Paolo Martinelli
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:45:15
La testimonianza come modalità comunicativa del vero è un tema affascinante e rischioso nello stesso tempo, perché va a toccare elementi di un dibattito sempre in evoluzione. Nell'affrontare questo tema vogliamo partire dall'ipotesi positiva, messa in rilievo da non pochi pensatori contemporanei, che vedono nell'essere testimone della verità la caratteristica più specifica dell'essere umano. Gabriel Marcel, ad esempio, si domanda: «L'essenza dell'uomo non sarebbe proprio quella di un essere che può testimoniare?». Nel suo famoso saggio L'herméneutique du témoignage, Paul Ricoeur afferma che, oltre alla testimonianza storica e giuridica, esiste una testimonianza "filosofica" ossia dell'assoluto, nell'ermeneutica della quale l'uomo si comprende, cosicché egli stesso appartiene alla testimonianza, come il profeta alla Parola che deve annunciare. Nell'ambito della fenomenologia francese è Jean-Luc Marion ad aver descritto l'uomo come un essere che è costituito testimone della donazione, ri-conoscendo la quale egli si ri-conosce. «Costituito testimone, - sintetizza Gaiffi - il soggetto resta al servizio della verità, ma non può pretendere di esserne il produttore». Klaus Hemmerle nel suo studio su Verità e testimonianza ha affermato: «Il fatto che la verità si dona, chiamando al dialogo, all'ascolto, alla risposta, alla responsabilità, all'impegno, e a produrre testimonianza, questo costituisce l'essere dell'uomo». Tutte queste osservazioni sono accomunate dal fatto di considerare il nostro tema a partire da un rilievo antropologico. Ciò comporta che la relazione tra verità e testimonianza si intrecci inevitabilmente con il tema della libertà. Seguendo l'etimo, sia latino che greco, del termine "testimone-testimonianza", siamo portati a considerare il carattere relazionale e "memoriale" implicato in tale modalità comunicativa. Il testimone, infatti, è colui che sta nel posto del "terzo" mettendo in comunicazione coloro che altrimenti rimarrebbero estranei. Qui siamo di fronte ad una modalità comunicativa il cui veicolo è rappresentato dalla libertà del soggetto che si espone nella relazione, rimandando e veicolando obiettivamente altro da sé. Da ciò si capisce perché la rivelazione ebraico cristiana sia inestricabilmente legata al carattere testimoniale della verità. Percorriamo ora, seppur in modo rapsodico, la modalità con cui la fede cristiana ha sentito nel tempo la testimonianza della verità, per vedere come essa illumini anche la nostra condizione antropologica odierna. Già nell'Antico Testamento troviamo la nota affermazione nel decalogo: «Non pronunciare falsa testimonianza» [Dt 5,20; Es 20,16]. Il "comunicare il vero", costituisce uno dei comandamenti fondamentali che permea gli scritti veterotestamentari. L'uomo è se stesso, afferma la Scrittura, solo quando testimonia il vero. Colui che depone il falso è sotto la minaccia della maledizione di Dio [Es 23,1; Dt 19,16ss]. Egli, infatti, è "il Verace per eccellenza" e l'uomo non può che essere chiamato alla veracità della testimonianza. Nel Nuovo Testamento il lessico della testimonianza (martys e i suoi derivati) viene utilizzato 198 volte. Colpisce soprattutto la presenza del termine negli scritti giovannei: il Vangelo, le Lettere e l'Apocalisse sono determinati dall'inizio alla fine dalla categoria della testimonianza, tanto da apparire come sinonimo della stessa parola "rivelazione". Giovanni il Battista [Gv 1,29-34] e il «discepolo che Gesù amava» [Gv 19,35], ma soprattutto le opere di Gesù [Gv 10,25], il Padre [Gv 5,36s] e lo Spirito Santo [Gv 16,13s] rendono testimonianza. Gesù stesso «è venuto a dare testimonianza alla verità» [Gv 18,37]; egli è, come si dice nell'Apocalisse, «il testimone fedele» [Ap 1,5]. Da ciò si comprende perché, dall'epoca patristica fino alla grande scolastica, il testimone, il martire in particolare, assume una importanza capitale per la vita della Chiesa e per la riflessione teologica. Origene afferma: «Chiunque rende testimonianza alla verità, sia a parole, sia con i fatti o adoperandosi in qualsiasi modo a favore di essa, si può chiamare a buon diritto testimone. Ma il nome di testimone (martyres) in senso proprio, la comunità dei fratelli, colpiti dalla forza d'animo di coloro che lottarono per la verità o la virtù fino alla morte, ha preso la consuetudine di riservarlo a quelli che hanno reso testimonianza al mistero della vera religione con l'effusione del sangue». Tutto ciò nella consapevolezza, come dice Sant'Agostino che «non è la pena che fa il martire ma la causa». È la verità comunicata che rende l'uomo testimone e martire. Per questo Confessio e intellectus fidei si sono in un certo senso appartenute vicendevolmente fin dal sorgere dell'esperienza cristiana. L'atto testimoniale, come la confessione e il martirio, non era ritenuto esteriore ma essenziale alla verità rivelata stessa. Nei Padri, in particolare, si nota che non vi è intelligenza dei misteri cristiani a prescindere dalla dimensione testimoniale della fede. Troviamo qui una certa analogia con la circolarità presente nel medesimo periodo tra teologia e santità. Come osserva von Balthasar, il santo non era considerato come realtà esterna all'intelligenza teologica, ma piuttosto come condizione del suo esercizio e sua peculiare espressione. Allo stesso modo, la dimensione martiriale era considerata modalità con cui la verità di Dio si comunica da credente a credente, da libertà a libertà. Non a caso, grandi teologi nei primi secoli sono stati anche martiri (Giustino, Cipriano) ed il culto dei martiri ha avuto sempre un posto di rilievo nelle considerazioni teologiche (Origene, Basilio). Esaltazione Romantica Nel secondo millennio, come per la circolarità tra teologia e santità, anche la relazione confessio et intellectus fidei perde gradatamente la sua densità, in relazione alla tendeziale divaricazione tra il vero e il buono, tra la verità e la libertà, provocata, da una parte, da una riduzione intellettualistica della verità, e dall'altra da una crescente soggettivizzazione dell'esperienza spirituale, che caratterizzerà la modernità occidentale. Un sintomo, a tale proposito, è riscontrabile nel fatto che l'apologetica moderna tenderà ad affidare all'argomentazione filosofica la "difesa" della fede, mentre la testimonianza dei santi e il martirio verranno considerati solo dalla "spiritualità". È vero che l'apologetica manualistica pone tra gli "argomenti" il martirio, tuttavia non in quanto comunicazione di verità, ma come "miracolo morale" di coerenza fino alla morte con la fede profes-sata. Il martirio insieme ai miracoli e gli altri segni vengono considerati come signa externa rispetto alla verità creduta e non come forma comunicativa della verità stessa. Non è un caso che anche nel romanticismo possiamo trovare l'esaltazione del martire (ad es. in Michael Reinhold Lenz), tuttavia, non a causa della verità comunicata ma della sua eroicità e grandezza (che lo rende, peraltro, simile ai toni del titanismo paganeggiante del Prometeo di Goethe). Il martire viene in tal modo considerato più per la sua autoreferenza eroica che per essere comunicatore di verità. Paradossalmente, ma in fondo coerentemente ad una certa esaltazione romantica del martire, si sviluppa anche un'avversione al testimone usque ad effusionem sanguinis proprio a causa della sua pretesa veritativa. La critica al martirio come attestazione di verità trova il suo culmine e disprezzo in Also Sprach Zarathustra, in cui si denuncia la stoltezza di voler dimostrare la verità mediante il "sangue". Proprio questo appare a Nietzsche come l'elemento più contrario alla comunicazione della verità: «Il sangue è il peggior testimone della verità». Il padre del nichilismo contemporaneo solleva la sua critica introducendo una sorta di decostruzione della pretesa del martire, la cui azione sarebbe spiegabile più con i condizionamenti culturali e sociali di appartenenza del soggetto che con la verità stessa che si vorrebbe comunicare. Qui trova indubbiamente una delle sue radici il reiterato invito del pensiero postmoderno a rinunciare alla verità stessa come condizione per poter esercitare autenticamente la libertà nella forma pacifica della tolleranza. Ogni affermazione di verità assoluta sembrerebbe incompatibile con l'idea moderna di libertà. È di fronte a questo conflitto apparentemente insanabile tra verità e libertà, presente nei nostri attuali codici culturali, che la testimonianza trova il terreno migliore per essere riscoperta come modalità di comunicazione della verità. Infatti, la mera rinuncia alla verità in favore di una libertà autoreferenziale si è già tragicamente attestata foriera di una "abolizione dell'uomo" stesso (C.S. Lewis) in favore di nuovi poteri massificanti, magari esercitati in nome della "scienza". L'uomo, in realtà, non può rinunciare al desiderio della verità senza rinunciare ultimamente anche alla propria libertà. Infatti, come ha affermato Giovanni Paolo II, «il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell'uomo». D'altra parte, una verità meramente intellettualistica e astratta, di fronte alla quale la libertà dell'uomo dovesse solo flettersi, non sarebbe in grado di risvegliare nell'uomo la sua desiderabilità. L'autentica verità, al contrario, non può che essere desiderabile, per quanto chieda la più profonda conversione: «La verità vi farà liberi» [Gv 8,32]. La forma della verità salvifica, pertanto, non può essere quella della dimostrazione cogente, ma quella "kenotica" [Fil 2,7] della testimonianza, che si offre nella umanità di Gesù di Nazareth, esponendosi alla libertà dell'uomo: Cristo, infatti, è la verità-in-persona (De Lubac) che dona se stessa nell'incontro con noi. In questo prospettiva, la testimonianza emerge come modalità specifica con cui la verità incondizionata di Dio si comunica storicamente alla libertà situata dell'uomo, esigendola ed esaltandola. Dice suggestivamente Benedetto XVI: «La testimonianza è il mezzo con cui la verità dell'amore di Dio raggiunge l'uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell'uomo». Del resto, è la libertà stessa, nella sua ineliminabile struttura di "automovimento" e di "autoapertura" (Balthasar) a sollevare un'istanza incondizionata che solo la verità di Dio può compiere, facendo così uscire la libertà stessa dalla angusta alter¬nativa tra un'autoreferenza narcisista e un'estraniazione alienante. L'uomo, infatti, in ogni atto della sua libertà è chiamato ad aprirsi al Fondamento assoluto e trascendente. In tal modo scopriamo come ogni autentico atto di libertà dell'uomo sia atto testimoniale nei confronti dell'Assoluto. Qui ci è possibile riscoprire anche il senso della definizione classica di verità come adaequatio rei et intellectus, uscendo dalle strette maglie di una sua interpretazione concettualistica, e riconoscendo alla verità il carattere di incontro tra l'uomo e la realtà. Come ha suggestivamente affermato l'allora Cardinale Ratzinger: «Percepire la verità è un fenomeno che rende l'uomo conforme all'essere. È un "convenire-in-uno" di io e mondo, è accordo e consonanza, è esser-donati ed esser-purificati». Relazione Comunionale In questa prospettiva si può comprendere tutta l'attualità della categoria della testimonianza della verità in rapporto all'evento di Gesù Cristo. Egli si mostra a noi, in forza del suo rapporto singolare con l'Abbà - Padre nella potenza dello Spirito Santo, come la verità [Gv 14,6] che rende testimonianza a se stessa nel mondo. Gesù è colui vedendo il quale si vede il Padre [Gv 14,9]. Egli è il "mandato dal Padre" a fare la sua volontà, alla quale aderisce in modo incondizionato. Gesù si concepisce a tal punto dal Padre e per il Padre da essere sua trasparente testimonianza nel mondo. In tal modo Gesù manifesta una libertà pienamente compiuta anche nel dolore e nella morte perché aderisce drammaticamente alla volontà paterna: «Non la mia ma la tua volontà» [Mt…,42]. Alla luce della testimonianza di Gesù - essere dal Padre e per il Padre - si smaschera anche la menzogna del peccato: il concepirsi da sé e per sé, che chiude l'uomo nel baratro solitario del male, dove è misconosciuta ogni alterità. All'uomo che incontra Cristo è offerta, invece, la verità salvifica capace di liberare da ogni autochiusura, aprendo l'esistenza alla libertà dei figli di Dio. La verità testimoniata dalla carne crocifissa e risorta del Figlio di Dio altro non è che l'amore trinitario in cui «ogni Persona è se stessa proprio perché è per l'Altra, il Padre per il Figlio come il Figlio per il Padre nel loro comune Spirito» [Gv 17]. Infatti, come ha affermato suggestivamente von Balthasar «fuori della verità dell'amore tra il Padre e il Figlio non c'è nessuna verità». Essa, infatti, possiede in sé il principio di "unire nella differenza". La verità rivelata ha in sé la forma della relazione comunionale. La testimonianza così intesa si presenta come l'offerta che la verità vivente di Dio fa di se stessa ad ogni uomo nella sua concreta situazione: essa rivela la "contemporaneità" tra verità donata e libertà dell'uomo. Se Cristo fosse solo un personaggio storico portatore di alcuni valori morali cui ispirarsi, allora egli rimarrebbe confinato irrimediabilmente nel passato, confermando l'orrendo fossato, di cui ha parlato Lessing, tra verità storiche contingenti e verità universali necessarie. La testimonianza, invece, si mostra come il luogo umano in cui la verità permane vivente nella storia, offrendosi intatta in tutta la sua novità all'uomo di ogni tempo. La verità di Dio si mostra tale perché essa può continuamente automediarsi nella storia attraverso la "testimonianza della Chiesa", corpo di Cristo, la quale ha il suo centro nel mistero eucaristico, sacramento supremo della sua contemporaneità. Proprio nell'Eucaristia, infatti, dalla quale «la Chiesa rinasce sempre di nuovo», la libertà credente trova ogni giorno la sua forma autentica. Gesù Cristo rimane presente nella storia oggettivamente nel sacramento dell'eucaristia ed esistenzialmente in ogni membro della Chiesa, mediante la sua azione testimoniale. Per questo il cristiano è chiamato ad esporsi dentro le circostanze nelle quali il misterioso disegno di Dio lo vorrà collocare. Infatti, proprio alla luce dell'orizzonte sacramentale della rivelazione cristiana, il credente sa riconoscere ogni circostanza come circostanza testimoniale. Esporsi all'Altro Nella prospettiva della testimonianza come comunicazione della verità che si offre inerme alla libertà di ogni interlocutore, si aprono indubbiamente nuove strade significative oggi, nel tempo in cui i fenomeni della globalizzazione, dell'interculturalità e del meticciato di culture e di civiltà stanno rapidamente ridisegnando le mappe della nostra convivenza. Una comunicazione meramente concettuale di verità rischia inevitabilmente di non incontrare l'uomo reale nella sua complessità. La testimonianza, invece, pur non togliendo nulla al rigore del pensiero critico e della formulazione dogmatica riguardo alla verità rivelata, si presenta come evento comunicativo ed implica, pertanto, il fenomeno umano dell'incontro, nella sua ineliminabile imprevedibilità. Il testimone della verità non è comunicatore di una propria opinione. Egli sa che la verità che gli è stata donata ha già abbracciato ogni possibile "altro", in quanto incluso nell'abbraccio del Figlio di Dio che muore sulla croce perdonando assassini e traditori. Per questo chi ha incontrato Cristo ed è stato reso da lui testimone, si apre e si espone all'altro sapendo di comunicare una verità che ha già coinvolto ogni altro ed anche ogni possibile rifiuto. In questo senso la testimonianza cristiana non teme l'incontro con nessuno, ma tutto può cogliere e valorizzare come situazione testimoniale. Questo è il motivo per cui il "martire cristiano", a cominciare da Gesù Cristo stesso, può dare la vita amando anche quel destinatario che si chiude violentemente alla testimonianza della verità. Qui apparentemente ogni processo comunicativo sembrerebbe interrompersi irrimediabilmente. Con il rifiuto della testimonianza e con l'eliminazione fisica del testimone la missione apparirebbe fallita. In realtà, il martire coinvolge nel suo atto il persecutore che vorrebbe rifiutare quella offerta di verità. Paradossalmente, proprio nell'atto di rifiuto della testimonianza, atto accolto liberamente dal martire stesso nel perdono offerto, si mostra il carattere incondizionato della verità di Dio. Il martire, si afferma nella Fides et Ratio, «è il più genuino testimone della verità sull'esistenza. Egli sa di avere trovato nell'incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà mai strappargli questa certezza» (n. 32). Pertanto, la testimonianza non è solo prova esterna della verità rivelata, ma forma della sua comunicazione. Nell'autentico testimone riaccade, per così dire, la novità portata da Cristo: «Come il Padre ha mandato me così anch'io mando voi» [Gv 20,21]. Al contrario, si deve dire con forza, l'attentatore suicida, erroneamente chiamato martire, «non può essere vero testimone, perché decide positivamente di prescindere dalla sofferenza della vittima, rivelando così un disprezzo radicale per la sua persona nel sacrario costitutivo della sua libertà». La sua azione rimane ottusamente autoreferenziale e necessariamente estrinseca ad ogni verità, andando così a suffragare inesorabilmente l'obiezione sollevata da Nietzsche. Vorrei ricordare, in conclusione, due eventi del nostro tempo che ci appaiono particolarmente eloquenti. Si pensi innanzitutto alla testimonianza del francescano San Massimiliano Kolbe resa nel campo di concentramento di Auschwitz, dove egli muore prendendo letteralmente il posto di un altro condannato a morte per rappresaglia. Qui siamo di fronte ad una testimonianza in cui brilla l'evento stesso di Cristo che muore "al nostro posto" per comunicare l'amore più grande, quello che sa amare sino alla fine. Infine, pensiamo alla testimonianza ancor più vicina ai nostri giorni dei monaci trappisti di Tibhirine in Algeria, trucidati da esponenti del fondamentalismo islamico. In particolare la pagina di diario in cui il priore Christian de Chergé esprime il suo perdono "in anticipo" ai suoi aguzzini, nella speranza di rincontrarli nella luce dell'unico Padre, fa brillare qualcosa di assoluto in cui la verità di Dio continua a mostrarsi a noi contemporanea e ad offrirsi alla nostra libertà. Questi episodi, come tanti altri noti e meno noti che accadono anche ai nostri giorni, non sono eroismi intrisi di romanticismo; sono espressione sconvolgente di come la verità di Dio sappia dare testimonianza di se stessa nel tempo, incessantemente, attraverso i santi e i martiri. Infatti, «soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».