Egitto /1. Se non si può parlare di persecuzione programmata nei confronti dei cristiani prima del gennaio 2011, ma di pesanti discriminazioni, ora la speranza di libertà s’intreccia al timore di una deriva violenta.
Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 09:50:26
In numerose interviste e incontri anteriori alla rivoluzione, ho sempre affermato che in Egitto non c’era persecuzione, mentre molti sostenevano il contrario. Questa mia presa di posizione non era rivolta a compiacere il regime di allora, ma voleva esprimere un dato di fatto. Gli atti violenti contro i cristiani, che sono vivamente condannabili, non emanavano infatti da un programma, da una politica o da una struttura pianificata, come si richiede perché si possa parlare di persecuzione in senso stretto. Non a caso, nel Sinodo per il Medio Oriente i padri Sinodali non avevano mai utilizzato questa parola. Questo non significa naturalmente che tutto andasse bene o che non ci fossero problemi e difficoltà. Per limitarmi all’Egitto, dove vivo, alcune norme contraddicono infatti i principi della libertà e dell’uguaglianza. In particolare ciò è vero per le restrizioni sulle costruzioni e le riparazioni di chiese e per la grande difficoltà che i cristiani incontrano nel conseguire incarichi o promozioni alle cariche pubbliche più elevate. D’altra parte, vi sono atti proibiti dal Corano o dalla Sharî‘a islamica, come il matrimonio di una donna musulmana a un uomo non-musulmano. Un non-musulmano non eredita da un musulmano. In una famiglia cristiana, se il marito passa all’Islam, moglie e figli non ereditano nulla, a meno che non passino anche loro all’Islam. I figli di chi si converte all’Islam, se hanno meno di 18 anni, sono automaticamente considerati musulmani davanti allo Stato, indipendentemente dai convincimenti dell’altro coniuge. Infine, una persona musulmana che passa a un’altra religione perde tutte le sue proprietà. A queste discriminazioni legali si aggiungono altri problemi pratici. I manuali scolastici e universitari contengono molte esposizioni e affermazioni che offendono o attaccano apertamente i cristiani e la fede cristiana e lo stesso vale per i media e i discorsi religiosi, come le omelie nelle moschee. Non ci sono programmi religiosi cristiani nei media di Stato, a parte la trasmissione della Messa di Natale e di Pasqua. Al contrario, i programmi religiosi musulmani sono presenti di continuo. Si registravano infine atti violenti ripetuti contro i cristiani e le chiese, senza intervento delle forze dell’ordine né punizione dei colpevoli. In tali circostanze si ricorreva a sedute di conciliazione, in cui i cristiani erano costretti a cedere sui loro diritti. Questo clima aveva finito col creare un fossato tra musulmani e cristiani, che si allargava sempre di più, sotto l’influenza di capi fanatici da entrambe le parti. Fianco a fianco durante la rivolta La rivoluzione del 25 gennaio non è stata programmata dai partiti politici né da organizzazioni interne o esterne. È stata il frutto della comunicazione via internet. La pagina “Siamo tutti Khaled Saïd”, creata dal cyber-attivista Wael Ghoneim su Facebook, in seguito alla morte del giovane Khaled Saïd, arrestato e torturato dalla polizia ad Alessandria nel giugno 2010, è stata la piattaforma in cui i giovani si sono incontrati per scambiarsi commenti, sentimenti di rabbia, sogni e speranze. Per la festa della polizia, il martedì 25 gennaio, Ghoneim lanciò un appello ai giovani per un raduno di massa alla Piazza Tahrir (Liberazione) del Cairo. Si aspettava una partecipazione di cinquecento o mille persone, al massimo poche migliaia. Invece sono convenute decine di migliaia di manifestanti e la massa aumentava sempre più. Gli slogan erano molto semplici e concreti: dignità, giustizia, libertà e lavoro. Richieste che rispondevano ai bisogni essenziali della maggioranza degli egiziani. Niente poteva fermare i giovani, neppure la famigerata e vergognosa campagna del “cammello” il 2 febbraio, che lasciò decine di morti e migliaia di feriti. Finalmente l’11 febbraio fu dichiarata la fine dell’era Mubarak. Il fenomeno meraviglioso durante questo periodo è stato che lo svolgimento della rivoluzione non ha avuto effetti negativi sul piano religioso. Al contrario, essa ha rinforzato i legami tra musulmani e cristiani. Dopo la scomparsa della polizia, in ogni strada si è formata una “commissione popolare”, costituita da giovani e uomini musulmani e cristiani, che facevano la guardia di notte, durante il coprifuoco, per custodire gli abitanti e le proprietà, condividendo il mangiare e il bere che veniva loro mandato dalle case indistintamente. Ciò durò circa tre settimane. Nelle chiese e nelle moschee si pregava per il ritorno della pace e dell’ordine. Durante i momenti di preghiera abbiamo visto, al Cairo e ad Alessandria, i cristiani formare spontaneamente un cordone di sicurezza attorno ai musulmani per permettere loro di pregare senza pericolo. E lo stesso facevano i musulmani per i cristiani. Questa notizia e le sue foto hanno fatto il giro del mondo. Moltissimi cristiani e musulmani hanno vissuto insieme con uno spirito di cooperazione e di amicizia e per questa ragione si sperava in una nuova era di fratellanza. Guardavamo l’avvenire con entusiasmo e ottimismo. La volontà di cambiamento è stata una sorpresa per il mondo esterno, ma anche per noi egiziani. E il suo scopo, la fine di un regime corrotto e ingiusto, è stato raggiunto in soli diciotto giorni. Ciò avrebbe dovuto aprire una nuova fase, segnata dalla fratellanza, dalla coesione sociale, dalla scomparsa delle barriere e delle discriminazioni religiose. Il ritorno della violenza anticristiana Purtroppo questo bel sogno non è durato molto. Poco dopo la rivoluzione si sono fatti avanti i Fratelli Musulmani, si sono fatti forti, e hanno assunto il dominio della scena. Sono organizzati e vantano una tradizione di attivismo nella politica e nel campo sociale, e presto sono emerse altre correnti islamiste che prima non si facevano vedere. I più violenti sono i salafiti. Ci sono delle differenze tra le correnti islamiste e qualche volta si combattono tra di loro. Ma tutti si accordano nella volontà di stabilire uno stato basato sulla Sharî‘a. I Fratelli Musulmani e i salafiti hanno formato diversi partiti politici, e fanno una fortissima campagna elettorale. Hanno dichiarato che mirano al 50% dei seggi in parlamento alle elezioni legislative del prossimo novembre. D’altra parte, i giovani della rivoluzione e altri gruppi s’impegnano con forza, formando partiti e preparandosi alle elezioni, per realizzare l’ideale e la meta iniziali: uno stato civile e democratico. Purtroppo gli altri hanno la voce alta e il pugno forte. Sono poi accaduti gravi atti violenti contro i cristiani. All’inizio di marzo una chiesa copto-ortodossa, a Sôl al sud del Cairo, è stata incendiata, rasa al suolo e trasformata in moschea. Parecchie case di cristiani furono bruciate e saccheggiate e molte famiglie sono fuggite dal villaggio. Molti copti manifestarono allora al Moqattam, al Cairo. Scontri con gruppi di islamisti causarono 13 morti e decine di feriti. Il 27 marzo, a Qena a nord di Luxor, in seguito a false accuse, i salafiti attaccarono un cristiano di 45 anni, Ayman Mitri, gli tagliarono un orecchio, e poi telefonarono alla polizia dicendo: «Abbiamo applicato la legge di Allah, venite ora e applicate la vostra». Il 18 aprile, nel villaggio di Abu Qorqas presso Minia, un attacco dei salafiti contro i cristiani lasciò alcuni morti, decine di feriti, case e negozi saccheggiati e bruciati. Il 7 maggio a Imbaba (Ghiza), alcuni salafiti attaccarono 2 chiese copto-ortodosse e causarono uno scontro violento tra cristiani e musulmani, che lasciò 13 morti e 232 feriti. Il 19 maggio, a Ayn Shams al Cairo, migliaia di salafiti e altri assediarono una chiesa copto-ortodossa per impedirne la riapertura decretata dalle autorità governative. Gli scontri furono terminati con una seduta di conciliazione, in cui fu imposta la chiusura della chiesa. Il 9 Ottobre fu un giorno triste e sanguinante. I Copti che manifestavano pacificamente furono attaccati da guerriglieri armati con spade, coltelli, molotov e pietre, un carro armato schiacciò diverse persone, altre furono colpite da tiri di arma da fuoco. Il bilancio fu 24 morti e circa 250 feriti. Questi sono gli incidenti più gravi. Ciò che dispiace veramente è il modo di affrontare tali problemi fuori delle strutture legali e giuridiche, da applicare a tutti senza distinzione. Tali fenomeni rischiano di deviare il movimento politico-sociale in Egitto, spostandolo alla violenza confessionale. Che cosa è cambiato dunque dopo la rivoluzione? Non molto, sia nel campo sociale, politico o della sicurezza. Risvolti di speranza Con ciò non voglio dire che non ci siano fatti positivi, che aprono orizzonti di speranza. Un luminoso segno di speranza ci venne prima di tutto dal Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente nell’ottobre scorso. Il Sinodo ci ha dato grande certezza nella nostra presenza e nel nostro ruolo nella regione e ha suscitato un ardore di rinnovamento del nostro impegno religioso, pastorale e sociale. In secondo luogo i cambiamenti politici e sociali in corso sono indirizzati verso la creazione di stati civili e democratici e la rivoluzione in Tunisia, Egitto e negli altri Paesi nella regione ha dimostrato che i nostri popoli sono vivi, pieni di dinamismo, decisi a mettere fine ai regimi dittatoriali e corrotti, anche al prezzo di martiri e vittime. Assolutamente notevole appare l’unità solidale che si è manifestata tra musulmani e cristiani, mai vista fin dalla rivoluzione per l’indipendenza del 1919. Un famoso giornalista ha scritto: «Ho visto una giovane cristiana versare l’acqua a un giovane musulmano che si preparava alla preghiera e allora mi sono detto: “la rivoluzione è riuscita”». La determinazione dei giovani che hanno avviato la rivoluzione, e di tanti che hanno adottato e sostenuto la loro visione, nel realizzare l’obiettivo principale d’instaurare uno Stato e una società civili e democratici, si è tradotta nella partecipazione senza precedenti al referendum del 18 marzo, in cui i cristiani sono stati molto presenti. La rivoluzione infatti ha rivelato un nuovo volto dei cristiani, pieno di energia, audacia e perseveranza, come si è visto nei lunghi sit-in pacifici per la richiesta di giustizia e uguaglianza. Molto apprezzata è stata la decisione delle Forze armate di ricostruire la chiesa di Sôl, di riparare le case danneggiate e di assicurare il ritorno dei cristiani fuggiti. Il 13 aprile, a poco più di un mese dall’incidente, le campane della nuova chiesa suonavano a festa per la dedicazione. Lo stesso si è fatto per la chiesa di Imbaba, che è stata ricostruita nel giro di un mese e riaperta al culto il 6 giugno, mentre numerosi capi religiosi musulmani, alti responsabili dello Stato e scrittori musulmani hanno condannato ogni atto di violenza contro i cristiani e contro qualunque altro cittadino. Dopo la strage del 9 ottobre, il Governo ha deciso di preparare una legge sulla costruzione delle chiese, ciò che chiedevamo da diecine d’anni. I movimenti della rivoluzione si sono impegnati a formare e rafforzare i partiti politici per uno Stato civile democratico e tutte le Chiese d’Egitto incoraggiano i loro fedeli a partecipare positivamente alla vita politica e sociale del paese. Nella Chiesa Cattolica abbiamo cominciato vari programmi in questo senso. Moltissime manifestazioni di solidarietà tra cristiani e musulmani hanno visto la luce, particolarmente dopo gli attacchi alle chiese, alle case dei cristiani, alle loro proprietà, e alle loro persone. Gli organismi internazionali ecclesiali e civili rivolgono un’attenzione molto speciale all’evoluzione della situazione nel nostro Paese e negli altri Paesi del Medio Oriente, e la rivoluzione ha rivelato il lato luminoso della globalizzazione. Tramite i canali televisivi, internet e le radio, gli egiziani hanno sentito che non sono dimenticati dal resto del mondo. La solidarietà delle organizzazioni religiose, politiche e sociali mondiali, sono state un grande sostegno e incoraggiamento. Questi aspetti positivi sostengono la nostra speranza, illuminano la nostra strada e rafforzano il nostro coraggio. Per terminare direi perciò che ci troviamo di fronte a una gravissima sfida che attende i cristiani in Egitto, negli altri Paesi a maggioranza musulmana e potrei dire in tutti i Paesi del mondo. Non si può negare che l’Islam sia in rapida crescita, ma non è questo il problema. Il punto grave e inquietante è la crescita dei movimenti islamisti, cioè dell’Islam fanatico, fondamentalista e violento, nelle sue varie forme e correnti, culminante in al-Qaida, di cui il terrorista Osama Bin Laden era il sommo rappresentate. Davanti a questo insieme di fatti positivi e negativi, qual è il nostro atteggiamento? Lo trovo descritto nella conclusione della Relazione dopo gli interventi del Sinodo per il Medio Oriente dell’ottobre scorso, dove i Vescovi dichiarano: «Siamo oggi un “piccolo resto”, ma il nostro comportamento e la nostra testimonianza possono fare di noi una presenza che conta. Dobbiamo assumere la nostra vocazione e la nostra missione di testimonianza, al servizio dell’uomo, della società e del nostro paese. Dobbiamo lavorare tutti insieme per preparare una nuova alba in Medio Oriente». Ecco dunque l’accento finale: costruire insieme, cristiani e musulmani, una “città di comunione” per una «nuova alba» in Medio Oriente.
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