L'Islam si adatta ai contesti più disparati dando vita a vari modelli di civiltà
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 10:27:35
Recensione di Armando Salvatore, The Sociology of Islam. Knowledge, Power, Civility, Wiley Blackwell, Chichester 2016.
Poco noto al di fuori degli ambienti accademici, probabilmente anche a causa della complessità teorica dei suoi scritti, Armando Salvatore, professore di Global Religious Studies alla McGill University di Montréal, è uno dei più interessanti studiosi contemporanei di Islam, da anni impegnato in un percorso di ricerca che punta a comprendere questa grande religione sottraendola alla lente deformante dell’orientalismo, ma senza farsi intrappolare nei vicoli ciechi degli studi post-coloniali. Anche il suo ultimo lavoro, The Sociology of Islam. Knowledge, Power and Civility, primo volume di un progetto di trilogia, va in questa direzione. Il libro indaga il modo in cui nell’Islam il rapporto tra la conoscenza e il potere ha dato forma a modelli di civiltà (civility), intesa come l’insieme di norme, costumi, comportamenti e modi di auto-disciplina che, in maniera quasi invisibile, garantiscono il legame sociale impedendo l’esplosione di conflitti.
In questo senso la civiltà è «essenziale per il tessuto sociale tanto quanto la gravità (considerata in fisica la più debole delle forze fondamentali) lo è per il mondo fisico» (p. 25). Muovendo da questa angolatura, Salvatore intende proporre un concetto di civiltà più trasversale di quello contenuto nell’idea di “società civile”, troppo legato a “traiettorie egemoniche occidentali” e in particolare all’illuminismo scozzese, il quale postula, infondatamente secondo Salvatore, un legame sociale basato sulla fiducia spontanea tra individui che perseguono il proprio interesse. Allo stesso tempo la nozione di civiltà come civility permette di evitare le connotazioni ideologiche contenute nella categoria di civiltà come civilization, un termine che, oltre a rievocare il passato coloniale, nelle scienze sociali finisce per istituire una perfetta sovrapposizione tra religione e cultura, fino alla sua cristallizzazione nel “mito” (così lo chiama Salvatore), dello “scontro di civiltà”.
Per superare queste distorsioni, Salvatore si affida da un lato al filosofo italiano Giambattista Vico, e dall’altra allo storico americano dell’Islam Marshall Hodgson. Il primo, contemporaneo degli illuministi scozzesi, fornisce una spiegazione della coesione sociale alternativa alla visione “commerciale” fondata sul contratto. Il secondo concepisce l’Islam «come un’ecumene che attraversa più civiltà (transcivilizational) più che come una civiltà monolitica autosufficiente» (p. 31). Inoltre Hodgson, rovesciando un paradigma consolidato dell’orientalismo, non situa l’apogeo dell’Islam nell’epoca d’oro del califfato abbaside, ma in quelli che lui chiama i “periodi di mezzo”, cioè i secoli successivi alla fine del califfato, in cui l’Islam conobbe la sua massima espansione, facendo leva in particolare sul connubio tra reti commerciali e confraternite sufi. Nel momento in cui perde la sua solidità istituzionale, l’Islam mostra la sua capacità di adattarsi ai contesti più disparati, dando vita a un ethos cosmopolita e a modelli di civiltà fondati da un lato sulla normatività della sharī‘a e dall’altra dalla cultura “laica” dell’adab, un termine che indica al contempo la letteratura di corte e le buone maniere.
Secondo Salvatore dunque, contrariamente a quanto afferma il discorso orientalista, non è vero che l’Islam sia incapace di un rinnovamento endogeno. È vero piuttosto che il dominio coloniale lo ha costretto in una griglia, quella vestfaliana, che ne ha soffocato le potenzialità: «Mentre la civiltà (civility) precoloniale era fondata su un fragile equilibrio di connettività sociale, autonomia individuale e distinzione culturale tra strati sociali, la cornice dello Stato-nazione che fa da matrice alla moderna società civile non è stata capace di salvaguardare questo equilibrio nel lungo periodo e sul piano globale. Il difetto di universalità dell’egemonia europea è evidenziato proprio dalla ricorrenza di questi squilibri» (p. 253). L’analisi di Salvatore sembra minimizzare i problemi creati dall’incontro tra Islam e modernità. Ma la sua riflessione pone una questione decisiva, che tra l’altro va ben al di là dei confini della ricerca accademica: il mondo in cui viviamo è globale, ma continua a essere incapace di universalità.
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