Un Paese sterminato, il più esteso dell'Africa, e ricco di risorse; un regime islamico alleato con la Cina; le ferite della lunghissima guerra tra nord e sud ancora aperte; il disastro della regione del Darfur; la vita della Chiesa, intensa e drammatica. Viaggio in Sudan, dove l'unico tempo che conta è il presente.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:49
Si sono ammazzati per decine d'anni, il Paese si è spaccato in due, il nord contro il sud, o forse anche in più pezzi, eppure ai crocicchi delle strade del Sudan restano appesi agli alberi, antichi come questa terra, vasi lunghi carichi di acqua, pronti a rispondere alla sete di chi passa di lì. Capita di vedere qualcuno che si ferma davanti a queste terrecotte capaci di tenere fresca la loro acqua anche nelle stagioni più torride, allunga il braccio per afferrare la ciotola che funge da bicchiere e dissetarsi un po', sotto il sole che sempre qui scalda e disidrata. Suscitano una domanda questi vasi: perché uno dovrebbe preoccuparsi di versare dell'acqua per uno sconosciuto che forse prima o poi li incrocerà? Ma ci si deve abituare a provocazioni e interrogativi qui, nel più grande Paese dell'Africa, un coacervo di violenza e di distanze, ma anche di avvicinamenti e incroci, uscito solo nel gennaio 2005 da una serie di guerre civili eterne e di colpi di stato. Dall'indipendenza, ottenuta nel 1956, a oggi sono stati continui gli scontri, le razzie e gli incendi di villaggi interi, le sparizioni e gli arresti di uomini accusati di tradimento, le fughe e migrazioni di migliaia e migliaia di famiglie dalle loro case. Anni che hanno seminato nel Sudan del Nord, e soprattutto nel Sud teatro degli scontri principali, miseria disperata e disorientamento tra chi oggi prova a ritornare a casa sua, nella sua città d'origine, dove non ritrova più nulla, non i mezzi per ricominciare con un lavoro, non il proprio campo da coltivare. In vaste regioni non arriva l'acqua, sono rare e a buche le strade, inesistenti le vie di collegamento tra nord e sud, fatta eccezione per la via aerea. Anche la comunicazione telefonica, intermittente tra le due parti del Paese, contribuisce a mantenere larghe le distanze. C'è una parola che definisce questa incertezza e torna a ritmare ogni osservazione sul Sudan: "displaced", "sfollati", e sta incollata ai milioni di persone fuggite dalle zone di guerra, in cerca di posti più sicuri all'interno dei confini del Sudan, verso Khartoum o, subito fuori, Uganda, Kenya. Si parla di circa quattro, cinque milioni di persone, un numero che, se paragonato alla popolazione complessiva di 34.600.000 abitanti, mostra tutto il suo peso. Come altri Paesi del sud del mondo, anche il Sudan oggi, dopo la firma del CPA (Comprehensive Peace Agreement) del gennaio 2005, sta rinascendo sul terreno insidioso della contraddizione dei pochissimi ricchi per i troppi poveri: chi vive nella periferia della capitale Khartoum in case costruite di fango, scalzo e affamato, può arrivare a vedere all'orizzonte crescere palazzi di lusso di imprese soprattutto asiatiche sono cinesi le prime tredici compagnie impegnate a investire in Sudan ripagate del prezioso petrolio. La crescita è rapida perché il Sudan è ricco di risorse naturali: la crescita del PIL ha toccato il 10% nel 2006 e si attende un balzo ulteriore nel 2007. Le ricchezze sono l'oro verde e l'oro nero: la terra resa fertile dal Nilo permette un'agricoltura che garantisce il 39% del PIL, mentre il petrolio, oggetto di contesa continua tra le parti, solo nel 2007 sarà esportato per un valore di oltre 13 miliardi di dollari. Un giro sulle scale mobili di Afra, il primo centro commerciale global di Khartoum, con tanto di camicie italiane in vetrina, o un passaggio nel cantiere del business district che sta sorgendo nei pressi della confluenza dei due Nili grazie ai cospicui investimenti di Cina, Malesia, Singapore, come anche Libia, Arabia Saudita e altri Paesi del Medio Oriente, potrebbero proiettare la guerra all'indietro nel tempo, far creder che per il Paese che sta lavorando per "implementare la pace", come si usa dire da queste parti, quella sia una stagione chiusa, archiviata; se non fosse ancora aperta e sanguinante la ferita del Darfur. In questa regione occidentale si è riacceso nel 2003 un confitto tra guerrieri a cavallo, i janjaweed, nomadi sospettati di essere spalleggiati da Khartoum, e i black, africani in genere di tribù di agricoltori che vivono lì, accusati di essere separatisti ribelli nei confronti del governo centrale. Il bilancio di quello che già nel 2004 Colin Powell, allora Segretario di Stato americano, definì «genocidio» è difficile da quantificare, ma pare arrivi a 300mila morti e più di due milioni di profughi. «Tempo fa ho raggiunto una località del Darfur che conoscevo come un centro vivace, pieno di vita e migliaia di residenti, racconta Jervas Mawut, 37 anni, padre comboniano da una decina d'anni e parroco di Nyala Parish ma sono arrivato il giorno dopo il passaggio dei janjaweed. Era stata completamente rasa al suolo». La vicenda del Darfur contribuisce a smontare anche le analisi semplicistiche di chi ha tentato di spiegare la guerra tra nordisti e sudisti, che ha coinvolto tutto il Paese, come uno scontro tra musulmani e cristiani, e rimanda alla complessità della storia di questo Paese che come medie nazionali conta 70,3% di musulmani sunniti, 16,7% di cristiani, 11,9% di animisti e un 1,1% di altri, e si divide in centinaia di etnie e tribù. Gli studiosi individuano cinque gruppi etnici principali: i "nerissimi" di carnagione e alti di statura, divisi tra i dinka, i nuer, i nuba, ecc., che vivevano di caccia, pesca e allevamento; il ceppo dalla pelle meno nera, discendenti di Cam, figlio di Noè, secondo la tradizione, coltivatori sedentari, come i fur, i masalit, ecc; i bega, agricoltori provenienti dall'Asia attraverso il Mar Rosso; i nubiani che vivevano nella zona tra Assuan e Debba; infine il gruppo degli arabi, che entrarono in Africa prima dell'Islam, seguendo la via del Nilo, del Mar Rosso e attraverso il Sahara. Qui prima dell'epoca coloniale, in particolare tra il V e il XV secolo, si imposero inizialmente tre e poi due grandi regni cristiani, che estesero la loro influenza nel sud e nell'ovest, includendo le montagne Nuba e il Darfur, arrivando a toccare il regno cristiano di Axum, nell'attuale Etiopia. Sembra che il Cristianesimo si sia diffuso rapidamente nella zona della Nobadia, a settentrione, tanto che in una sua lettera Longino, primo Vescovo di questa Chiesa, nel VI secolo, scrive: «Il popolo fa ressa a migliaia per entrare nella via della salvezza». In seguito, già attorno alla metà del VII secolo, l'armata islamica, spinta dallo zelo ereditato dal profeta morto da poco, avviò i primi tentativi di invasione di questi regni cristiani. Ma fu solo attorno al tredicesimo secolo che si avvertì, in modo pesante, la presenza musulmana nella terra dei tre Nili. Dopo le ripetute invasioni, anche a causa dell'isolamento in cui si era venuta a trovare la Chiesa di questa parte dell'Africa, il processo di islamizzazione e parziale arabizzazione fu reso inarrestabile dalla presenza di tribù arabe che scendevano dall'Egitto e che, attraverso i matrimoni misti e le intense attività di scambi commerciali, estesero l'Islam a macchia d'olio. «Il Sudan racconta il professor Jafar Mirghani, direttore del Sudan Civilisation Institute, depositario di una conoscenza vastissima dell'antica civiltà sudanese era terra di passaggio e incrocio di carovane. Di qui passavano anche i pellegrini che dall'Africa occidentale raggiungevano la Mecca e che contribuirono alla diffusione della fede islamica». L'arrivo degli ottomani in seguito determinò l'islamizzazione del nord, quasi completa all'inizio del XIX secolo, epoca in cui si consolidò la pratica economicamente molto favorevole a questi popoli "nordisti" di usare il sud del Paese come un'area di approvvigionamento di risorse alimentari, di ricchezza e di schiavi. Anche richiamati dall'esigenza di intervenire per arginare in qualche modo tali pesanti abusi nei confronti delle popolazioni meridionali e per porre fine alla schiavitù, oltre che per evangelizzare, a metà dell'800 giunsero i primi missionari europei, che non si lasciarono respingere nemmeno dalla malaria che li decimava. Tra questi primi "pionieri" ci fu anche Daniele Comboni, che arrivò in Africa centrale la prima volta nel 1857. Da lui, dalla sua passione per questa terra, la stessa infaticabile che anima oggi i suoi confratelli, sarebbe poi nata la grande famiglia dei missionari e delle missionarie comboniane che costituirono, negli anni, parrocchie, scuole, ospedali, che hanno tenuto in piedi, anche nei momenti più difficili, i servizi vitali per la popolazione nonostante, a fasi alterne, siano stati espulsi o discriminati; così come avvenne durante il regno del Mahdi (1885-1898), come veniva chiamato Mohammed Ahmed, proclamatosi "guida" per la purificazione dell'Islam e la cacciata dei turchi dal suo Paese. Il Mahdi, innalzato al rango di vero eroe nazionale dopo la vittoria sull'esercito britannico, sui turchi e sugli egiziani, fece arrestare e torturare molti missionari, arrivò a controllare tutto il Sudan, eccetto il sud, e di fatto si comportò come i turchi suoi predecessori, imponendo tasse, riducendo i nemici in schiavitù e propugnando il jihad islamico. La storia sudanese voltò pagina ancora nel 1896, quando l'esercito egiziano supportato da quello britannico conquistò nuovamente il Sudan e impose il condominio anglo-egizio. Il nuovo Governo sudanese, temendo la diffusione del nazionalismo arabo, non solo permise il ritorno di missionari cristiani, ma attuò una precisa politica di separazione tra il nord e il sud: stabilì la divisione in distretti chiusi, per entrare e uscire dai quali era necessario un permesso e impose l'inglese come lingua ufficiale nel sud, che separò dal resto del Paese con la creazione di uno spazio vuoto tra il Darfur e Kordofan. Controllo dell'Educazione Nel 1946 ci fu un cambiamento di rotta e Londra cominciò a lavorare per cercare di fondere le due realtà del Paese. Ma ormai era troppo tardi, la spaccatura, realizzatasi e consolidatasi in secoli di storia e pratiche violente, fu il terreno in cui si svilupparono una prima guerra civile (1955-1972), e poi una seconda (1983-2005), scatenate anche dal continuo tentativo del nord di imporre il suo dominio politico, culturale, economico, sociale e religioso sul sud, non arabo e non musulmano. Basti pensare come già nel 1956, appena ottenuta l'indipendenza, il nuovo governo composto per la stragrande maggioranza da nordisti, annunciò che avrebbe assunto il controllo dell'educazione anche nel sud: espulse molti missionari con le più disparate giustificazioni, impose come giorno di festa il venerdì e rimpiazzò le scuole dei villaggi con le madrase, dove si insegnava in arabo e si recitava il Corano. Con il Missionaries Societies Act del 1962 i missionari furono obbligati a chiedere una licenza annuale che non sempre veniva rilasciata o rinnovata e, passaggio decisivo, nel 1983, fu imposta su tutti la legge islamica. «Prima dell'ultima guerra, durante il periodo di tregua, le famiglie vivevano nel rispetto reciproco e non era strano che, all'interno di una stessa famiglia, ci fossero cristiani e musulmani, che sedevano tranquillamente alla stessa tavola» racconta mons. Paolino Lukudu Loro, il Vescovo di Juba, estremo sud del Sudan, diocesi di 25 mila kmq, con una popolazione di circa 700 mila persone di cui 480 mila cattolici «ma i conflitti civili hanno fatto saltare tutti gli equilibri sedimentati dal tempo». Mons. Lukudu presiede la conferenza episcopale nazionale e il suo sorriso generoso trasmette energia, la stessa che lo ha accompagnato negli anni in cui la sua città, Juba, era occupata dall'esercito di Khartoum; quando gli capitava di andare a riprendersi alcuni preti arrestati e torturati nella cosiddetta "casa bianca", mentre tutto intorno i villaggi e le città erano in mano alle milizie indipendentiste sudiste, a volte unite contro il nemico arabo, a volte anche in conflitto tra loro. «Ora si augura il Vescovo dobbiamo ricostruire i fondamenti di una fiducia reciproca». Dopo il colpo di stato del 1989 che lo portò al potere, il generale Omar Hassan el Beshir, infatti, impose a metà degli anni '90 un processo di islamizzazione e arabizzazione forzata per cui, ad esempio, nelle scuole fu imposto l'arabo come lingua di insegnamento. «Può anche essere una scelta giusta quella di stabilire un'unica lingua nazionale rileva Mustafà Awad el Karim, musulmano, presidente di headmaster, una ONG nata in Italia che opera a Khartum e Juba con una serie di progetti di educazione per bambini e ragazzi disabili una scelta che può favorire l'unificazione e l'identità di un Paese dalle tante etnie e lingue. Ma se si arriva a dover imporre con la forza una determinata lingua vuol dire che essa ha in sé un debolezza che, prima o poi, si traduce in violenza su qualcuno. Quando una scelta non nasce dalla realtà oggettiva, ma da un'ideologia, manifesta a lungo termine tutta la sua fragilità. E oggi io constato che i miei figli non parlano bene né l'arabo né l'inglese. È lo stesso sistema educativo che ha subito un indebolimento». Oggi in Sudan è obbligatorio andare a scuola fino ai 14 anni ma, tale obbligo, è rispettato nell'80% dei casi solo nella capitale, perché nei villaggi dei displaced o nel meridione tale percentuale si riduce pesantemente. Ed è difficile per le scuole decidere liberamente dei piani di studio: «i ragazzi che studiano nel nostro college, compresi i cristiani spiega John Samba, headmaster del Comboni College di Khartoum, un migliaio di allievi, metà cristiani e metà musulmani devono studiare su libri di testo che, di qualsiasi disciplina trattino, per ogni capitolo riportano delle sure del Corano. Se vogliono superare l'esame di stato finale, devono impararle a memoria». Nel 1994 il regime sudanese attraverso il Missionary Act proibiva ogni forma di proselitismo non islamico ed equiparò la Chiesa a una ONG straniera. Referendum nel 2011 L'accordo di pace del 2005 pose un argine a tutto questo permettendo il varo, da parte di un nuovo Parlamento, di una Costituzione che, almeno formalmente, offre nuove garanzie: distingue chiaramente il nord, a grande maggioranza musulmana, dal sud dove cristiani e seguaci dei culti tradizionali sono predominanti; prevede che nel 2011 il sud, con un referendum, voti se separarsi o meno dal nord; stabilisce che la shari'a sia la fonte del diritto solo al nord, mentre al sud la fonte della legislazione sia costituita dalla volontà popolare, i valori e i costumi della popolazione, insieme alle tradizioni e alle credenze religiose. Se tale testo costituzionale riconosce la libertà di religione, di fatto le organizzazioni religiose non musulmane sono soggette a varie discriminazioni. Il giorno del riposo ufficiale del paese, per esempio, resta il venerdì e se ai cristiani che lavorano sono concesse due ore la domenica per andare a messa, non altrettanto viene garantito a chi frequenta la scuola. Nelle scuole del nord lo studio dell'Islam è obbligatorio e, anche se in alcune zone gli studenti possono scegliere se seguire gli insegnamenti del Corano o del Cristianesimo, la mancanza di insegnanti cristiani qualificati rende questo impraticabile. «Il nostro Paese è un'Africa in miniatura, un laboratorio in cui sperimentare come avviare tutto il continente su una strada di sviluppo e crescita»: sono parole convinte che escono dall'esperienza di professore e studioso di Hassan Makki, docente musulmano dell'International University of Africa, nata all'inizio negli anni '90, non dipendente direttamente da organi statali, ma sostenuta economicamente dal Governo e da altri finanziamenti stranieri. Inserita nella rete dell'Unione delle Università Africane, che punta a innalzare il livello culturale dei giovani africani, e al tempo stesso nella rete delle Università arabe del mondo, l'IUA conta oggi cinquemila studenti, il 60% dei quali non sudanesi, tra cui cinesi e malesi. Molti vengono da altri Paesi africani, si preparano a diventare medici, ingegneri, esperti di Islam e non si possono laureare se non superano l'esame di arabo, di fatto la lingua di ogni corso di studi. «Il nostro è un Paese tollerante osserva Hassan, tracciando il profilo dell'Islam sudanese, che pur contemplando la presenza di molte confraternite secondo lui è fedele all'unico Islam dai cinque pilastri che rispetta i diritti. Molto più di certi Paesi europei. Se un sudanese, che qui gode del diritto di avere più mogli, va a vivere per esempio in Italia, non vede più riconosciuto questo suo diritto nel suo nuovo paese. Se invece un italiano viene a vivere qui, i diritti suoi e delle sue mogli sono tutti salvaguardati». «Quale il volto dell'Islam locale oggi? si domanda mons. Daniel Adwok, Vescovo ausiliare di Khartoum L'Islam prende il colore della terra in cui si trova; se è una terra violenta, diventa violento. Qui ha vissuto una stagione di rinascimento durante gli anni '60 e '70, grazie ai "missionari" formati e inviati qui dal Cairo, da al-Azhar e, su questo tipo di Islam, fonda il suo potere l'attuale Presidente. Per capire lo stile di vita si consideri che, negli ultimi dieci anni, sono state costruite tantissime moschee, ma nessuna chiesa. Se si vuol costruire un luogo di culto, lo si deve presentare come centro polivalente o centro culturale. Da quarant'anni il Governo non prepara insegnanti di religione cristiana, ma la materia di "religione" è obbligatoria agli esami per ottenere il diploma al termine della scuola secondaria. E le discriminazioni si incontrano quando si cerca un posto di lavoro: se ti fai musulmano è molto più semplice ottenerlo». Visioni Mentali Il Governo controlla le pubblicazioni di carattere religioso, sia quelle che vengono importate, sia quelle che vengono stampate nel Paese, attraverso il Consiglio Nazionale della Stampa che, per esempio, decise nel 2005 l'arresto di Mohamed Taha, direttore del quotidiano Al-Wifaqa, per un articolo considerato blasfemo nei confronti di Maometto. Il giornalista è stato trovato decapitato nel settembre 2006, assassinio rivendicato da un gruppo islamico vicino alla rete internazionale terroristica al-Qaida, il cui fondatore stabilì la sua base in Sudan negli anni '90. Una presenza che fu pagata cara da Khartoum, bombardata per questo nell'estate del 1998 dagli americani. Ma in questo Sudan, snodo d'Africa che procede verso la data decisiva del 2011 sotto lo sguardo di centinaia di osservatori internazionali e ONG, forte del suo petrolio, che sta edificando una capitale da far invidia a quelle europee, a che punto sono i rapporti tra cristiani e musulmani? Secondo il Card. Gabriel Zubeir Wako, Arcivescovo di Khartoum, tutto l'argomento va considerato non solo nel contesto politico del Sudan, che si ispira all'Islam e che anche geograficamente è sempre stato vicino alla terra natia dei musulmani, ma va considerato anche alla luce della diversità di razze che in esso sono presenti: «la complessità spiega il Cardinale che fu arrestato e tenuto in cella per alcune ore nel 1998 perché la diocesi era accusata, senza uno straccio di prova, di dovere 650 mila dollari a un mercante, da cui aveva acquistato beni in favore di rifugiati è rappresentata dal dato per cui i musulmani anche qui, in Medio Oriente, usano l'Islam per mantenere il sistema di governo instaurato. Questo li spinge, in certi casi, a ignorare le persone diverse da loro. Il problema è che a volte risulta veramente difficile stabilire se è l'Islam che spinge queste persone ad agire così o se è il male che risiede nel cuore dell'uomo che causa le sopraffazioni». «La domanda che mi pongo osserva l'Arcivescovo di una diocesi che si estende per un'area di quasi un milione di km quadrati, tre volte l'Italia, con una popolazione di oltre 18 milioni di persone, di cui 900 mila cattolici è se davvero la gente si chiede e verifica se sa usare correttamente la ragione. Perché è sorprendente come, davanti a determinati fatti, pur ricorrendo alla ragione umana, si arrivi a conclusioni così diverse, a letture e atti così diversi. L'africano ha una sua visione mentale per guardare alle cose e per pensare. E l'arabo, come pure il musulmano, ne ha un'altra. Questo risulta evidente non solo tra persone colte, che possono manipolare una discussione o un confronto, ma anche tra gente semplice. Avverto che c'è proprio una posizione mentale diversa tra cristiani e musulmani, perciò oggi ritengo che la relazione tra noi e loro, davvero molto complessa, resti come sospesa». Anche la parola "dialogo" suona nella voce e nell'esperienza del Cardinale in modo diverso da come viene pronunciata nel nord del pianeta: «Un dialogo può essere ottenuto con facilità quando si tratta di cose semplici come per esempio la posizione delle sedie in questa stanza, ma quando ad esso si chiede di portare ad una trasformazione del modo di pensare o ad un'apertura a forme diverse di pensiero o di reazione di fronte a situazioni precise e concrete, allora tutto diventa molto difficile. Servirà molto tempo. Ci vuole fiducia reciproca tra le persone che, a causa della guerra e dell'odio seminato negli anni, si è persa completamente e ricostruirla è molto arduo. Capita con facilità di sentire un sudanese meridionale dichiarare convinto che di un arabo non ci si può fidare. E quando dice arabo intende musulmano. Per arrivare a una vera apertura reciproca c'è ancora un grande cammino da fare». Antenna sul Campanile Un cammino che la Chiesa sudanese e i missionari che lavorano in tandem con essa non temono di intraprendere, anche se la strada è tutta in salita. L'ultima iniziativa avviata in questa direzione si chiama Bakhita, come la prima santa sudanese: ha lanciato nell'etere da Juba le sue prime musiche e auguri proprio la vigilia del Natale 2006 ed è la radio-madre di un futuro network cattolico. «La radio che a bassi costi può raggiungere potenzialmente i 500 mila abitanti di questa regione spiega suor Cecilia, comboniana originaria del Messico, un concentrato di determinazione e grinta che ha curato il decollo dell'emittente intende lavorare per la promozione di una cultura di pace. Per chiudere con la guerra e per provare a ricucire le ferite aperte nelle famiglie e tra famiglie. La cuoca della nostra missione appena vede un fucile comincia letteralmente a tremare senza potersi controllare: la guerra l'ha segnata fin nelle fibre più profonde. Si tratta di ricominciare da qui». Certo le difficoltà non mancano: montare l'antenna sul campanile della cattedrale di Santa Teresa nel quartiere di Kator mentre i soldati sparano per protestare contro gli stipendi non pagati com'è accaduto poche settimane prima della prima trasmissione non è proprio una passeggiata, come non è facile trovare giovani che abbiano un minimo percorso scolastico alle spalle, che parlino almeno l'arabo e l'inglese, da avviare alla professione di speaker. In questa regione, in cui l'85% della popolazione è analfabeta, i pochi che sono rimasti e sono riusciti ad andare a scuola e a studiare sono richiesti dalle ONG e pagati con salari che certo la Chiesa Cattolica non si può permettere. Le organizzazioni internazionali, piovute da tutto il mondo dopo l'accordo di pace, con i loro standard di prezzi occidentali, hanno sbalestrato tutta la situazione economica a Juba al punto che un posto letto in una tenda qui può costare fino a 150 dollari a notte! Quelle alte percentuali di analfabeti sudanesi hanno volti e storie precise, con le quali hanno a che fare tutti i giorni anche le suore comboniane di Villa Gilda, una clinica per la maternità che sorge nel centro di Khartoum dove, ogni mese, nascono oltre centocinquanta bambini. Le mamme che arrivano qui, infatti, sono delle più diverse estrazioni: c'è la giovane piena di bracciali d'oro e c'è la povera che arriva dai villaggi dei rifugiati, dall'estrema periferia della capitale. Otto, nove volte su dieci queste donne vivono in matrimoni poligami, tra loro c'è la cristiana cattolica, la musulmana, la copta, l'ebrea, l'animista, «ma tutte queste differenze qui, nel nostro ospedale, non entrano spiega suor Guadalupe, messicana, che si divide tra il lavoro in amministrazione e il servizio nei villaggi dei profughi . È come se il miracolo della vita che nasce non permettesse agli odi e alle incomprensioni, che hanno desertificato le relazioni fuori, di attraversare i muri e di arrivare qui tra le corsie. È il miracolo dei bambini». Ma di certe sorprese della solidarietà suor Guadalupe è testimone anche per quanto riguarda altri ambienti, anche i più impensabili. Una volta la settimana raggiunge le case e le baracche dei displaced per animare alcuni gruppi di catechesi per giovani e adulti. «Guido un gruppo di una ventina di adulti, metà dei quali pur non sapendo leggere, seguono con convinzione la lettura del Vangelo racconta tradendo il suo stesso stupore da comboniana venuta dal Messico . Sono persone che non hanno nulla, perché per la maggior parte di loro non c'è lavoro, eppure prendono il Vangelo alla lettera, si mettono a servizio di chi sta ancora peggio, si danno il turno per assistere i malati, i disabili, senza badare alla tribù di appartenenza o altro. E io resto sempre colpita». C'è forse anche questo dietro quei vasi di terracotta dall'acqua fresca. Una sorta di rete, intessuta da mani che si tendono nell'aiuto reciproco quando ci si riconosce semplicemente uomini e donne bisognosi di aiuto. Una rete che certo non cancella le ferite e non distrae dalla realtà così problematica, ma impedisce loro di frenare la voglia di ripresa.