Oppressi da una guerra che non risparmia nessuno, i cristiani vivono una delle stagione più cupe della loro bimillenaria presenza nel Paese

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Ultimo aggiornamento: 23/07/2024 15:20:55

Minoranze in Siria. Oppressi da una guerra che non risparmia nessuno, i cristiani vivono una delle stagione più cupe della loro bimillenaria presenza nel Paese. Nonostante il tentativo di mantenersi su posizioni imparziali, per molti l’unica via d’uscita è la fuga all’estero. Senza più ritorno.

 

Dal secondo semestre del 2012 il conflitto siriano è entrato in una fase preoccupante per il futuro della minoranza cristiana. Per la prima volta dal massacro di Damasco del 1860 – la cui memoria resta viva nonostante la distanza temporale – si pone seriamente la questione dell’avvenire della loro bimillenaria presenza su questa terra. La durata dei combattimenti, la radicalizzazione politica degli attori coinvolti – sia l’opposizione/le opposizioni sia il governo hanno superato il punto di non ritorno – la debolezza del progetto democratico, non lasciano presagire nulla di buono in merito alla possibilità di riprendere una vita normale in una Siria pacificata. Le immagini dei combattenti disponibili su internet così come quelle pubblicate dalla stampa internazionale mostrano inequivocabilmente e ripetutamente dei soldati di Dio animati dalla sola volontà di combattere le forze “empie” del regime di Damasco. L’idea non è battersi per una forma diversa di regime politico, ma imporsi con la sola azione militare. Le forze dell’opposizione si radicalizzano e ormai solo i più agguerriti vanno al fronte, senza timore. La caduta di Bashar al-Assad non è più un fine in sé, ma la chiave di volta che permetterà agli estremisti d’imporre il loro disegno. Un futuro che non sarà necessariamente sinonimo di “democrazia”, nonostante la buona volontà di diversi membri illuminati del Consiglio Nazionale Siriano (CNS).

In gioco sono entrate forze telluriche che oltrepassano ampiamente i confini della Repubblica araba siriana. Occorre riconoscere che il movimento spontaneo del popolo, animato agli inizi dalla richiesta di maggiori libertà, è in qualche misura cambiato. Non è stato possibile riprodurre uno scenario all’egiziana. L’escalation militare del regime, gli interventi stranieri, il caos in diverse zone “liberate” dall’esercito siriano libero, la proclamazione di un “emirato” indipendente da parte delle forze di Jabhat al-Nusra, gli attacchi contro i curdi accusati di sostenere il regime, la presenza di combattenti non siriani – ed europei – ispirati all’oscurantismo wahhabita modificano le rivendicazioni espresse nella primavera di collera del 2011 nelle strade di Der‘a, Homs e Hama. «Se dovessi esprimere il mio stato d’animo, in quanto persona che ha sostenuto e continua a sostenere la rivoluzione, direi che ho sentimenti contrastanti», scrive uno studente siriano di confessione siriaca rifugiato a Beirut.  «Non nascondo il mio senso di frustrazione quando “vedo” e “sento” i salafiti e i jihadisti che combattono nel Nord del Paese criticare i governi occidentali per il loro mancato intervento e accusarli poi di essere “cani cristiani”. Oggi direi piuttosto ai cristiani di partire, il nostro posto non è più in Oriente, è dall’Europa che forse riusciremo a ricostruirci nell’attesa di giorni migliori…»[1]. Ci vuole coraggio per fare discorsi di questo tipo, soprattutto in un momento in cui si rischia la vita per il solo fatto di esprimersi. Un discorso-verità che manifesta l’esasperazione di dover operare una scelta di campo nel momento in cui i giovani, cristiani e non, sono giustamente preoccupati per il loro futuro. Le comunità cristiane erano già indebolite e la questione di un’eventuale “partenza” le assilla ancora di più in tempo di crisi: nasce da qui l’amara costatazione di questo giovane.

 

La lezione del passato

La storia secolare dei cristiani d’Oriente non s’iscrive in una ricerca di libertà ma piuttosto in quella di protezione. Non ci troviamo in un sistema orizzontale in cui l’individuo-cittadino esiste come tale, ma in un sistema verticale che si definisce per il diritto acquisito di ciascuna comunità religiosa o etnica. I termini del dibattito democratico non sono gli stessi che in Occidente. La base della società continua a essere, nei fatti e nelle mentalità, l’appartenenza comunitaria – religiosa e non – e peraltro il diritto positivo applicato differisce da un gruppo all’altro. Il Consiglio Nazionale Siriano ha preso coscienza di questa indispensabile evoluzione:

 

Su questo punto abbiamo prodotto un documento essenziale – precisa Georges Chachan, membro del CNS – nel quale non si parla più di “maggioranza” o “minoranza”, ma di un concetto basato sulla cittadinanza: davanti alla legge tutti i cittadini siriani sono uguali nei diritti e nei doveri, indipendentemente dalla loro origine o religione. È evidente che questa visione di uguaglianza tra i cittadini va attuata. Non è un fatto scontato, né facile. È necessario che le minoranze etniche o religiose come gli assiri e i cristiani in generale partecipino attivamente ai cambiamenti e alle trasformazioni della società siriana. Non devono più rimanere spettatori, ma essere attori del loro futuro[2].

 

Se i siriani di confessione cristiana non si definiscono solo attraverso la loro appartenenza religiosa, le loro specificità culturali, e anche cultuali, ne fanno un elemento essenziale per comprendere la storia della Siria, come più in generale quella del Vicino e Medio Oriente. Senza risalire a San Paolo folgorato sulla via di Damasco, non è inutile ricordare che le antiche comunità cristiane di Siria, risalenti ai primi secoli della nostra era, incarnano allo stesso tempo una parte della memoria universale e il bisogno, comune a tutte le società, di un’alterità necessaria.

 

La tentazione dell’emigrazione

Anche se la maggior parte dei cristiani desidera riprendere una vita normale nei propri villaggi e nei propri quartieri, si può scommettere che molti di loro preferiranno tentare la fortuna all’estero, innanzitutto in Libano, e poi nell’Europa occidentale, in Francia, o anche in Nord America, a seconda delle possibilità di ottenere un visto e soprattutto in ragione delle disponibilità finanziarie. Dal 2003 il modello iracheno offre purtroppo l’esempio di un esodo continuo delle minoranze cristiane dal Paese. In Iraq infatti si calcola che circa la metà dei cristiani, su una popolazione stimata prima dell’intervento americano attorno agli 800.000 individui, siano sfollati: nella regione autonoma del Kurdistan nel Nord del Paese, o nei Paesi arabofoni limitrofi, e persino in Turchia, fino a Istanbul. Dal 2003 la Siria ha assorbito quasi 2 milioni di rifugiati iracheni, una ragione in più per i siriani di temere un’evoluzione analoga. «La situazione irachena è stata un vero caso da manuale per i cristiani di Siria, i quali hanno visto affluire circa 200.000 cristiani d’Iraq. Questi ultimi si trovano in una situazione grottesca, condannati a ritornare nel Paese dal quale erano fuggiti» spiega Frédéric Pichon, specialista di Siria e autore di una tesi sui cristiani di Ma‘lûla[3]. Se la storia della Siria e dell’Iraq divergono su diversi punti e se lo spirito siriano di convivenza tra le religioni – Islam e Cristianesimo – non è solo uno slogan politico ma una realtà, il triste spettacolo della paura di fronte alle minacce di un nuovo fondamentalismo parla da sé. L’unica differenza rispetto al contesto iracheno è che i cristiani di Siria non sono scelti come bersagli né accomunati a “un” invasore. I casi di persecuzioni religiose sono rari. Mons. Antoine Audo, Vescovo caldeo di Aleppo, non crede «che i cristiani siano perseguitati», ma li considera «in pericolo come i loro fratelli musulmani che soffrono»[4]. I casi di persecuzione religiosa sono ancora rari, ma in assenza d’informazioni sulle zone controllate dagli estremisti religiosi è meglio conservare una certa prudenza al riguardo. «Al momento sembra che tutti, Fratelli Musulmani e regime, siano d’accordo per preservare i cristiani. In questo senso l’esempio iracheno è stato utile. Si può anche dire che gli occidentali, e i russi, hanno lanciato un avvertimento verbale contro qualsiasi azione condotta nei confronti delle minoranze. Detto questo, si sono già verificati casi di abusi contro luoghi di culto cristiani e sciiti (le chiese dei villaggi di Ghassanieh e Jdeideh nella provincia di Lattakia e la moschea sciita di Zarzour a Idlib, saccheggiate nel gennaio 2013, N.d.A.). Oggi non è più una questione di libertà o dittatura, ma di sicurezza o caos. La gente non la pensa in altro modo. I drusi di Sueida, particolarmente lealisti, hanno costituito una milizia che si batte contro i ribelli sunniti di Der’a, così come hanno fatto una buona parte degli aleppini, sunniti compresi, disgustati dalle estorsioni dei ribelli che sono in realtà dei rurali che si prendono la rivincita sui cittadini ricchi», continua Frédéric Pichon. I toni non sono troppo dissimili in Georges Chachan: «Certamente siamo inquieti. Da circa otto mesi c’è una presenza più consistente di jihadisti stranieri, un fatto molto negativo, perché non conoscono la diversità siriana e provengono generalmente da Paesi in cui non c’è o non c’è più una presenza cristiana rilevante. Fortunatamente, i combattenti siriani più maturi e responsabili conservano finora il comando delle operazioni. Infine, contro le minoranze, i cristiani in particolare, vale una regola generale implacabile: più la situazione di violenza, d’instabilità e privazione continua, e più aumentano l’intolleranza, l’ignoranza, la barbarie, la xenofobia e la paura dell’altro».

 

I numeri dell’esodo

I cristiani siriani hanno cominciato a lasciare il Paese, seguendo il flusso generale degli altri siriani: si parla nel complesso di oltre 3 milioni e 200 mila sfollati, di cui circa 200 mila cristiani. I primi dati di cui disponiamo sono allarmanti. Secondo i rappresentanti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR) con sede a Beirut, il 29% dei cristiani d’Aleppo è già emigrato in Libano. Se n’è andato il 29% dei cristiani di Homs, il 21% di quelli Hassake, città nel Nord-Est della Siria, il 13% dei cristiani di Damasco e oltre il 50% di quelli di Hama, nel centro del Paese. Le partenze restano difficili da quantificare con precisione perché, a differenza dei siriani musulmani, i cristiani non risiedono nei campi profughi né nei campi palestinesi, come quello di Baddaoui nel Nord del Libano, ma si sistemano nelle famiglie, nelle parrocchie o nei monasteri[5]. A metà gennaio 2013 solo mille cristiani siriani erano ufficialmente censiti nel Paese dei cedri. L’emigrazione cristiana è più diffusa, più discreta e meno mediatica. Per esempio, tra i 200.000 siriani rifugiati nei campi della Turchia, si sono registrate solo poche famiglie cristiane. Questo perché il loro Paese naturale di attrazione rimane la montagna libanese. I più fortunati hanno già parenti o amici in loco, gli altri beneficiano di un aiuto locale, tra cui quello delle Chiese in tutte le loro diversità, greca, armena, siriaca o maronita[6]. Così, il patriarcato siro-cattolico di Beirut accoglie al suo interno diverse decine di famiglie. Intervistando i rifugiati si nota che l’idea di un ritorno in una Siria pacificata non è assolutamente all’ordine del giorno. Il governo della Repubblica d’Armenia ha persino offerto il suo aiuto all’eventuale insediamento dei siro-armeni sul suo territorio: le fonti diplomatiche affermano che metà dei 100.000 armeni di Siria sono già partiti. «I cristiani orientali hanno sicuramente una cosa in comune: una volta che decidono di partire, non ritornano più sui loro passi», conclude il giovane rifugiato siriaco nel suo messaggio. La storia dimostra effettivamente che non ha torto: nel Vicino Oriente i casi di “ritorno” sono rarissimi a eccezione forse della piccola comunità siriaca del Sud-Est della Turchia che progressivamente torna a occupare il suo santuario di Tur Abdin. Ma si tratta di un altro contesto.

 

Una popolazione variegata

La sociologia dei cristiani di Siria non è omogenea, da cui la complessità di descrivere un comportamento politico che si vorrebbe uniforme. Si stima che i cristiani siano il 5% della popolazione, forse un milione e mezzo di persone. Tra queste diverse confessioni, gli ortodossi sono maggioritari ma si contano anche maroniti, greco-cattolici, armeni e numerose Chiese di tradizione siriaca, unite o non unite a Roma. A differenza delle altre minoranze siriane come i drusi, gli alawiti o i curdi, i cristiani sono gli unici a non disporre di una porzione territoriale definita. Si distribuiscono in tutto il Paese con una preferenza naturale per le città, secondo un asse che va da Sud a Nord: tra i diversi centri urbani emergono Hama[7], Homs e Aleppo, rese famose dall’attualità. Esistono ancora comunità rurali nel centro del Paese così come nel Nord-Est della Siria, l’antico “becco d’oca” dell’epoca del Mandato francese, provincia diseredata in cui erano state sedentarizzate alcune migliaia di famiglie siriache in fuga dai massacri della prima guerra mondiale in Anatolia. Da allora la regione di Hassake, diventata prospera dal punto di vista agricolo, funge da retroterra per i numerosi rifugiati della provincia di Aleppo. Mons. Hindo, l’Arcivescovo siro-cattolico, spiega che devono provvedere ai bisogni di 400.000 nuovi arrivati… Poiché le comunicazioni con il resto della Siria erano state interrotte, ha chiesto un’assistenza di emergenza alle Nazioni Unite e al Primo Ministro iracheno: «I silos di grano sono stati saccheggiati e venduti a basso prezzo in Turchia […]. Vi preghiamo di soccorrerci molto rapidamente, inviandoci 600 cisterne di nafta, 300 cisterne di benzina e qualche tonnellata di farina…»[8].

 

L’indispensabile aiuto straniero

Di fronte all’inazione forzata, le gerarchie religiose s’impegnano nell’aiuto sociale, spesso con il sostegno di organizzazioni straniere come l’Œuvre d’Orient di Parigi[9]. «Riceviamo molte richieste di aiuto, spesso disperate – spiega il direttore Mons. Pascal Gollnisch – e ogni volta cerchiamo di rispondere secondo le nostre possibilità. Le associazioni che sosteniamo in Siria aiutano tutti, senza distinzioni di confessione. Per noi questo è essenziale. I gesuiti di Homs sono riusciti a riaprire tre scuole (i bambini non le frequentavano da un anno), distribuire alimenti, nafta, e farsi carico dell’affitto di numerose famiglie. A Marmarita, un villaggio greco-ortodosso vicino a Lattakia, sosteniamo i Padri paolini che hanno aperto una scuola per i figli dei rifugiati; lo stesso a Damasco dove il Vescovo maronita aiuta gli sfollati siriani, palestinesi o iracheni, o ancora ad Aleppo dove finanziamo l’ospedale Saint-Louis – con l’acquisto di materiali pesanti e medicine – che cura tutti i feriti. Potrei portare altre decine di esempi. Operiamo anche in Giordania, Libano, Turchia…». Oltre all’apporto di queste organizzazioni riconosciute, esiste una moltitudine di individui o associazioni più piccole che partecipano allo sforzo umanitario in Libano o direttamente in Siria. Sono congregazioni religiose ma anche movimenti laici come la Federazione Assira di Svezia[10], Paese che dagli anni ’70 accoglie una cospicua comunità siriaca proveniente dalla Turchia, dalla Siria e dall’Iraq. I bisogni sono urgenti. La crisi favorisce anche i rapimenti a scopo di riscatto. Questa pratica si va diffondendo e preoccupa le famiglie. La gente comincia ad aver paura di uscire di casa per andare al lavoro, a scuola o in chiesa. A Hassake, in una lettera datata 24 gennaio 2013, Mons. Hindo parla di quaranta rapimenti solo nella sua città. L’anno scorso, Padre Basilios Nassar è stato assassinato a Homs mentre tentava di negoziare la liberazione di un ferito.

 

Un nuovo pragmatismo

Dopo l’immobilismo dei primi mesi, i leader religiosi cristiani s’impegnano per la sicurezza dei loro fedeli e la preservazione dell’unità di una Siria multiconfessionale. Con pragmatismo si moltiplicano gli appelli alla pace. I cristiani sono stati inizialmente criticati e accusati di collusione con il regime, ma non è raro oggi che siano sostenuti da responsabili musulmani. Molte Chiese hanno reagito e condotto un’operazione di pulizia, emarginando o anche allontanando gli elementi che ostentavano opinioni apertamente filo-Assad e le cui manovre suscitavano l’irritazione dei fedeli, tanto in Siria quanto all’estero. In effetti la prudenza è d’obbligo. Durante la sua prima conferenza stampa Mons. Youhanna Yazigi, nuovo Patriarca della Chiesa greco-ortodossa, conferma questo spirito di apertura: «Ciò che accade a noi, sta accadendo anche agli altri. In Siria siamo tutti nella stessa barca, musulmani e cristiani, gli uni accanto agli altri ad affrontare le difficoltà». Il Patriarca ha invitato i belligeranti a rinunciare «alla violenza in tutte le sue forme». «Il dialogo dev’essere basato sull’accettazione dell’altro» – ha affermato Mons. Yazigi, concludendo con questo appello vibrante: «Noi cristiani siamo e restiamo in Siria. Pensiamo che Cristo sia sempre presente in questa regione dove il Cristianesimo è nato»[11].

Con questo stesso spirito, il 14 febbraio 2013, diversi movimenti cristiani siriani si sono riuniti ad Antakya – l’antica Antiochia – nel Sud-Est della Turchia, su iniziativa dell’associazione “Siriani cristiani per la Democrazia”[12]. Si tratta di una ventina d’intellettuali, religiosi e uomini d’affari di confessione cristiana – membri di diverse comunità – tra cui Michel Kilo, storico oppositore del regime di Damasco, che hanno annunciato insieme una serie di iniziative per mobilitare le energie a vantaggio del loro Paese e «accelerare la liberazione dall’autoritarismo», decidendo in particolare di concentrare i propri sforzi nell’azione umanitaria, i progetti di ricostruzione, l’educazione e la sanità, tanto numerosi sono i bisogni.

Sicuramente questa iniziativa coraggiosa ha irritato i piani alti di Damasco, visto che, secondo alcune fonti, nei giorni successivi i servizi della Presidenza hanno intrapreso azioni di disinformazione contro diverse persone presenti alla riunione. È la dimostrazione che la questione delle minoranze cristiane in Siria rimane sensibile, oltre che al centro di molteplici tentativi di manipolazione.

 

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[1] Intervista telefonica del 3 febbraio 2013 a cura dell’autore.
[2] Intervista a Georges Chachan, membro del gruppo assiro al CNS, realizzata il 7 febbraio 2013. Il termine “assiro” unisce in una rivendicazione identitaria nazionale i siriaci di Siria e d’Europa. La questione è delicata perché non tutti si riconoscono in questo appellativo: alcuni affermano l’identità “aramaica”, altri quella “siriaca”. Il mondo arabo in generale parla di ashûrî come di realtà politica dopo il coinvolgimento crescente dell’Organizzazione Democratica Assira nei ranghi dell’opposizione.
[3] Frédéric Pichon, Maaloula (XIXe-XXIe), Du Vieux avec du Neuf, Histoire et Identité d’un Village Chrétien de Syrie, Presses de l’IFPO, Beyrouth 2010 e Tancrède Josseran, Florian Louis et Frédéric Pichon, Géopolitique du Moyen-Orient et de l’Afrique du Nord, PUF, Paris 2012.
[4] Dichiarazione resa il 21 febbraio 2013 ad Amman, in occasione di una conferenza regionale dell’organizzazione umanitaria cattolica Caritas.
[5] Un ringraziamento a Luc Balbont (rivista «Pèlerin») che risiede in Libano per la precisione di queste informazioni.
[6] La Siria, come il vicino Libano, è uno di quei Paesi in cui sono rappresentate tutte le Chiese d’Oriente. Esistono una mezza dozzina di riti diversi, tutti radicati in una storia regionale molto antica.
[7] Hama era già stata in parte distrutta nel 1982 durante i primi scontri tra i Fratelli Musulmani e il regime baathista.
[8] Agenzia Fides, 2 gennaio 2013.
[9] Intervista telefonica del 6 febbraio 2013 (www.oeuvre-orient.fr).
[10] Dispiace che i responsabili di questa federazione che raggruppa una trentina di associazioni abbiano rifiutato di rispondere alle nostre domande, perché la loro azione merita di essere valorizzata.
[11] AFP, conferenza stampa del 22 dicembre 2012.
[12] http://syrian-christian.org