafismo, e ciò che questo implica per gli ulema più riformisti.

 

Tra l’incudine e il martello

 

A lungo considerati un gruppo sociopolitico in declino, gli ulema sono oggi tornati al centro dell’attenzione accademica, non da ultimo per la loro crescente riaffermazione e visibilità nel mondo musulmano, come gruppo e individualmente. Anche i musulmani infatti hanno dovuto imparare a conoscere autorità religiose – da Khomeini a al-Qaradāwī – emerse dal cono d’ombra in cui vivevano gli ulema tradizionali. Il più noto studio su questo fenomeno, il libro di Muhammad Qasim Zaman Custodians of Change [Custodi del cambiamento]1, segnalava fin dal sottotitolo che gli ulema sono parte del cambiamento sociale, benché lo gestiscano più che incarnarlo.

 

Dopo aver formato, tra il 1958 e il 1961, la Repubblica Araba Unita sotto la guida del presidente Nasser, Egitto e Siria sono divenuti Stati autoritari, adottando prima un’ideologia socialista e poi una politica economica neoliberista. Entrambi i Paesi scelsero di gestire gli affari religiosi, nell’ambito dell’Islam sunnita, tramite un apposito ministero, guidato da un ministro di nomina politica selezionato tra gli ulema. Ed entrambi si servirono dell’ufficio del Mufti di Stato per legittimare le proprie politiche. Inoltre, sin dall’epoca di Nasser e sempre in tutti e due i Paesi, i Fratelli musulmani, principali oppositori politici di orientamento islamista, furono messi fuori legge.

 

Ovviamente c’erano alcune differenze tra le politiche religiose dei due Stati. Innanzitutto, la Siria era molto più religiosamente diversificata dell’Egitto e i suoi governanti (dal 1970 la famiglia Assad) non erano sunniti ma alawiti, e si opposero agli islamisti sunniti non solo per quello che facevano, ma per quello che erano. In Egitto, al contrario, la minaccia islamista s’iscriveva in una rivalità intra-sunnita. In Siria, una grande rivolta islamista sunnita scoppiò nel 1979 e fu brutalmente repressa nel 1982, mentre in Egitto un tentativo di rivolta molto più limitato sfociò nell’assassinio del presidente Sadat, ma non ebbe altre grandi conseguenze. Sadat e il suo successore, Hosni Mubarak, riuscirono a contenere e in parte cooptare il principale movimento islamista, i Fratelli musulmani, concentrandosi sulla lotta contro gruppi jihadisti più piccoli. In Siria, la Fratellanza musulmana fu sconfitta ed eliminata, ma i servizi segreti siriani hanno occasionalmente sostenuto movimenti islamisti in altri Paesi, in particolare in Libano e successivamente in Iraq. L’Arabia Saudita, per converso, ha dato asilo agli islamisti che negli anni ’60 fuggivano dalla Siria e dall’Egitto, integrandoli nelle sue organizzazioni educative e per la predicazione islamica, ma a partire dagli anni ’90 la loro lealtà nei confronti del regno è diventata sempre più problematica.

 

In tutti e tre i Paesi, i governi consideravano gli ulema un baluardo contro l’islamismo e il jihadismo. Paradossalmente, era proprio il supposto quietismo politico degli ulema a farne una risorsa politica agli occhi dei regimi in carica.

 

La rivoluzione e le sue conseguenze

 

Durante la rivoluzione egiziana del gennaio-febbraio 2011, in piazza Tahrir fece la sua comparsa anche un piccolo numero di turbanti, mentre uno shaykh morì in una manifestazione successiva. Nelle settimane della rivoluzione lo stesso sermone del venerdì divenne una manifestazione di massa, con il predicatore della moschea locale che dalla Piazza inviava importanti messaggi al mondo. Tuttavia, gli ulema più importanti continuarono a schierarsi con il presidente Mubarak e un decreto promulgato dal loro vertice, lo Shaykh al-Azhar Ahmad al-Tayyib, condannava le manifestazioni che partivano dalle moschee. Com’era capitato molto spesso nella storia, al-Azhar era divisa tra una leadership politicamente docile e una tendenza più radicale tra gli studenti e i docenti più giovani2.

 

Alla luce degli esiti delle manifestazioni, i vertici dell’Azhar si affrettarono a sostenere la rivoluzione, chiedendo pubblicamente la rescissione dei legami con lo Stato (ma non la fine dei finanziamenti). Questa richiesta è stata poi assunta dai loro vecchi rivali, i Fratelli musulmani. Il programma politico del partito da essi costituito e ora autorizzato, Libertà e Giustizia, includeva infatti l’indipendenza formale dell’Azhar dallo Stato. Benché nell’estate del 2011 l’Azhar avesse ospitato un importante incontro sul percorso dell’Egitto verso la democrazia, la sua propensione verso la politica autoritaria non era del tutto scomparsa: mentre nel gennaio del 2012 avevano luogo le prime elezioni libere, il governo provvisorio del Consiglio Supremo delle Forze Armate varava una legge che garantiva ai vertici dell’Azhar la propria permanenza in carica.

 

Seguì un anno molto difficile. Il partito islamista Libertà e Giustizia vinse le elezioni, ciò che gli permise di disporre, insieme al partito più conservatore al-Nūr, di una solida maggioranza in Parlamento. Contrariamente a quanto previsto, i due partiti non avviarono un programma di islamizzazione dell’Egitto e tre mesi più tardi la camera bassa del Parlamento fu dissolta da un provvedimento giudiziario. Nel maggio del 2012 tuttavia, Muhammad Morsi, candidato dei Fratelli musulmani, vinse le elezioni presidenziali, seppur con un margine ridotto. Durante il suo unico anno di governo neppure Morsi perseguì un’islamizzazione aggressiva. Tuttavia, imponendo una nuova Costituzione ad alto potenziale islamizzante, s’inimicò tutte le altre forze politiche, al punto che quando l’esercito intervenne per deporlo poté contare sul supporto di ampi settori della popolazione. Morsi fece il possibile per blandire l’Azhar, per esempio pronunciandovi il suo primo significativo discorso politico, e nominando diversi shaykh nel comitato incaricato di preparare la nuova Costituzione.

 

L’anti-islamismo della leadership azharita era tuttavia ben noto – era peraltro una delle ragioni per cui il regime di Mubarak l’aveva scelta – e quando nel luglio del 2013 l’esercito prese il potere, lo Shaykh al-Azhar apparve in televisione accanto al nuovo uomo forte, il maresciallo Abd al-Fattah al-Sisi. Il suo atteggiamento fu solo parzialmente condiviso dagli ulema comuni. Dopo il colpo di Stato militare, studenti e docenti dell’Azhar hanno infatti manifestato contro le misure di sicurezza messe in atto nella stessa università, ma non c’è dubbio che la loro rabbia riflettesse anche una simpatia per il presidente deposto e per la Fratellanza, i cui leader sono ora in attesa di giudizio, o sono stati incarcerati dopo sentenze molto dure, aspramente criticate dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Altri leader dei Fratelli musulmani hanno trovato rifugio in Paesi vicini, in particolare in Turchia, ma pochi di essi sono ulema.

 

Il capovolgimento dell’ordine sociale

 

Ispirati dalle rivoluzioni in Tunisia e in Egitto, anche i siriani si sono sollevati nella primavera del 2011. Sin dall’inizio, tuttavia, la rivolta siriana non ha avuto nulla di festoso o immaginifico. È stata invece una risposta indignata alla ripugnante violenza usata dalle forze di sicurezza del regime nella città meridionale di Deraa, dove nel corso di cortei e funerali manifestanti pacifici erano consapevolmente andati incontro ai colpi dei cecchini. All’inizio del 2012, il conflitto tra il regime e i manifestanti si estese a tutto il Paese. Molti soldati disertarono e gruppi armati di ribelli si impadronirono di villaggi e quartieri. Il regime manteneva comunque il pieno controllo delle forze aree e dell’artiglieria e colpiva duramente i quartieri controllati dai ribelli, costringendo milioni di persone a fuggire dalle proprie case. Alla data del 2018, il regime ha consolidato la propria posizione, sostenuto da forze straniere, principalmente Iran, Iraq, Russia, e dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah, ma non ci sono molte possibilità che possa riconquistare il pieno controllo di tutto il territorio siriano.

 

In quanto rappresentanti della confessione maggioritaria, ma non di quella del regime, gli ulema sunniti di Siria si sono trovati in una situazione delicata. Dopo aver superato l’insurrezione islamista sunnita dei primi anni ’80, il regime siriano si è adoperato per garantirsi la fedeltà degli ulema3. I Fratelli musulmani sono stati messi fuori legge, mentre l’anti-islamismo dei maggiori ulema siriani è stato più pronunciato di quello dei loro omologhi egiziani. Fu però il salafismo quietista a insinuarsi tra altri ulema.

 

Tuttavia, quella del 2011 non è stata un’insurrezione islamista, ma il rifiuto popolare della dittatura. A Damasco gli ulema più rispettati hanno adottato la strategia tradizionale di rivolgere al governante un consiglio (nasīha), confermando così la propria fedeltà ma esprimendo allo stesso tempo il proprio turbamento. Diversi ulema chiesero al governo di prestare ascolto alle richieste della popolazione siriana, piuttosto che reprimere le proteste. Molto probabilmente i predicatori non si illudevano di potere condizionare il presidente, ma speravano di prenderne le distanze nella convinzione che, in caso di tensioni sociali acute, gli uomini di religione, normalmente apolitici, hanno il dovere di fare un passo avanti.

 

Ignorati dal regime, alcuni shaykh ne trassero le logiche conseguenze, pronunciando un sermone di denuncia del governante, classicamente noto come kalimat al-haqq (“parola di verità”) e poi lasciando il Paese. Uno dei leader di questi ulema, Sāriya al-Rifā‘ī, ha affermato che nel 2012 più di 50 ulema lo aveva seguito nell’esilio4. Questi ulema hanno trovato rifugio in Turchia, dove hanno creato un’organizzazione alternativa di ulema sunniti siriani.

 

Il regime siriano ha comunque conservato il sostegno dei suoi maggiori ulema, il Mufti della Repubblica e i mufti delle maggiori città. Soprattutto, il “grande vecchio” degli ulema siriani, Sa‘īd Ramadān al-Būtī (1929-2013), ha difeso a spada tratta Bashar al-Assad, esattamente come nei primi anni ’80 aveva fatto con suo padre Hafez. Allo scoppio delle rivolte, il regime ha permesso ad al-Būtī di realizzare un desiderio che coltivava da lungo tempo: quello di aprire un canale televisivo e creare una lega degli ulema siriani. E fino al suo assassinio, avvenuto nel 2013, al-Būtī ha scrupolosamente predicato ed emesso fatwe in favore del regime e delle sue politiche, giustificando anche i soldati che sparavano sulla folla5.

 

La dimensione internazionale

 

Le rivoluzioni e le contro-rivoluzioni hanno trasformato la mappa delle organizzazioni internazionali degli ulema, innescando sviluppi significativi. Dopo il fallimento di varie conferenze e tentativi, all’inizio degli anni ’60 gli ulema riuscirono a dar vita a proprie organizzazioni internazionali. Nel 1961 al Cairo, nel quadro della riforma dell’Azhar, fu infatti istituita l’Accademia delle Ricerche islamiche, con il compito di studiare e proporre soluzioni a temi legati al pensiero islamico. Vedendovi un tentativo di Nasser di promuovere internazionalmente la sua lettura socialista e arabista dell’Islam, l’Arabia Saudita rispose con la creazione nel 1962 di un’organizzazione rivale, la Lega musulmana mondiale. Prodotti della guerra fredda araba, queste organizzazioni piuttosto partigiane sono state eclissate dalla Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI, ribattezzata nel 2005 Organizzazione della Cooperazione Islamica), un’organizzazione più autenticamente internazionale e più politica, che impiega ulema nei suoi organi speciali6.

 

Facendo leva sulla sua popolarità televisiva e sull’affermazione di internet, nel 2003 il predicatore islamista Yūsif al-Qaradāwī fondò un’altra organizzazione di ulema, l’Unione Internazionale degli Ulema musulmani (International Union of Muslim Scholars, IUMS). Registrata a Dublino per restare fuori dalla portata di qualsiasi governo musulmano, l’Unione è riuscita ad attrarre molti singoli ulema e ad agire come rappresentante delle istanze musulmane negli affari internazionali, come è successo per esempio nel caso delle vignette danesi contro il profeta Muhammad (2005) e del discorso di Ratisbona di papa Benedetto XVI (2006).

 

Ideologo islamista molto apprezzato dai Fratelli musulmani, al-Qaradāwī si è distinto per le critiche rivolte agli autocrati arabi e per i suoi appelli a favore delle riforme democratiche – che sapeva avrebbero favorito gli islamisti – rompendo in questo modo con il precedente islamismo antidemocratico. Al-Qaradāwī era dunque ben posizionato quando nel 2011 sono scoppiate le rivolte, che lo stesso shaykh ha vigorosamente sostenuto attraverso il suo programma su al-Jazeera. E il 18 febbraio del 2011, primo venerdì dopo la caduta di Mubarak, al-Qaradāwī è stato invitato a pronunciare il sermone in piazza Tahrir7.

 

Considerato lo status di al-Qaradāwī e il suo sostegno alla rivoluzione, non sorprende che gli ulema non islamisti siano stati sollecitati a contrastarlo. Tra il 2011 e il 2012, al-Qaradāwī ha ripetutamente invitato al-Būtī ad abbandonare il “tiranno” Bashar al-Assad. Quando il 27 febbraio al-Būtī rispose definendo Assad il “Saladino dei nostri tempi”, al-Qaradāwī espresse il desiderio di guidare la preghiera nella moschea omayyade di Damasco8. Dispute simili hanno avuto luogo con gli ulema egiziani pro-regime, come Ahmad al-Tayyib, Grande Imam dell’Azhar, e l’ex mufti Ali Gomaa, quando al-Qaradāwī ha invitato gli egiziani a sollevarsi contro il governo militare.

 

Secondo l’etica classica degli ulema, i chierici in vista dovrebbero rispettarsi vicendevolmente, e gli studiosi che abbiamo citato probabilmente riconoscerebbero tutti il valore delle produzioni intellettuali dei loro pari, pur dissentendo su alcuni punti. Gli scambi di accuse si concentrano sulle alleanze politiche con specifici Stati e i loro interessi: al-Qaradāwī rinfaccia agli altri di essere marionette dei rispettivi regimi, e gli altri accusano al-Qaradāwī di essere uno strumento della politica estera del Qatar.

 

La lotta intorno alle rivoluzioni e l’attivismo politico di al-Qaradāwī ne hanno decretato l’isolamento, rivelando la natura islamista dell’Unione mondiale degli ulema. Per questo, con l’appoggio degli Emirati Arabi Uniti, fortemente anti-islamisti, nel 2014 è stata istituita una contro-organizzazione. Presieduto dallo Shaykh al-Azhar Ahmad al-Tayyib e da ‘Abdallah Bin Bayyah, un ex alleato di al-Qaradāwī, il Consiglio dei Saggi Musulmani (Majlis Hukamā’ al-Muslimīn) ha dedicato le sue conferenze annuali all’opposizione islamica al terrorismo e all’estremismo, e, dunque, all’islamismo. In un incontro del 2016, svoltosi a Grozny, in Cecenia, alcuni membri del Consiglio hanno inoltre denunciato il wahhabismo come una deviazione dall’Islam sunnita autentico. Tuttavia, forte del sostegno di Emirati e dell’Egitto di al-Sisi, questa organizzazione non ha mai manifestato alcuna opposizione all’autocrazia, lasciando agli ulema la scelta tra un’organizzazione che sostiene l’islamismo e una che appoggia l’autoritarismo.

 

Un’alternativa al salafismo, al riformismo e all’islamismo

 

Sa‘id Ramadān al-Būtī, l’ulema siriano sostenitore di Bashar al-Assad, può a tutti gli effetti essere considerato un rappresentante emblematico di questa nuova tendenza anti-islamista. Con il suo libro Al-Lā-madhhabiyya akhtar bid‘a tuhaddid al-sharī‘a al-islāmiyya (“La non-appartenenza a una scuola giuridica è l’innovazione che più gravemente minaccia la sharī‘a islamica”), al-Būtī ha inaugurato una nuova linea di difesa non solo contro il salafismo, ma anche contro le tendenze moderniste dell’Islam che a partire dal XIX secolo avevano trasformato il pensiero giuridico islamico.

 

Lo Shaykh al-Azhar Ahmad al-Tayyib e soprattutto l’ex mufti egiziano Ali Gomaa possono essere considerati esponenti contemporanei di questa linea di pensiero, che insiste sul fatto che il vero sapere islamico si fonda sull’adesione a una scuola giuridica (Madhhab) e a una dottrina teologica tradizionale (asharita o maturidita). Deve cioè esistere una madhhabiyya (il riferimento a questo corpus tradizionale) che combatta la distruttiva e dominante lā-madhhabiyya (l’abbandono delle scuole giuridiche). Oltre all’adesione agli insegnamenti delle scuole giuridiche e teologiche tradizionali, Ali Gomaa e i suoi discepoli sono anche sufi e considerano il sufismo parte integrante di questa cultura. Per gran parte del XX secolo il sufismo è stato sulla difensiva in diversi Paesi musulmani, criticato soprattutto dai salafiti, ma talvolta anche dagli islamisti e dai modernisti musulmani.

 

Pur avendo sostenuto il colpo di Stato di al-Sisi e la sua elezione a presidente, al-Tayyib è stato piuttosto impermeabile alle richieste di al-Sisi di “riformare l’Islam”. Tuttavia, non potendo resistere del tutto alle pressioni politiche, nel 2016 e nel 2017 al-Tayyib, nel corso di due serie di interviste televisive, ha parlato più volte di tradizione (turāth) e di rinnovamento (tajdīd), spiegando che il vero Islam non è qualcosa che abbia bisogno di essere “riformato” o “moderato”, quanto di essere preservato e prudentemente aggiornato per servire da bussola morale per i musulmani di ogni luogo e di ogni tempo. Questo richiede una profonda conoscenza della tradizione culturale islamica e presuppone che quanti sono implicati nel processo posseggano un’adeguata formazione morale e spirituale. È superfluo dire che, secondo al-Azhar, questo compito spetta agli ulema.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 

 

1 Si veda Malika Zeghal, Gardiens de l’islam. Les oulémas d’Al Azhar dans l’Égypte contemporaine, Presses de Sciences Po, Paris 1996.
2 Si veda Thomas Pierret, Baas et Islam en Syrie. La dynastie Assad face aux oulémas, PUF, Paris 2011.
3 Si veda Dawr al-‘ulamā’ fī ’l-mujtama‘, «Al-Jazeera», 15 luglio 2012, https://bit.ly/2L6i5Jv , consultato il 1° marzo 2018.
4 Jakob Skovgaard-Petersen, Clergy and Conflict Intensity. The Role of the Ulama in the Syrian Conflict, in O. Waever, I. Bramsen e P. Poder (a cura di), Resolving International Conflict: Dynamics of Escalation and Continuation, Routledge, London (in corso di stampa).
5 Reinhard Schulze, Islamischer Internationalismus im 20. Jahrhundert. Brill, Leiden 1990.
6 David Waaren, The ‘Ulamā’ and the Arab Uprisings 2011-13. Considering Yusuf al-Qaradawi, the ‘Global Mufti,’ between the Muslim Brotherhood, the Islamic Legal Tradition, and Qatari Foreign Policy, «Brismes New Middle East Studies» 4 (2014), http://www.brismes.ac.uk/nmes/archives/1305
7 Jakob Skovgaard-Petersen, Clergy and Conflict Intensity.
8 Muhammad Qasim Zaman, The Ulama in Contemporary Islam. Custodians of Change, Princeton University Press, Princeton 2002.