Se la “contabilità delle colpe” è impossibile, la riconciliazione è invece auspicabile
Ultimo aggiornamento: 02/07/2024 12:55:35
Ci vorrà il lavoro paziente degli storici per comprendere fino in fondo la tragedia siriana e le responsabilità di quanti vi sono implicati, a livello locale e internazionale. Ma non vi è dubbio che finora sul terreno abbia prevalso la logica dell’annientamento del nemico. L’escalation militare, in un gigantesco gioco a somma zero, non ha assicurato guadagni durevoli e l’unico risultato è stato un pauroso aumento della potenza distruttiva.
Gli eventi dell’estate hanno mostrato che il mondo non può limitarsi a stare alla finestra: l’incendio siriano, che divampa ormai da 2 anni e mezzo, rischia di estendersi ai Paesi vicini. Lasciare che un Paese di 20 milioni di abitanti si distrugga non è solo inaccettabile eticamente, è anche un errore politico. Di fronte al precipitare della situazione lo straordinario appello di Papa Francesco e la mobilitazione che ne è seguita hanno richiamato la necessità di una mediazione non unilaterale, quanto meno tra le potenze regionali coinvolte. E qua e là si inizia a invocare una riconciliazione. Ma che significato dare a questa parola per non ridurla a uno slogan vuoto? E soprattutto come attuarla?
Nel rispondere, può essere utile tenere presente l’insegnamento che altri conflitti recenti hanno da offrire. La storia del Novecento mostra che, quando due parti si combattono per anni, la “contabilità delle colpe” in nome di una pura giustizia retributiva diventa impossibile: ognuno dei contendenti tenderà a presentare la sua azione come una necessaria reazione, giustificata da un precedente torto. Anzi, questa contabilità non è solo impossibile. È anche controproducente, perché gli effetti di una riparazione completa delle colpe potrebbero rendere impossibile la vita sociale. Ecco perché le guerre civili, se non conducono all’annientamento di una delle fazioni, si concludono in genere con un’amnistia che stende una coltre di silenzio sull’accaduto. Piuttosto che distruggere il Paese, questa soluzione è sicuramente preferibile, ma essa presenta gravi difetti perché in realtà le ferite non sono sanate e la situazione è solo congelata. Il caso della Bosnia è esemplare in questo senso: gli accordi di Dayton hanno messo fine alle uccisioni, ma le comunità restano profondamente divise. Anche in Libano la memoria della guerra civile pesa come un non detto su gran parte delle nuove generazioni.
La riconciliazione s’inserisce proprio qui. Le due parti infatti accettano di essere condotte a un livello superiore, dove ciascuno rinuncia a una parte delle pretese legittime che potrebbe avanzare, per poter ricostruire su basi nuove la convivenza. È una logica diversa, che talvolta è guardata con sospetto da una certa estremizzazione dei diritti umani per cui bisogna continuare i processi finché l’ultimo colpevole sia stato condannato. Essa tuttavia può vantare anche esempi luminosi, come il Sudafrica di Mandela. Ed è una logica che finora ha sempre avuto un fondamento sostanzialmente religioso, come appare evidente proprio nel caso sudafricano.
«Che cos’è la guerra voi lo sapete, l’avete gustata. […] Se la fate sorgere, sorge odiosa e s’accende, se l’accendete, e s’attizza. E vi consuma come una mola il cuoio». Queste parole del poeta Zuhayr Ibn Abî Sulmâ risalgono all’Arabia preislamica, ma non hanno perso d’attualità. Oggi in Siria c’è bisogno anzitutto di far tacere le armi, arrestando il continuo flusso di combattenti stranieri. Ma una volta raggiunto questo obbiettivo, la soluzione non si potrà dire ancora completa senza una vera riconciliazione. L’intuizione dell’enorme valore non solo spirituale, ma anche civile di questi gesti, presente anche nel Corano (41,34 «Ma tu respingi il male con un bene più grande»), è per un cristiano iscritta nella vicenda stessa di Cristo. Servono perciò e serviranno sempre persone, dal grande leader all’uomo comune, capaci di spezzare il ciclo della violenza e della vendetta, dell’azione e della reazione attraverso gesti di perdono gratuito. Come il Padre François Mourad che insieme a tanti altri siriani sconosciuti ha accettato di morire «per il bene della Chiesa e la pace nel mondo e specialmente nella nostra benamata Siria».
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
© RIPRODUZIONE RISERVATA