Un’analisi approfondita delle coppie di termini e concetti nel Testo Sacro dei musulmani
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:56
Recensione di Raoul Villano, La struttura binaria del Corano, IPO, Roma 2018.
La lunga serie di studi filologici e storico-linguistici dedicata da esperti, soprattutto occidentali, al testo coranico, e che l’Autore dimostra di conoscere bene, hanno per molto tempo trascurato il Testo Sacro dei musulmani: uno strano oggetto di cui indagare la composizione, cercando di ricostruirne la cronologia e accanendosi sull’etimologia di singoli termini o il senso più probabile di alcuni passaggi oscuri. Così facendo si è però persa la visone d’insieme che da una parte è un fatto (per milioni di credenti che quotidianamente e da secoli ne fruiscono) e dall’altra è un campo d’indagine assai arduo, prevalendo da sempre un giudizio piuttosto liquidatorio sulla frammentarietà e asistematicità del Corano, fino a espressioni francamente sconcertanti, come quella dello stesso Francesco Gabieli: «Un versetto del Corano, nove volte su dieci, mi fa l’effetto delle espettorazioni di un pedante scimunito»! Fortunatamente le più recenti ricerche soprattutto di Michel Cuypers e Aneglika Neuwirth, fra molti altri, stanno aprendo la via a un più adeguato e complessivo approccio di cui questo stesso volume è un buon esempio. Affermare che qualcosa di strano c’è è in fondo semplice e bastano poche citazioni per dimostrarlo, ma per negare del tutto la presenza di una struttura occorre una conoscenza e una familiarità non soltanto col testo nel suo complesso, ma anche e forse soprattutto con la sua recitazione, nella quale emergono meglio echi e rimandi, formali e semantici, che si rivelano particolarmente nelle coppie di termini e concetti qui dettagliatamente raccolti e analizzati. Soprattutto il supporto di alcuni autori musulmani contemporanei: A. Nawfal e A. A. Islahi, una volta tanto presi in seria considerazione, costituisce una piacevole sorpresa e un sano distacco dalle riserve del filologo sovietico Nikolaj Jakovlevič Marr che, quanto alla partecipazione di studiosi autoctoni agli studi orientalistici, se ne uscì con l’infelice espressione: «Non tutti i pesci possono diventare ittiologi».
La ricchezza e la varietà delle esemplificazioni elencate nel pregevole volume non possono essere riassunte neppure sommariamente in questa sede, ma l’ampia e aggiornata bibliografia accompagnata da un esauriente ed elegante commento da parte dell’Autore lasciano ben sperare sullo sviluppo di questo nuovo e incoraggiante filone di studi che, se ancora dovrà attendere la notorietà che merita, intanto pone buone basi su cui ci auguriamo altri proseguiranno con ancora maggiori e convincenti risultati.