La rubrica di Oasis sulla musica araba. Una canzone a settimana in qualunque variante linguistica, dal dialetto marocchino alla fushā, per capire i fenomeni sociali, politici e religiosi dell’altra sponda del Mediterraneo.

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 11:40:24

Da più di quindici anni la Fondazione Internazionale Oasis cerca di consegnare ai suoi lettori un po’ della complessità dell’altra sponda mediterranea. Sul nostro sito e sulla nostra rivista trattiamo di cinema arabo e letteratura araba, attraverso numerose recensioni e articoli. Ci mancava però un tassello: la musica. Un tassello che, forse al pari della poesia, è uno degli elementi più importanti della cultura araba. E come tale, è veramente sconfinato.

 

Qualche domanda per cominciare

 

Prima cosa, come si dice musica in arabo? La risposta non è così scontata. Mūsīqā? Oggigiorno è proprio così. Ma anche tarab (emozione), ghinā’ (canto), sawt (voce) e addirittura naghm (melodia) sono stati usati in passato intercambiabilmente per indicare quell’insieme di fenomeni che noi oggi sintetizziamo con la parola “musica”.

 

Seconda domanda: cosa rende la musica araba, “araba”? È araba la musica indonesiana costruita su un certo ritmo tradizionalmente mediorientale? È arabo il canto dei berberi marocchini? È arabo il blues elettronico di un musicista libano-giordano che canta in inglese e solo al ritornello butta dentro un sempreverde habībī? E poi… si fa presto a dire lingua araba. Dal Maghreb al Mashreq (e oltre), passando dall’Europa all’Africa, in quante lingue arabe si canta? E dove si troverebbe il puramente arabo, se lo spartito di questa musica “araba” è frutto (semplificando) di reciproche influenze mediterranee, turche, persiane, africane e indiane?

 

Paradossalmente, sarebbe forse più facile parlare di musica araba partendo dalle sue molteplici tecnicità: un sistema tonale diverso da quello che l’orecchio occidentale percepirebbe come “giusto”, qualche bemolle che proprio non ci torna, più di una settantina di maqāmāt (scale modali) così versatili nell’adattarsi ad ogni emotività; decine di generi musicali antichi e moderni, dalle stanze poetiche andaluse in musica al post-trap di qualche rifugiato siriano a Berlino; ritmi più o meno complessi, dall’ “arrotolato” (malfūf) che non ti fa star fermo all’ayyūb per i canti sufi fino alla zaffa per le processioni matrimoniali; chiare o irritrovabili influenze reciproche tra le sponde del Mediterraneo, musiche più marcatamente turche, persiane, indiane, africane; centinaia di strumenti musicali “arabi”, da quelli celebri come lo ‘ūd, il qānūn o il nāy, fino a quelli giusto un po’ più ricercati come il mazhar, il bandīr o la jawza.

 

Lo ammetto: fosse per me, parlerei di musica araba partendo dalle affascinanti speculazioni metafisiche sulle armonie celesti islamiche, le geometrie sonore del musicista e musicologo Safī al-Dīn al-Urmawī (1216-1294), i riti sufi del samā‘ e del dhikr, la precisione sacra della recitazione coranica, le meno conosciute gare di improvvisazioni musicali tuttora combattute sul Monte Libano o i più esotici canti dei cammellieri dello Hijaz.

 

Sì, la musica araba è, come la lingua araba, un oceano, ed esserne coscienti è il primo passo, indispensabile, per salpare. Se non si conosce la musica araba, anche un minimo, non si conosce il mare. E per tanti Paesi arabi, il mare è fondamentale.  

 

Una canzone a settimana

 

Ed è proprio in mezzo al mare che questa nuova rubrica musicale di Oasis desidera portarvi, per tutto il 2021. Una volta alla settimana, pubblicheremo una canzone araba, in una qualunque variante linguistica, dal dialetto marocchino alla fushā o classico.

 

Ogni canzone sarà presentata secondo uno schema fisso.

 

Una breve introduzione, con qualche linea di contestualizzazione e curiosità. Seguirà poi la traduzione del testo arabo in italiano, cercando di mantenere il “tono” della canzone. Infine, per gli arabisti, il testo arabo originale, con qualche vocalizzazione in più del solito (il minimo, eh!), per aiutare la lettura. A corredare il tutto, qualche breve nota a piè di pagina tenterà di sciogliere i riferimenti più criptici, accorti però a mantenere il tono della rubrica leggero e piacevole, accessibile a tutti.

 

Per quest’anno, la scelta delle canzoni s’integrerà nel progetto di ricerca in corso sulle “Rivoluzioni incompiute”. Ci soffermeremo dunque prevalentemente su canzoni arabe che affrontano il tema delle proteste e delle rivolte popolari, dei fenomeni sociali, politici, religiosi, in particolare, ma non esclusivamente, degli ultimi decenni (no, niente canzoni d’amore stricto sensu!).

 

Alcune canzoni saranno dei “grandi classici”, magari sconosciute alle nostre orecchie, ma capaci di infiammare una folla intera sull’altra sponda mediterranea. Altre, invece, saranno di nicchia, a volte proprio sconosciute, un po’ più difficili da reperire in internet.

 

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La ciurma e il titolo

 

Nostromi di questo viaggio saremo io, Riccardo Paredi, dottorando all’American University di Beirut (AUB) e ricercatore presso la Fondazione Internazionale Oasis, nonché membro di una timida band libano-norvegese-siriana e di un gruppo scanzonato italiano; e Omar Thawabeh, studente in Scienze della Comunicazione all’AUB, residente a Beirut (ma ha girato mezzo Mediterraneo) e grande appassionato di pop arabo.

 

Un’ultima parola sul titolo. Tarab (ben enfatica quella T iniziale, che sennò significa tutt’altro!) è una gran bella parola araba. Alla sua prima forma verbale, e similmente al nostro “com-muoversi”, indica una incontrollabile forza che ci “smuove dentro”, dovuta a gioia o dolore (ma si intende più spesso tripudio e allegria). Alla sua seconda forma verbale, che può avere un senso “rafforzativo”, indica invece l’atto di fare musica, di suonare, di cantare, di gorgheggiare. Tarab è anche l’estasi gioiosa, il divertimento, la gaiezza. Insomma, Tarab è quell’emozione che ci sentiamo nascere dentro quando qualcuno canta per noi. «Che ti succede?» «Son tutto un tarab».

 

A ben vedere poi, anche il sottotitolo ha il suo sostrato etimologico che merita di esser svelato: in arabo, lo abbiamo menzionato di sfuggita, “voce” si dice sawt. Ma, ça va sans dire, non è una parola univoca: oltre che “voce”, sawt significa anche il “voto” alle elezioni: una polisemia perfetta per l’accezione più politica di questa rubrica.

 

Ne uscirà uno spaccato delle voci che risuonano dall’altra parte del Mediterraneo. Sono tante, molto diverse, spesso inaspettate. Sarà solo un pezzettino di oceano, ma speriamo di convincervi che, già così, c’è parecchio da scoprire.

 

[Qui potete trovare tutte le puntate della rubrica T-arab] 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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