Cinquant’anni dopo l’inizio del processo di liberalizzazione e privatizzazione dell’economia tunisina, il Paese paga le conseguenze delle politiche di austerità imposte dal Fondo Monetario Internazionale ma non riesce più fare a meno dei suoi finanziamenti. Così il presidente Kais Saied non ha margini di intervento

Ultimo aggiornamento: 15/12/2021 16:42:10

È il 4 dicembre mattina e da quattro giorni in Tunisia non circolano più treni. A bloccare il traffico sono i lavoratori della Società nazionale delle linee ferroviarie tunisine (SNCFT), l’impresa pubblica che gestisce le ferrovie dello Stato. La SNCFT non ha versato i salari di novembre ai suoi impiegati. Dopo una settimana di scioperi, il ministero dei Trasporti ha infine trovato quei 9,7 milioni di dinari (circa 3 milioni di euro) necessari per pagare i 4.600 dipendenti pubblici rimasti in attesa del proprio stipendio. La vicenda non ha fatto altro che alimentare le polemiche sullo stato delle casse del Paese e delle sue imprese pubbliche proprio nel momento in cui, secondo la legge di bilancio 2021, la Tunisia deve tappare un buco di ben 9,7 miliardi di dinari di deficit (2,9 miliardi di euro), a cui si aggiunge il rimborso di 6 miliardi di dinari di debito estero e 5 miliardi di debito interno. Per un totale di 20 miliardi di dinari, circa 6,2 miliardi di euro.

 

Il 2020 è stato definito dall’ex ministro dell’economia Hakim Ben Hammouda «l’anno della peggiore recessione dai tempi dell’indipendenza» (PIL a -8,2%). Ma il 2021 non sembra essere da meno. La fine dell’anno si avvicina e i conti non tornano. Sulle pagine della stampa locale aleggia lo spettro del default. A maggio, il governo di Hichem Mechichi era tornato a negoziare con il Fondo Monetario Internazionale una nuova tranche di finanziamenti del valore totale di di 3,3 miliardi di euro, che avrebbe permesso alla Tunisia di chiudere il bilancio 2021: «è la nostra ultima possibilità», dichiarava allora il primo ministro. Delle trattative di questa primavera non se ne sa più niente. Ai lockdown estivi causati da una quarta ondata di Covid-19, che ha portato la Tunisia in cima alla lista dei Paesi africani con il più alto tasso di mortalità, è seguito il colpo di mano del presidente della Repubblica. Il 25 luglio 2021 Kais Saied ha congelato le attività del parlamento e licenziato il governo di Hichem Mechichi, sostituito a ottobre da quello di Najla Bouden Romdhane, che non dipende più dalla fiducia dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, ma da quella del presidente stesso.

 

Il 25 luglio 2021 segna uno spartiacque nella storia del Paese: oltre ad alterare il funzionamento delle fragili istituzioni democratiche andate costituendosi durante il decennio 2011-2021, Saied ha promesso ai tunisini riforme radicali per «riscattare le promesse della thawra, la rivoluzione», facendo della lotta contro la corruzione il suo cavallo di battaglia. Fin dal principio, il movimento di protesta che dalla regione marginalizzata di Sidi Bouzid ha infiammato il Paese nel 2011 ha messo al centro le rivendicazioni economiche: prima di hurriya, libertà, e karama, dignità, i manifestanti pretendevano khobz, pane. Nel periodo post-2011, però, il dibattito sulla revisione delle politiche che negli ultimi cinquant’anni hanno rimodellato l’economia del Paese è stato offuscato dallo scontro ideologico tra i partiti. Come dimostrano i risultati delle elezioni del 2019, il conflitto tra la cosiddetta area islamista vs. quella modernista è stato rimpiazzato dalla lotta contro i partiti stessi, incarnazione di quel sistema clientelare che è accusato di aver preso in ostaggio il Paese depredandolo della sua ricchezza. Così la questione economica torna, preponderante, al centro del dibattito pubblico.

 

Povertà in crescita

 

Quest’autunno il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 18,5% in Tunisia. La disoccupazione giovanile supera ormai il 40%: un under 35 su due non trova lavoro. I dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (INS) su lavoro e povertà, per quanto allarmanti, non bastano a descrivere la situazione di precarietà che vive quotidianamente buona parte della popolazione. Sfuggono alle statistiche i lavoratori dell’economia informale (che rappresenta tra il 30% e il 50% dell’economia del Paese secondo l’FMI), i lavoratori non pagati durante i mesi della pandemia, i lavoratori giornalieri, quelli sottoqualificati. Secondo la mappa della povertà pubblicata dall’INS a settembre 2020, nelle regioni marginalizzate della Tunisia – quelle del Sud e dell’entroterra – un abitante su tre vive sotto la soglia di povertà. Il rapporto si basa però su dati che risalgono al 2015, i più recenti a disposizione. Sei anni e una pandemia più tardi, il fossato tra ricchi e poveri nel Paese è molto più profondo.

 

In piena crisi economica, i prezzi di trasporti, servizi e beni di prima necessità hanno continuato a crescere: a novembre 2021, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, i prezzi dei generi alimentari sono aumentati del 7% rispetto all’anno precedente, con picchi per le uova (il 16% in più), il pollame e l’olio d’oliva (oltre il 25% in più). Nei mercati della capitale capita di imbattersi in frutta o verdura vendute a prezzi più alti di quelli presenti sul mercato italiano: a novembre, un chilo di pere poteva arrivare a 6 dinari e mezzo, più di due euro. «Quando per le strade si sente dire che si stava meglio prima della rivoluzione, è perché oggi la popolazione ha difficoltà a vivere del proprio salario», spiega il ricercatore Fadil Aliriza. Secondo l’autore del rapporto The impact and influence of international financial institutions on the economies of the Middle East and North Africa, pubblicato per la Friedrich Ebert Stiftung, l’inflazione è l’indicatore macroeconomico che ha l’impatto più evidente sulla quotidianità dei tunisini e delle tunisine. Per lui, l’attuale deprezzamento del dinaro tunisino e il conseguente aumento dei prezzi dei beni di consumo sono gli effetti perversi di quel lungo processo di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione intrapreso dalla Tunisia negli anni ’70 sotto la spinta di Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, con cui il Paese deve oggi si ritrova a fare i conti.

 

I costi sociali delle politiche del FMI

 

A partire dagli anni ’70, dopo il fallimento delle politiche di collettivizzazione portate avanti dall’allora ministro della Pianificazione e delle Finanze Ahmed Ben Salah sotto il presidente Habib Bourguiba, la Tunisia ha beneficiato di diverse tranches di aiuti da parte delle istituzioni finanziarie internazionali, a partire proprio da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. L’anno in cui Ben Ali prese il potere, il 1987, coincide con l’inizio del Piano di Aggiustamento Strutturale dell’FMI, che prevedeva all’epoca due importanti tranches di finanziamenti tra il 1988 e il 1992. La Tunisia ricorre all’FMI anche nel 2013, quando a giugno viene firmato un nuovo programma di aiuti rinnovato nel 2016, poi sospeso in assenza delle riforme richieste. Parallelamente, il Paese ha ottenuto altri fondi tramite i finanziamenti della Banca Mondiale e una serie di accordi bilaterali. «Le condizioni imposte dai creditori, specialmente nel caso di prestiti multilaterali, hanno contribuito ad orientare l’economia del Paese, oggi totalmente dipendente dalle esportazioni e, di conseguenza, dalle importazioni», spiega ancora Aliriza. In Tunisia, infatti, la legge sugli investimenti promulgata nel 1972 ha dato il via ad una serie di misure che introducono facilitazioni burocratiche e costi minori per le aziende che esportano, piuttosto che per quelle che alimentano il mercato interno. La Tunisia si ritrova così a produrre a basso costo per l’estero e importare per sé stessa. A beneficiarne è l’Europa: l’80% dell’export tunisino arriva in UE, il 60% dell’import proviene dall’UE. La stessa UE punta a integrare definitivamente la Tunisia nel proprio mercato con la firma dell’ALECA, l’accordo di libero scambio già contestato dalla società civile tunisina.

 

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Un manifestante mostra la Costituzione tunisina in segno di opposizione alle mosse di Kais Saied

 

A cinquant’anni dall’inizio del processo di liberalizzazione e privatizzazione che ha portato la Tunisia a mettersi nelle mani delle istituzioni finanziarie internazionali, è però necessario chiedersi, anche alla luce della crisi economica attuale, che fine abbiano fatto quei fondi e quali siano state le loro ripercussioni sociali. Le dichiarazioni del FMI a conclusione del Piano di Aggiustamento Strutturale tra il 1986 e il 1992 erano ottimiste: «i progressi della Tunisia forniscono un ottimo esempio della trasformazione di successo da un’economia fortemente regolamentata dal governo a un’altra basata sull’orientamento del mercato», si legge in un documento del FMI. Le istituzioni finanziarie internazionali hanno più volte lodato la Tunisia, considerata l’“allievo modello”: a partire dal 1969, le élites politiche ed economiche non hanno ostacolato il processo di liberalizzazione del mercato locale. Che cosa è andato storto, allora, se la Tunisia ha sempre fatto tutto quello che c’era da fare? Un’economia fondata sull’export ha bisogno di attrarre capitali stranieri, e può farlo solo puntando su grandi quantità e prezzi molto convenienti. Così, il passaggio dalla produzione locale alle monoculture nel settore agricolo e lo sviluppo dell’industria manifatturiera a basso valore aggiunto hanno creato una classe operaia estremamente precaria e poco qualificata, costituita ancora oggi da lavoratori e soprattutto da lavoratrici sfruttati nei campi dell’agrobusiness o nelle industrie del tessile.

 

La trappola del debito pubblico estero

 

L’abbandono dei terreni agricoli ha portato molte famiglie a lasciare le campagne, spostandosi verso i poli industriali del Paese. Sono nate così le grandi periferie di Tunisi, Sfax, Sousse. Proprio le periferie sono state protagoniste dei movimenti di protesta, durante la rivoluzione e successivamente (a gennaio 2020 una nuova ondata di proteste ha avuto inizio proprio nelle periferie). Come prova l’inchiesta sulla migrazione internazionale pubblicata dall’Istituto Nazionale di Statistica nel dicembre 2021, è da quelle stesse periferie che fuggono oggi i migranti che sbarcano sulle nostre coste. Oltre ad aver causato un movimento di migrazione interna e la precarizzazione di quei lavoratori il cui salario bassissimo rappresenta ancora oggi un vantaggio comparato per le aziende che delocalizzano, la liberalizzazione dell’economia tunisina ha contribuito all’arricchimento di quella che alcuni politologi tunisini considerano ormai come una vera e propria oligarchia. «L’élite tunisina e in gran parte urbana ha beneficiato del modello import-export. L’emergenza di una forte industria nazionale non le converrebbe, poiché potrebbe portare alla formazione di nuove élite concorrenti», scrive il ricercatore e giornalista Mohamed Haddad nella suo rapporto sulla cartografia del debito pubblico tunisino, pubblicato per la tedesca Heinrich Böll Stiftung. Proprio contro questa élite politico-economica costituita prima dalla famiglia Ben Ali, poi da una decina di famiglie ancora oggi estremamente influenti, si scagliano gli slogan di chi chiede più giustizia sociale, più redistribuzione e meno corruzione. Nel 2011 come oggi.

 

Una proposta alternativa alle politiche economiche portate avanti dai regimi pre-rivoluzione è emersa proprio nel 2011: la ristrutturazione del debito pubblico estero contratto sotto Bourguiba e Ben Ali. Il Comitato per l’abolizione del debito illegittimo (CADTM) proponeva all’epoca la sospensione del rimborso del debito che la Tunisia deve all’UE. «Ma il dibattito sull’audit del debito, e più in generale una riflessione profonda sulle politiche economiche di quegli anni ed i loro effetti, sono stati rapidamente offuscati dallo scontro ideologico tra l’area islamista e quella modernista. La discussione è stata definitivamente abbandonata nel 2013, dopo la morte del leader di sinistra Chokri Belaid», sostiene Fadil Aliriza. Secondo quest’ultimo, infatti, la rivoluzione «segna un momento di discontinuità politica, ma non economica».

 

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Manifestazioni popolari a sostegno di Kais Saied

 

 

La trappola di un debito pubblico sempre più alto e le conseguenze delle riforme dell’FMI sono state al centro delle rivendicazioni e delle lotte sociali portate avanti dai manifestanti. Ma con la firma del partenariato di Deauville varato dal G8 nel 2011, le istituzioni finanziarie internazionali – Fondo Monetario e Banca Mondiale inclusi – si sono subito impegnate a fornire «sostegno politico e finanziario ai Paesi arabi in transizione», con promesse di nuovi finanziamenti, ricorda Aliriza. Le élite politiche tunisine non hanno tardato a rassicurarli: pagheremo tutti i debiti. Secondo Aliriza, l’audit del debito contratto dallo stesso regime che il movimento del 2011 ha cacciato avrebbe permesso al Paese di disporre dei fondi pubblici necessari per dare il via alle riforme orientate alla giustizia sociale richieste dai manifestanti. Invece, tra il 2010 e il 2020 il debito pubblico tunisino è esploso fino a raggiungere nel 2021 la barra simbolica dei 100 miliardi di dinari (30 miliardi di euro), ovvero il 100% del PIL. Gran parte del debito pubblico tunisino è detenuto da Paesi e istituzioni estere: dalle istituzioni finanziarie internazionali nel caso dei prestiti multilaterali, da Francia e Arabia Saudita, ma anche da Germania, Giappone, Italia e Algeria, nel caso dei debiti bilaterali (dati del 2019).

 

Uno Stato senza margini di manovra?

 

L’ultima tranche di finanziamenti dell’FMI nel 2016, del valore di 2,8 miliardi di dollari, è costata cara alla Tunisia: «in cambio, nel 2016 il parlamento tunisino ha votato una legge che limita il margine di intervento della Banca centrale tunisina (BCT) sulla politica monetaria del Paese. Questo ha portato a un aumento dell’inflazione che sfugge al controllo diretto della BCT e al deprezzamento della moneta locale», spiega Aliriza. Dopo il picco dell’8% nel 2019 – una percentuale così alta non si osservava dagli anni ’90 – nei giorni che hanno preceduto il 25 luglio 2021 l’inflazione è tornata a salire notevolmente sfiorando i livelli del periodo pre-rivoluzione. A novembre 2021 si è fermata a quota 6,4%. Il deprezzamento del dinaro tunisino sta avendo effetti notevoli sui costi dei prodotti di importazione: nel 2016, un euro valeva 2,3 dinari, oggi vale più di 3,3 dinari. Essendo diminuito il valore della moneta locale, lo stesso debito pubblico, buona parte del quale è denominato in valuta estera, è aumentato di conseguenza. «Due terzi dell’aumento del debito estero tra il 2014 e il 2019 sono dovuti al deprezzamento del dinaro tunisino», scrive Mohamed Haddad nella sua Cartografia del debito pubblico. Come conferma Haddad, l’indebitamento costante non porta crescita in Tunisia. Questa si indebita per pagare i propri debiti, mentre gli investimenti necessari in settori pubblici disastrati come per esempio quello della sanità – tornato sotto i riflettori durante la pandemia, in particolare dopo la morte di un giovane medico a causa della caduta del vecchio ascensore dell’ospedale di Jendouba – non vengono fatti. Il Paese si ritrova così diviso tra chi ha accesso ai servizi privati, molto costosi, e gli altri.

 

«I governi hanno perso anno dopo anno la loro possibilità di manovra sulle politiche economiche», scrive Jihen Chandoul dell’Osservatorio Tunisino dell’Economia. Lo sottolinea anche Fadil Aliriza: «la pandemia da Covid-19 ne è la prova: le possibilità di intervento con fondi pubblici da parte dello Stato sono estremamente ridotte». Mobilitare fondi pubblici in una situazione di crescente indebitamento corrisponde a un aumento del deficit, che quest’anno pesa per oltre 9,7 miliardi di dinari (2,9 miliardi di euro). Eppure, c’è un ministero, l’unico, che ha visto aumentare notevolmente le proprie disponibilità dal 2011 ad oggi: il ministero degli Interni, la sede del potere di polizia. «Negli ultimi dieci anni, in presenza o meno della minaccia terrorista, il budget del ministero degli Interni è cresciuto sensibilmente, più del budget destinato agli ammortizzatori sociali, alla sanità, al trasporto pubblico o all’educazione. Questo ha portato a una rabbia crescente delle classi più svantaggiate, perché lo Stato c’è solo quando si tratta di attuare misure repressive. Dove lo Stato sociale si ritira, lo Stato di sicurezza prende il sopravvento», scrive Mohamed Haddad.

 

L’incognita 2022

 

Così anche Kais Saied si ritrova con le mani legate. «Ricorrere agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale è l’unica alternativa possibile», dichiarava a maggio il governatore della Banca Centrale tunisina Marouane Abassi. Proprio a maggio, l’allora governo di Hichem Mechichi tornava a negoziare con il Fondo Monetario Internazionale per convincere l’istituzione finanziaria a concedere un nuovo prestito triennale del valore di 3,3 miliardi di euro. In cambio, l’FMI chiedeva alla Tunisia la rinuncia definitiva alle sovvenzioni statali che mantengono stabili i prezzi di beni di prima necessità come farina, semola, zucchero o latte, la ristrutturazione delle imprese pubbliche entro il 2024 (la maggior parte delle quali deficitarie), nuovi tagli a sussidi statali e salari. Secondo Fadil Aliriza, il rischio è che l’ennesimo prestito dell’FMI permetta alla Tunisia «di tappare un buco nell’immediato, senza però una soluzione a lungo termine». Nei risultati delle consultazioni con la Tunisia di febbraio 2021, l’FMI punta il dito proprio contro il deficit di bilancio e l’aumento del debito pubblico durante l’anno della pandemia, che imputa essenzialmente alla massa salariale dei funzionari pubblici e alle sovvenzioni statali.

 

«Senza un programma di riforme forte e credibile, il debito pubblico tunisino potrebbe diventare insostenibile», avverte l’istituzione finanziaria. Secondo l’INS, il numero dei funzionari pubblici è passato da 435.000 nel 2010 a 785.000 nel 2018. La massa salariale costituiva il 14% del PIL nel 2019. Un articolo pubblicato dal media tunisino Nawaat prova però che, comparando le cifre (ed escludendo le grandi questioni di efficienza e clientelismo), il numero dei funzionari tunisini rientra nella media: secondo i dati più recenti (2017), la Tunisia conta 57 funzionari ogni 1000 abitanti. Sono 160 in Norvegia, 143 in Danimarca, 70 negli Stati Uniti o ancora 80 nel Regno Unito. Se la retorica dei troppi funzionari non basta a spiegare il rischio deficit a cui va incontro il Paese, il problema dei salari dei funzionari pubblici è comunque reale.

 

A settembre la Tunisia ha recuperato 740 milioni di dollari nell’ambito dell’assegnazione di fondi speciali concessi dal FMI nel periodo della pandemia, risorse che però difficilmente saranno utilizzate per il budget quando mancano ancora i salari di dicembre dei dipendenti pubblici. Secondo il mensile Jeune Afrique, la Tunisia dovrebbe riuscire, ricorrendo a dei «bricolage tecnici», a trovare i finanziamenti necessari per chiudere il bilancio 2021 tramite prestiti interni, che causeranno però «un ulteriore aumento dell’inflazione nei prossimi mesi. A maggio, il governatore della Banca Centrale tunisina Marouane Abassi ha avvertito che «se la Banca Centrale finanzierà il budget, da qui a qualche mese ci ritroveremo con un’inflazione a tre cifre e faremo la fine del Venezuela». Intanto il Tesoro ha recuperato 1,2 miliardi di dinari con tassi di interesse superiori all’8% a fine estate, e altri 60 milioni tramite la vendita di buoni del Tesoro a banche locali. La presidenza ha assicurato che due Paesi del Golfo sarebbero pronti a sostenere la Tunisia entro la fine del 2021: Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. La domanda rimane la stessa: a quale prezzo politico?

 

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