Contrariamente a un’immagine consolidata, il sufismo non è soltanto un movimento mistico fatto di danze ed estasi, ma una realtà che incide profondamente nella società. Un viaggio tra le confraternite di Istanbul

Ultimo aggiornamento: 21/06/2022 14:39:34

Molti conoscono i mistici musulmani, i sufi, per le loro suggestive danze roteanti, ma il loro mondo è molto più profondo e articolato. Lo si vede chiaramente in Turchia. Le più importanti confraternite sufi hanno una sede a Istanbul, dove il loro attivismo culturale e sociale è notevole, come è notevole anche la loro influenza politica. In occasione delle elezioni amministrative e politiche, infatti, i candidati che si riconoscono in una visione tradizionalista della società, dove l’attaccamento all’Islam è forte e la separazione tra religione e Stato non è netta, si presentano dai vari esponenti delle confraternite sufi e ne chiedono il sostegno. Una scelta, questa, che da sempre preoccupa e suscita critiche tra le componenti più laiche e progressiste del panorama politico turco. È anche all’influenza dei maestri sufi che Recep Tayyip Erdoğan deve la sua ascesa politica, che lo ha portato a diventare presidente della Turchia nel 2014 e di nuovo nel 2018. Necmettin Erbakan, il movimento Milli Görüş, tutti partiti politici islamici turchi e lo stesso Erdoğan vengono dalla comunità Nakşibendi di İskenderpaşa. L’idea che i sufi siano comunità completamente dedite alla pura spiritualità va quindi corretta.  

Chi sono i sufi

 

Chi sono, quindi, i sufi? Partiamo dal loro stesso nome. La parola sufi spesso non viene compresa e viene associata a un’idea di mistica che trascende l’osservanza delle regole, ma non è così. Il sufismo è l’espressione più pura dell’islam, implica seguire le orme dei predecessori che seguivano il Corano e la Sunna. Dopo la morte del Profeta Muhammad, i suoi compagni hanno continuato sul sentiero da lui tracciato, osservando il suo esempio virtuoso nell’educazione spirituale e nell’applicazione dei principi. Gli studiosi che sono venuti dopo hanno continuato a trasmettere il sapere del Profeta, mentre dell’applicazione dei principi si sono fatti carico i sultani e gli emiri. Restava però aperta la questione della guida spirituale. Sono così emerse le figure dei zuhhād (asceti), che nel tempo sono stati poi chiamati sufi. I zuhhād indossavano abiti di lana grezza e il loro nome, sufi appunto, secondo alcune interpretazioni deriva proprio dalla parola lana, in arabo sūf, ma non tutti concordano con questa visione. Per alcuni i sufi sono infatti coloro che praticano la tasfīya, ovvero la purificazione delle proprie anime, studiano e applicano le pratiche manifeste della fede, ma cercano soprattutto di educare il proprio spirito a seguire l’esempio del Profeta Muhammad.

 

Quest’ultimo viene considerato il primo sufi della storia, ma il fondatore del movimento sufi è riconosciuto nella figura di Abu Hashem, che visse in Medio Oriente nella seconda metà del secondo secolo dell’era islamica in quelli che venivano chiamati in passato Bilād al-Shām (il Levante arabo). Da lì il sufismo si è esteso in tutto il mondo, tra l’Iraq, la Siria, l’Andalusia, l’Iran, l’India, il Marocco, il Turkmenistan, il Senegal come in altri Paesi del continente africano. Questo ha portato a una crescita del pensiero, a un pluralismo di opinioni e vissuti che ha ulteriormente arricchito questa corrente. Sono così nate diverse scuole sufi che hanno attinto ai rispettivi contesti di riferimento, alle tradizioni e ai costumi locali, mantenendo le stesse radici e lo stesso principio nel considerare il Corano e gli insegnamenti del Profeta Muhammad come fonte primaria. Sono emerse nel tempo diverse turuq, plurale di tarīqa, che letteralmente significa strada, sentiero, traendo origine dall’insegnamento del Profeta che raccomandava di “definire le buone strade” e di “cercare le strade del sapere”.  La pratica di ognuna di esse si è declinata in base al contesto. Tra le principali tradizioni emergono la Qadiriyya, la Mawlawiyya, la Naqshbandiyya, la Shadhiliyya, la Rifaiyya, la Khalwatiya e la Tijaniyya. Il sufismo coinvolge tutti, bambini, donne e uomini indistintamente. Dove ci sono musulmani, ci sono sufi, con tutte le loro diversità.

 

La tradizione sufi più diffusa in Turchia è quella della Mawlawiyya, che si rifà agli insegnamenti del maestro Mawlana Jalalluddin ar-Rumi, il quale aveva origini afghane. Suo padre era un alem, un grande sapiente, e lui stesso ne ha seguito le orme. Per essere un vero sufi è necessario essere un devoto, un praticante. La gente conosce solo le danze dei sufi, conosce lo stesso maestro Rumi solo per alcune sue citazioni, ma non ne conosce la profondità del pensiero e la fede sincera. Rumi era molto accogliente e nella sua takiya erano benvenute anche altre genti, di fedi diverse. Le takyia sono come degli “angoli” dove i maestri si siedono per fare lezione, ascoltare. Secondo le descrizioni che ne vengono fatte, il maestro credeva nel dialogo e nel confronto, ma anche nell’importanza di “lasciare la porta aperta” perché chiunque potesse avvicinarsi e abbracciare la fede islamica. Cercava, pur essendo una persona molto colta e dal linguaggio elegante e forbito, di semplificare la sua comunicazione, in modo che arrivasse al cuore e alle menti di tutti. Questo ha permesso ai suoi insegnamenti di superare i limiti dello spazio e del tempo.

 

Un concetto molto caro ai Sufi è quello della bellezza, che è direttamente legato all’equilibrio e alla purezza. I sufi aspirano a vedere la bellezza di Allah e questo è considerato uno dei livelli più alti della pratica di fede. Chi vede la bellezza di Allah è libero dalle catene della vita terrena. I sufi considerano una persona che sbaglia e si pente migliore rispetto a una persona che non ha sbagliato, perché la prima ha vissuto l’esperienza della presa di coscienza e si è pentita, ha purificato il suo cuore. Gli stessi maestri sufi non sono considerati santi, ma esseri fallibili.

Alcune scuole islamiche, come quella salafita e quella hanbalita (molto diffuse nella penisola arabica e soprattutto in Arabia Saudita), considerano il sufismo una bid‘a, cioè un’invenzione dannosa, ma la maggior parte delle altre scuole guardano al sufismo con rispetto e ne riconoscono la verità.

 

I moderni movimenti sufi sono tutti legati alle scuole più antiche. Ogni tarīqa è strutturata in spazi diversi destinati allo studio, alla preghiera, all’ascolto, all’accoglienza, alla danza al ritmo dei nay (un antico tipo di flauto ricavato da una canna svuotata) e dei tamburi. A Konya si possono trovare eccellenti esempi di questi luoghi di devozione e studio. Dopo il XIX secolo in Turchia ha conosciuto una grande evoluzione, soprattutto nella zona del nord-est del Paese e a Istanbul la tarīqa Naqshbandiyya (Nakşibendiyye in turco), che segue le orme dal maestro Khaled al-Naqshbandi, il quale dopo aver studiato in India, nel 1811 tornò nella città natale di Sulaymaniyya, nell’attuale Kurdistan iracheno, e diffuse gli insegnamenti naqshbandi in tutto il Medio Oriente. Tutti i movimenti sufi hanno tradizioni proprie.

 

Nel cuore di Istanbul

 

Per capire quali sono le caratteristiche dei moderni movimenti sufi abbiamo incontrato, nell’antico quartiere al Fatih, nel cuore della città sul Bosforo, il professor Ahmet Turan Arslan, docente alla Fatih Sultan Mehmet Vakıf Üniversitesi e il maestro Abdullah della scuola di Mahmoud Effendi, della comunità İsmailağa.

 

Il professor Ahmet Turan Arslan, che è docente di Lingua e Letteratura araba, ha il suo studio nel prestigioso edificio che sorge a pochi passi dalla moschea al Fatih, tra i luoghi di culto più suggestivi della città, aperto all’accoglienza di persone in cerca di una guida. L’edificio, tornato al suo antico splendore dopo delicati interventi di ristrutturazione, si estende intorno a un cortile interno, sorvolato di giorno e di notte dai gabbiani e dove riecheggia l’adhan, il richiamo alla preghiera, che giunge dal vicino minareto cinque volte al giorno. È un uomo di grande cultura, con esperienze internazionali di docenza di lingua e cultura araba e teologia islamica. Il maestro Abdullah, invece, è una guida spirituale sufi e vive immerso nella realtà della sua tarīqa. Ha un atteggiamento più conservatore, tanto che per parlare sceglie un luogo neutro, una biblioteca, visto che nella sua comunità donne e uomini non condividono nessuno spazio e le donne non sono ammesse nello spazio maschile nemmeno come visitatrici esterne alla comunità. Per il maestro Abdallah non si tratta di una questione discriminante. La divisione degli spazi, ai suoi occhi, è una forma di rispetto e di considerazione degli uni e delle altre e sottolinea che, pur stando separati, donne e uomini condividono il cammino e le responsabilità della vita.

 

I sufi adottano, in base alla confraternita di appartenenza, codici di abbigliamento diversi. Gli uomini indossano tuniche, gilet e pantaloni ampi, e sul capo hanno cappellini e turbanti che li distinguono dagli altri gruppi, anche se tutti imitano lo stile dell’abbigliamento sobrio e semplice del Profeta Muhammad. Le donne che appartengono ad alcune confraternite indossano lunghi veli neri chiamati çarşafı şerif, (che potrebbe essere tradotto come tessuti dell’onore), come usavano fare le donne ai primi tempi dell’islam a Mecca e sono facili da riconoscere nelle strade di Istanbul, in quanto il loro abbigliamento ricorda il chador iraniano. La confraternita del maestro Abdallah è stata recentemente al centro di forti polemiche per il ruolo decisivo che ha avuto nello spingere il governo di Ankara all’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul, un documento sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica.

 

Alle critiche ricevute il maestro Abdallah risponde che i sufi sono sensibili tanto alla tutela della fede quanto alla tutela dei diritti umani, secondo i dettami dell’Islam e che il sufismo non vive senza il sapere e il sapere non vive senza il sufismo. I sufi sono persone predisposte all’innovazione e al cambiamento in base all’epoca e al contesto in cui si trovano e in questo modo si avvicinano alle diverse comunità mondiali, mantenendo saldi i principi spirituali. Il movimento sufi non può essere quindi diviso dal cuore dell’islam e questo implica una penetrazione anche nella sfera politica, molto profonda. Il loro motto è, infatti, “l’agire serve la dottrina”. Quello che i sufi insegnano è quindi la ricerca di un equilibrio che permetta alle persone di vivere con serenità osservando i precetti religiosi, senza esasperazione. Si digiuna, ma poi si interrompe il digiuno, si fanno veglie, ma si deve poi dormire e così via. I sufi considerano importante la vita terrena, tanto quanto la vita nell’aldilà e non concepiscono alcuna divisione, quindi, tra Stato e “Chiesa”.

 

I maestri sufi insegnano che l’essere umano ha bisogno di Dio e del Profeta come ha bisogno del cibo e dell’acqua. Si beve e si mangia senza esagerare, per non farsi del male, e si vive la fede nella sua dimensione più umana, in cui si cerca di raggiungere l’equilibrio e il bene per sé stessi e per l’umanità. La vita stessa, ai loro occhi, è inconcepibile se priva o lontana dalla religione. I sufi, nel loro puro monoteismo, si impegnano ad avere cura della fede, del corpo, della mente, dello spirito, dei figli, degli affetti, dei propri beni, del creato, dell’onore e invitano tutti gli esseri umani a farlo, non solo i musulmani, non solo i credenti. «Ogni confraternita ha una guida e questa persona viene considerata mahfūz, protetto, non ma’sūm, indenne dall’errore, quindi il maestro è una guida, ma non va considerato infallibile». È il loro sapere e la loro esperienza a elevarli, la loro capacità di unire scienza e spiritualità e non ci sono logiche gerarchiche. In realtà una gerarchia esiste ed è molto rigida, con «il maestro principale che dà la direzione e l’impronta a tutta la tarīqa mentre i maestri minori, come i fedeli, mostrano obbedienza e reverenza», racconta il maestro Abdallah. Questa grande considerazione è anche sinonimo di grande potere, un potere che, come già detto, non si esercita solo nell’ambito della singola tarīqa, ma penetra ogni sfera della vita sociale, compresa quella politica.

 

La penetrazione sociale del sufismo

 

I sufi si sentono quindi investiti della responsabilità di partecipare attivamente alla vita della società moderna. Per questi mistici, infatti, «chi non conosce il contesto in cui vive è ignorante, anche se è un sapiente». I sufi, che curano profondamente la propria spiritualità, sono molto legati al mondo reale e stanno in mezzo alla gente con l’intento di guidarla. Il Profeta incarnava questi due aspetti, unendo una grande devozione e uno studio rigoroso del testo sacro al contatto con la gente in contesti diversi da quello dedicato esclusivamente alla preghiera. Molti politici si ispirano all’esperienza umana dei sufi non solo per gli aspetti legati alla parte devozionale, ma anche nei comportamenti legati all’ascolto e all’aiuto verso l’altro, alla gestione delle cose e delle questioni pubbliche.

 

«Shaykh Mehmet Zahid Kotk è considerato il padre del movimento politico di ispirazione sufi in Turchia. Diversi leader, tra cui Necmettin Arbakan, si sono rivolti a lui per formare partiti politici, rinnovando una tradizione ferma ai tempi del sultano Abdelhamid. Da lì sono nati diversi movimenti, dove sono molto attive anche le donne», spiega il professor Ahmet Turan Arslan. Questi movimenti hanno incontrato lo scetticismo di altri partiti, che spesso ne hanno messo in dubbio i valori, affermando che avrebbero minacciato la laicità dello Stato e introdotto nella società turca questioni lesive della dignità delle donne, come ad esempio la poligamia. Tra le diverse scuole sufi in Turchia sono molte quelle che, invece, si esprimono contrariamente a questa pratica, considerata un’offesa alla serenità e alla pace delle donne e quindi non in linea coi valori sufi che invece tutelano i sentimenti e la dignità degli individui. Il professor Ahmet Arslan attinge dalla lingua araba stessa per spiegare perché, per molte confraternite, la poligamia non è conforme ai valori sufi. «In arabo – spiega – si usa la parola durra, che deriva da darar, danno, proprio perché è una questione che genera sofferenza alle donne. Come si può pensare, quindi, di accettarla? I sufi amano e rispettano le donne e guardano all’anima e al cuore delle persone, per cui respingono ogni questione che possa generare sofferenza». Anche rispetto a questo tema, il dibattito diventa politico, perché, in un senso o nell’altro, l’influenza e l’attivismo dei partiti di ispirazione islamica trovano una forte resistenza da parte dei partiti laici e da parte del mondo dell’associazionismo, in particolare quello femminile.

 

La penetrazione sociale del sufismo si riconosce nel loro impegno sociale e culturale. I sufi hanno diffuso biblioteche e stamperie ovunque siano arrivati, per contrastare l’analfabetismo e diffondere il sapere, con la presenza costante dei loro maestri. Hanno costruito ospedali garantendo cure gratuite e promuovendo iniziative di tutela dei più deboli, con l’apertura di mense gratuite che offrono cibo non solo durante il Ramadan, ma in tutto l’anno e hanno dato vita a diversi gruppi di sostegno economico. Tra le priorità dei sufi c’è la protezione dei bambini, in particolare degli orfani, e il sostegno alla loro crescita culturale e umana, con l’apertura di scuole per permettere il diffondersi capillare del sapere. Nella vita reale c’è una continuità tra la spiritualità, il sapere e l’attivismo sociale. Per questo in ogni takiya sufi (tekke in turco) si trovano alloggi per studenti, cucine, punti di ascolto e sostegno. Avere cura delle persone e rispondere ai loro bisogni primari è importante tanto quando avere premura delle loro anime. Il sufi deve sapere cosa accade fuori e allo stesso tempo coltivare il suo spirito, praticare la pazienza e il silenzio, senza mai abbandonare l’impegno nel mondo, il che implica, quindi, una loro considerevole presenza anche in ambito politico.

 

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