Ripartire dalla teologia per un nuovo Illuminismo islamico

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Ultimo aggiornamento: 10/10/2022 15:50:53

Mustafa Akyol, Reopening Muslim Minds. A Return to Reason, Freedom, and Tolerance, St. Martin’s Essentials, New York 2021

 

Alla larga dall’Islam. Questa è stata, con alcune eccezioni come Muhammad ‘Abduh, la parola d’ordine tra i riformisti che a partire dall’Ottocento hanno cercato d’immaginare una modernità mediorientale. L’inconfessata parola d’ordine è stata declinata sostanzialmente in tre modi: o nel senso di limitarsi a enunciare rispetto all’Islam alcune banalità che non scomodavano nessuno, utili a suggellare un discorso concordista; o nel senso di evitare completamente di parlare di Islam perché divisivo rispetto all’auspicata unità nazionale (il caso della maggior parte dei cristiani arabi); o infine nel senso di adottare una politica di aperta ostilità verso la religione, come quella messa in atto dal fondatore della moderna Turchia, Kemal Atatürk.

 

Questa scelta non ha pagato. Ha reso i riformisti facile bersaglio dei movimenti revivalisti islamici, che li hanno accusati di ignoranza del loro stesso patrimonio; e al tempo stesso non ha impedito che alcuni nodi tipici della modernità, come la questione del rapporto religione-Stato, venissero comunque al pettine, come è apparso da ultimo nella parabola delle rivoluzioni arabe del 2011, dal loro promettente esordio al loro – almeno momentaneo – fallimento.

 

Mustafa Akyol ha da tempo imboccato esattamente la strada opposta. La sua tesi infatti è che theology matters (cap. 2), «la teologia conta» e, senza ridiscutere alcune scelte che la comunità musulmana ha compiuto in questo ambito nella sua più che millenaria storia, non sarà possibile quel cambiamento sociale e politico che ormai tutti in Medio Oriente auspicano, ma di cui si fatica a definire il contenuto e la direzione. In questo senso Reopening Muslim Minds rappresenta un passo ulteriore nella riflessione dell’autore, che si era già espresso su questi temi in Islam Without Extremes. Nel fortunato saggio del 2011, che lo rese noto al pubblico internazionale, Akyol infatti, dopo aver richiamato brevemente la parabola storica del pensiero islamico, concludeva su una nota di ottimismo, indicando nel modello turco l’esempio di una conciliazione già in atto tra un Islam mediano e una modernità non ostile alla religione. Dieci anni più tardi il bilancio è più critico, nel senso bello del termine. L’involuzione del proprio Paese d’origine e alcune disavventure personali, come quella con la polizia religiosa malese su cui si apre il volume, hanno reso l’analisi più acuta, più ardita e penetrante. La conciliazione non c’è più, è da costruire, come esito di un progetto che è espresso fin dal titolo, con quel tanwīr (Illuminismo) in caratteri arabi che fa capolino nella quarta di copertina. I vari capitoli ne definiscono poi i cantieri, da quello etico a quello politico, alla libertà religiosa e di espressione; il tutto con una rara abilità di calare tematiche speculative anche complesse nella vita di tutti i giorni, come quando Akyol introduce la sua esperienza di genitore alle prese con due (ora tre) vivaci figli per illustrare la differenza di approccio tra volontarismo e oggettivismo etico.

 

Sottesa a questo vasto progetto, di cui è impossibile dar conto qui, è la fiducia nell’universalità della ragione umana. Senza ignorare le specificità storiche delle varie religioni o civiltà, Akyol non si lascia tentare dalla facile scorciatoia di invocare criteri di giudizio indipendenti per ciascuna di esse. Al contrario, il grande dramma dell’Islam contemporaneo è, a suo avviso, proprio di aver in larga misura rinunciato all’universale per adagiarsi in una nicchia culturale. Un problema peraltro ben distribuito nel mondo, pensiamo solo alla nuova Kulturkampf scatenatasi negli Stati Uniti in nome della lotta alla discriminazione e che finisce con il rinchiudere gli individui in comunità/razze/generi astiosi e non comunicanti. In particolare il capitolo 5, How we lost universalism, ha il tono di un’appassionata requisitoria che si conclude con la denuncia delle tre strategie finora tentate rispetto a categorie tipiche della modernità politica come libertà individuale o governo costituzionale: rifiuto esplicito alla Sayyid Qutb, apologia (la democrazia liberale è già nel Corano, la prima Costituzione dell’umanità è quella di Medina etc.), ma soprattutto quell’approccio opportunista denunciato dal teologo turco Ali Bardakoğlu, responsabile degli affari religiosi dal 2003 al 2010, per cui molti musulmani «fanno surf» tra «due misure di legittimità», islamica e secolare moderna, a seconda della loro convenienza (p. 70).

 

Per quanto l’universalismo della ragione si esplichi in vari ambiti, tra cui vi è certamente anche quello scientifico (cap. 7), l’autore si sofferma in particolare sulla dimensione etica. E lo fa a partire dal dilemma di Eutifrone (cap. 3), che riformulato in chiave islamica suona: la shari‘a comanda alcune cose perché sono buone o queste cose sono buone perché la shari‘a le comanda? Per Akyol il prevalere della seconda opzione non ha solo avuto effetti negativi nel rapporto con i non-musulmani, rendendo quasi impossibile una conversazione etica con loro, ma ha anche assestato un duro colpo alla stessa moralità intra-musulmana. Riflettendo ancora sulla storia recente del proprio Paese, Akyol scrive: «il problema non è che i conservatori religiosi non fossero sufficientemente pii; il problema era che la loro pietà non li rendeva persone morali» (p. 45). Ad esempio, «mentre la shari‘a condanna il riba, o interesse, non ha norme chiare rispetto agli appalti pubblici, che i conservatori religiosi al potere hanno truccato la sbalorditiva cifra di 186 volte in un periodo di sedici anni per il vantaggio immediato dei loro compari» (ibidem). E si potrebbe continuare a lungo a suon di citazioni.

 

Dalla parte dei cattivi finisce così, a più riprese, la teologia ash‘arita, di cui viene stigmatizzato in particolare il volontarismo. Edificata su una concezione ridotta della libertà come pura capacità di scelta portata fino al limite del capriccio, questa scuola teologica preserva l’assoluta onnipotenza divina, ma al prezzo di renderla del tutto arbitraria. Parole di moderato elogio spende invece Akyol per i maturiditi, l’altra scuola del sunnismo, per la quale la categoria fondamentale per pensare Dio nell’Islam non è la volontà, ma la sapienza. I suoi eroi sono però senz’ombra di dubbio i mu‘taziliti. Questi teologi, considerati eterodossi e per questo scomparsi dal mondo islamico salvo alcune sopravvivenze sciite e talune riprese contemporanee, sono invocati quasi a ogni pagina non solo per la loro difesa della capacità della ragione umana di approdare a criteri etici autonomi, ma anche per il loro pronunciamento a favore del libero arbitrio, di cui sono esplorate anche le conseguenze politiche (cap. 10).

 

Ultimo dei buoni, anzi «the last man standing» è poi Averroè, a cui è dedicato il capitolo 8, di cui è degna di nota in particolare la conclusione: mentre il filosofo andaluso fu sostanzialmente ignorato nel mondo islamico, i suoi insegnamenti stimolarono il rinnovamento della Haskalah, l’Illuminismo ebraico del Settecento. Ed è scoperto qui il parallelo che Akyol intende istituire tra il proprio progetto di Illuminismo islamico e quello ebraico. Se infatti “l’Ebraismo ce l’ha fatta” – nonostante, ricorda Akyol altrove, per Kant esso fosse la religione più refrattaria alla ragione –  anche l’Islam può riuscire nel suo compito, tanto più considerando le somiglianze che uniscono le due religioni.

 

Di questo Illuminismo islamico l’autore fornisce nell’ultima parte del volume anche alcuni tratti concreti, scagliandosi contro il controverso istituto della hisba (censura sociale) e contro i reati di apostasia e blasfemia. L’obiettivo non è quello di abbandonare l’Islam – Akyol è un musulmano praticante – ma di arrivare a una fede non impositiva, che per l’autore si deve radicare nel paradigma meccano (cap. 10) e nella scuola murji’ita (cap. 14) che, nel turbine delle prime guerre civili, scelse di rimandare al giudizio finale di Dio la decisione su chi fosse veramente credente. Il passaggio più delicato, per le implicazioni logiche che il paragone porta con sé, è probabilmente a pagina 169. Se – immagina Akyol – i meccani non avessero perseguitato l’Islam nascente, «probabilmente il fascino del monoteismo e l’imperativo morale del Corano avrebbero attirato sempre più persone e l’Islam sarebbe cresciuto gradualmente, forse fino a guadagnare a sé tutta la città. Ma questa sarebbe stata una conquista totalmente pacifica, come la conquista graduale di Roma da parte del Cristianesimo. E in quel caso, il Corano che avremmo avuto nelle nostre mani sarebbe stato un testo totalmente non violento e non coercitivo. La storia umana dell’Arabia dell’inizio del settimo secolo, tuttavia, prese una direzione diversa».

 

Mentre l’auspicio politico di una religione non impositiva, ovvero, nelle parole di Akyol stesso, di una «teologia della tolleranza» (p. 213), è assolutamente condivisibile e anzi una priorità nel rapporto tra musulmani e non-musulmani, vorremmo concludere suggerendo all’autore un’ulteriore riflessione rispetto al tema religioso di un Illuminismo islamico che rischia non il giacobinismo – su questo l’autore, anche per le vicissitudini paterne, non ha dubbi – ma una kantiana religione nei limiti della pura ragione dal sapore un po’ insipido. La pagina in cui questo rischio emerge più chiaramente è quella dedicata al mancato sacrificio del figlio di Abramo (p. 36-39), in cui Akyol prende posizione a favore della lettura del mu‘tazilita ‘Abd al-Jabbār e del grande mistico Ibn ‘Arabī. Per essi il patriarca avrebbe semplicemente frainteso il comando divino, fidandosi troppo frettolosamente di una visione notturna, la più bassa forma di conoscenza profetica. Nella sua artificiosità, la lettura proposta del brano coranico (e del suo antecedente biblico) getta un fascio di luce sullo scoglio oscuro contro cui la mu‘tazila, pur con tutte le sue benemerenze, fa naufragio: il problema del male. È questa sfida esistenziale a costringere continuamente la religione a uscire dai porti tranquilli della pura ragione per affrontare le acque tempestose del mistero divino, alla ricerca non tanto di una giustificazione, quanto di una soluzione, di una guarigione.

 

L’invito è quindi, con sincera ammirazione all’autore per la lucidità e il coraggio della sua riflessione, di tornare a confrontarsi con la pagina di Abramo. E magari di farlo in conversazione con la teologia cristiana, come ha cominciato a sperimentare con il volume The Islamic Jesus.

 

Martino Diez

 

 

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