Oltre ad aver inaugurato il fermento rivoluzionario del 2010-2011, la Tunisia è l’unico caso di transizione istituzionale riuscita nel contesto della Primavera araba.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:37
Oltre ad aver inaugurato il fermento rivoluzionario del 2010-2011, la Tunisia è l’unico caso di transizione istituzionale riuscita nel contesto della Primavera araba. Questo è dovuto a una serie di caratteristiche che altri Stati della regione non possiedono. Tuttavia, pur avendo fatto innegabili passi avanti, il Paese si trova oggi in una fase di emergenza economica e sociale a cui classi politiche vecchie e nuove sembrano incapaci di rispondere.
Nel 2011 la Tunisia inaugurava una nuova tipologia di rivoluzione, senza ideologia, senza leader o za‘īm, ma il cui attore principale è un eroe collettivo che comunica sui social network, si riappropria dei simboli del nazionalismo (come la bandiera e l’inno nazionale), scende in piazza, trasforma in determinazione la rabbia dei cittadini e riesce a far cadere un regime in carica da 23 anni. Una nuova era sembrava aprirsi per la Tunisia e per il mondo arabo.
Il fenomeno, che ha suscitato un’ondata di rivolte nella regione, non ha mancato di stupire, essendosi verificato in un piccolo Paese governato in modo autoritario sin dalla sua indipendenza nel 1956. A differenza del Marocco o dell’Egitto, che nonostante tutto avevano compiuto alcune riforme per aprire parzialmente il sistema politico, con un’integrazione minimale degli islamisti, o consentendo una certa libertà di tono alla stampa, i governanti tunisini si erano sempre dimostrati refrattari a qualsiasi allentamento del sistema. Habib Bourguiba e Zine el-Abidine Ben Ali avevano in comune questa pratica autoritaria del potere: associavano infatti la democrazia al disordine e soprattutto alla presa del potere da parte degli islamisti, che entrambi combattevano con tutte le loro forze.
I manifestanti tunisini del 2011 volevano farla finita con questo tipo di governo, sbarazzandosi di Ben Ali. L’immagine del popolo unito che si libera dal suo “dittatore” rimarrà impressa nella memoria e, malgrado le grandi difficoltà del periodo post-rivoluzionario, la Tunisia continua a incarnare la speranza di quella che è stata chiamata la “Primavera araba”.
Esiste un “particolarismo” tunisino?
La rivolta di un popolo arabo contro l’autoritarismo non è, di per sé, banale: smentisce infatti la tesi del popolo obbediente, ponendo così fine all’idea di una “eccezione araba”, cioè di una regione che, per sua essenza, sarebbe totalmente refrattaria alla democrazia. Inoltre, in questo piccolo Paese privo di risorse naturali, il passaggio dalla dittatura alla transizione democratica è avvenuto senza scossoni e senza clamore, visto che la rivoluzione si è svolta senza eccessiva violenza (300 morti e 700 feriti). Ancora, a differenza di quanto avvenuto in altri Paesi della regione, la transizione post-rivoluzionaria ha dato vita a una cultura del compromesso tra forze politiche portatrici di progetti radicalmente diversi. Alle elezioni per l’Assemblea costituente del 2011, nessun partito ottenne la maggioranza assoluta. Nacque così un governo di coalizione composto da tre partiti (Ennahda, il Congresso per la Repubblica ed Ettakatol) che avevano trovato un accordo sulla spartizione del potere nel quadro di una Troika. Lo stesso avvenne anche nel 2013, quando Beji Caid Essebsi, a capo di Nidaa Tounes, formazione modernista votata a combattere il fenomeno islamista, tese la mano a Rached Ghannouchi, leader di lunga data del partito islamista Ennahda, per governare il Paese sulla base di un “compromesso” definito “storico”. Al di là degli accordi personali che stanno alla base di questi patti, la cui efficacia politica è tutta da dimostrare, la necessità di una convivenza pacifica tra forze ideologicamente opposte ha finito per imporsi ed essere accettata dalla maggior parte dei tunisini. Queste convergenze, che potevano sembrare innaturali qualche tempo prima, hanno finito per essere percepite come un mezzo per evitare la violenza estrema e la guerra. È un risultato del periodo di transizione di cui si parla poco.
Quest’accettazione dell’altro nella sua differenza non è dovuta solo al talento di chi ha ideato il dialogo nazionale (il sindacato UGTT), e all’abilità di coloro che se ne sono appropriati (Essebsi e Ghannouchi). Essa è stata possibile anche perché la Tunisia è un Paese in cui il dibattito d’idee è antico: risale infatti al XIX secolo, quando fu iniziato dal movimento riformista della Nahda (“Rinascimento arabo”), nato in Egitto ma sviluppatosi poi in altri Paesi. Questo dibattito è continuato in Tunisia con pensatori come Tahar Haddad, che a partire dagli anni ’30 si è interrogato sul ruolo delle donne nella società, e successivamente con gli attori del movimento nazionale, che hanno posto il popolo al centro dell’azione politica.
Il leader di questo movimento, Bourguiba, dotò la Tunisia di una modernità all’occidentale, pur rimanendo ferocemente ostile a qualsiasi idea di democrazia. La società civile fu così completamente assente e l’opposizione fu repressa in modo violento. Solo alcuni corpi intermedi, come l’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT), sopravviveranno e cercheranno di difendere, come meglio potranno, un’autonomia alla quale tenevano molto, poiché parte della loro storia. Risale infatti al 1924 l’istituzione del primo sindacato autonomo, in Tunisia e nel mondo arabo. Combattuto dalle autorità coloniali, che intendevano federare e controllare tutte le organizzazioni di difesa dei lavoratori, entrò in letargo fino alla fine della seconda guerra mondiale, per poi riemergere nel 1946 con la creazione dell’UGTT a opera di Farhat Hached.
Le autorità coloniali ritennero però che Hached stesse minacciando i loro interessi, nella misura in cui stabiliva un nesso tra libertà individuali, diritti dei lavoratori e indipendenza dei Paesi della regione. Nel 1952 fu assassinato dalla Mano Rossa, un’organizzazione colonialista, e dopo l’indipendenza tunisina l’UGTT divenne il principale contropotere al regime di Bourguiba e Ben Ali, fungendo come spazio di contestazione per l’opposizione. I primi due presidenti della Tunisia indipendente tentarono di addomesticare la centrale sindacale, emarginando o escludendo i dirigenti che cercavano di resistere al nuovo corso. Il regime di Ben Ali riuscì infine a imporre i suoi uomini alla direzione del sindacato, ma le sezioni locali rimasero controllate da dirigenti che erano in disaccordo con la leadership cooptata.
Il 17 dicembre del 2010 furono questi sindacalisti in conflitto con la loro direzione a portare in ospedale Mohamed Bouazizi, dopo che questi si era dato fuoco a Sidi Bouzid. L’UGTT non era all’origine della rivolta popolare che scaturì da questo episodio, ma decise di accompagnarla, diventando un attore centrale della rivoluzione. Quest’apprezzata istituzione, la cui traiettoria ha fortemente influenzato la storia politica del Paese, divenne così l’alleata dei manifestanti del gennaio 2011.
Un altro spazio di contestazione e di rifugio per i dissidenti è stata la Lega Tunisina per i Diritti dell’Uomo (LTDH). Fondata nel 1976, è stata un raro esempio di istituzione riconosciuta dal potere, benché la sua vocazione fosse quella di opporvisi. In vari modi, Bourguiba e Ben Ali cercarono di indebolirla e di ostacolarne la missione, cooptando alcuni dei suoi presidenti e minacciando regolarmente di scioglierla. La Lega sopravvisse grazie ad alcuni dei suoi membri che, nonostante tutto, perseverarono nella lotta per l’autonomia dall’esecutivo.
L’esempio di queste due istituzioni mostra che la rivoluzione tunisina del 2011 non avrebbe avuto luogo se in precedenza non ci fosse stata una resistenza alla dittatura e non si fosse formata una società civile gelosa della propria autonomia e vigile sugli abusi e sulle derive del potere. Sarebbe infatti sbagliato pensare che tutti i tunisini si siano adattati passivamente al sistema autoritario. Donne e uomini, a volte riuniti in associazioni, leghe o sindacati, hanno potuto esprimere le loro aspirazioni democratiche, mentre progetti di riforma e di cambiamento politico erano presenti già dagli anni ’70[1. È una delle conseguenze dell’istruzione di massa e gratuita decisa in Tunisia sin dal primo giorno dell’indipendenza. Negli anni 2000, questa resistenza all’autoritarismo ha assunto una nuova forma con la dissidenza digitale e lo sviluppo di siti ribelli che informano, contestano e invitano ad azioni collettive online, ed è rimasta esigente anche dopo il 2011. Così, dopo che due leader della sinistra erano stati assassinati a pochi mesi di distanza uno dall’altro, nell’estate del 2013 molti tunisini si radunarono in Piazza del Bardo, di fronte al Parlamento, per chiedere le dimissioni di un governo eletto, ma ritenuto incompetente e incapace di garantire la sicurezza dei cittadini. Facendo questo, i manifestanti non stavano mettendo in discussione la democrazia, ma ne stavano denunciando le disfunzioni.
A questi fattori radicati nella storia politica del Paese, che permettono di capire il motivo per cui la Tunisia è stata la culla della Primavera araba, si aggiungono elementi fattuali osservati durante il momento rivoluzionario, legati al ruolo dei militari e all’influenza degli Stati Uniti sul corso degli eventi.
Il ruolo dell’esercito è molto difficile da comprendere, in quanto sin dall’indipendenza del Paese l’istituzione militare e l’esecutivo hanno avuto un rapporto peculiare. Negli anni ’60, Bourguiba provava un misto di disprezzo e paura nei confronti dei militari. Insieme al Libano, il suo Paese era l’unica repubblica civile della regione e il suo timore di un colpo di Stato militare in Tunisia era reale. Per diffidenza, Bourguiba tenne l’esercito fuori da qualsiasi decisione politica. Nonostante questo, i militari sono sempre stati obbedienti e leali, svolgendo appieno il loro ruolo di mantenimento dell’ordine e controllo dei confini. Più di una volta, per volere dei politici, i soldati hanno sparato sulla folla per sedare proteste che minacciavano di degenerare. Una cosa simile è successa durante la rivolta del 2011, quando l’esercito sostituì la polizia, arrivando a raccogliere le armi dei poliziotti fuggiti e a occupare le strade per difendere i punti sensibili. La storia ricorderà tuttavia che in quel famoso 14 gennaio, quando Ben Ali doveva ancora lasciare il Paese, ma lo spazio aereo era già stato messo in sicurezza e Washington aveva garantito un rifugio alla famiglia del dittatore, i militari non spararono sulla folla. Diverse ipotesi sono state avanzate per spiegare questo atteggiamento senza precedenti dell’esercito tunisino: i soldati in servizio si sentivano solidali con i manifestanti? Fu una vendetta dell’istituzione militare su Ben Ali? Oppure, più semplicemente, gli alti ufficiali dell’esercito valutarono i rapporti di forza, del tutto sfavorevoli a un Capo di Stato abbandonato dalla sua polizia e attaccato violentemente dal suo popolo?
Gli interrogativi riguardano anche l’assenza di sostegni esterni a Ben Ali, che ne causò indirettamente la caduta. Solo il colonnello Gheddafi propose di inviare le sue truppe in aiuto al presidente tunisino, mentre l’Algeria di Abdelaziz Bouteflika e gli Stati Uniti di Barack Obama non fornirono alcun appoggio particolare a colui che in precedenza era stato il loro partner e alleato prediletto. Quello che un tempo gli americani avevano percepito come un attore prezioso nella lotta contro gli islamisti divenne un ostacolo nel rapporto tra Washington e Tunisi nel momento in cui, per neutralizzare gli attori più radicali, gli Stati Uniti decisero di utilizzare gli islamisti che accettavano il gioco democratico. Il rifiuto categorico di Ben Ali di coinvolgere parte dell’opposizione islamista nella vita politica non corrispondeva più alle ambizioni americane. Secondo alcune testimonianze, gli Stati Uniti erano favorevoli alla partenza di Ben Ali già all’inizio degli anni ’90. Ciò spiegherebbe la posizione assunta nei confronti della rivoluzione tunisina del 2011 da Barack Obama, il quale affermò che «gli Stati Uniti stanno dalla parte del popolo tunisino, e sostengono le aspirazioni democratiche di tutti i popoli»[2].
Sono queste caratteristiche ad aver reso possibile la rivoluzione in un Paese privo di risorse, geograficamente distante da Israele e che non rappresentava alcuna minaccia per le grandi potenze.
La fuga di Ben Ali dopo tre settimane di una rivolta inedita ha dato ai tunisini la sensazione di una vittoria dei manifestanti contro la dittatura. La facilità con cui avvenne la caduta del regime spinse i cittadini di diversi Paesi della regione a sbarazzarsi a loro volta dei loro governanti. Ma l’effetto domino, sul modello della “Primavera dei popoli” che l’Europa visse nel 1848, non c’è stato. Le proteste popolari che si sono prodotte in molti Paesi arabi a partire dal 2011 non hanno portato alla caduta del regime o a un impegno nazionale per una transizione democratica come avvenuto in Tunisia. Se alcuni fattori specifici di questo Paese hanno permesso il cambiamento voluto dai cittadini-manifestanti, l’esperienza tunisina non è stata in alcun modo replicabile in Paesi che erano certamente governati da regimi autoritari, ma non avevano avuto la sua stessa storia politica, la sua stessa economia e le sue stesse caratteristiche geopolitiche.
Un successo relativo
Nella mente dei tunisini, questo momento forte nella storia politica del Paese avrebbe dovuto ribaltare strutture e mentalità, producendo un uomo nuovo e un ordine nuovo. Si pensava che la rivoluzione avrebbe cambiato tutto, rispondendo alle aspettative che i cittadini avevano espresso durante il momento rivoluzionario in termini di uguaglianza, libertà e dignità. Dieci anni dopo, gli sviluppi politici non sono stati accompagnati da altrettanti progressi sul fronte dell’occupazione e della lotta contro le disuguaglianze.
Politicamente, il percorso è comunque notevole: elezioni libere; una reale libertà di espressione dopo anni nei quali i tunisini ne erano stati privati; una Costituzione, approvata nel 2014, che garantisce le libertà fondamentali e riconosce la libertà di coscienza. Tutti risultati importanti, insperabili un decennio fa, ma che oggi i tunisini fanno fatica ad apprezzare, tanto sono preoccupati dalle loro difficoltà materiali.
Dal 2011, infatti, le disuguaglianze sociali e regionali si sono accentuate e nelle regioni dell’interno del Paese, teatro delle prime proteste del 2010, gli abitanti denunciano la debole presenza dello Stato e la sua incapacità di combattere la corruzione che avanza. Le rivendicazioni sono più numerose che in passato, i sit-in si moltiplicano mentre il potere si accontenta d’invocare una tregua dalle richieste sociali, mettendo in guardia contro la paralisi economica. Nelle numerose regioni in cui dilaga la disoccupazione, arrivando fino al 50% della popolazione in età lavorativa, gli abitanti affermano che la rivoluzione non ha portato alcun cambiamento e che le zone in cui abitano continuano a essere trascurate dalle autorità. Animati dalla percezione di un’ingiustizia, essi rimproverano allo Stato il suo disimpegno e ritengono che le loro regioni non beneficino delle risorse naturali che producono, che si tratti dell’acqua di Fernana, nel Nord-Ovest della Tunisia, del petrolio di Kamour, vicino a Tataouine, nel Sud, dei fosfati di Gafsa, oppure dei datteri del palmeto di Jemna nel Sud-Ovest. I cittadini esprimono allora la loro rabbia bloccando la produzione di queste materie prime, costringendo così lo Stato a importarle, indebitandosi ulteriormente. Una tale paralisi di interi settori produttivi risulta naturalmente molto dannosa per un’economia già molto in affanno a causa della rivoluzione, che ha provocato un drastico calo dell’attività produttiva, riducendo notevolmente le risorse dello Stato.
Le energiche rivendicazioni dei lavoratori e il disordine generale nel mondo del lavoro hanno portato alla chiusura di molte fabbriche e all’abbandono del Paese da parte degli investitori. Ma il crollo dell’economia è dovuto anche al clima di insicurezza che regna nel Paese dal 2012. Sono stati soprattutto gli attacchi armati di vari gruppi salafiti a dimostrare che il potere in carica non era in grado di garantire la sicurezza dei cittadini. Ennahda, che con 89 deputati su 217 all’Assemblea costituente deteneva gran parte del potere, è stata superata a destra da elementi salafiti che hanno cercato di destabilizzare lo Stato e la transizione. Successivamente, gli attacchi del 2015, rivendicati dall’Isis, hanno avuto ragione di un’economia obsoleta, che non ha beneficiato di alcuna riforma strutturale. Il turismo, che dà lavoro a circa 400.000 persone, ha allora conosciuto il suo primo crollo, prima del secondo calo a causa della pandemia di coronavirus.
La stagnazione economica spinge sempre più giovani tunisini a tentare di raggiungere un’Europa che da tempo ha chiuso le sue porte. Nel 2020 sono stati sette volte più numerosi rispetto al 2019. Non trovando risposte alle loro aspettative, questi giovani non riescono a immaginarsi un futuro nel loro Paese, dove non sono mai state avviate le riforme necessarie, in particolare quelle per contrastare una disoccupazione sempre più consistente. Concentrati sulle proprie difficoltà, i tunisini tendono a dimenticare i progressi politici della transizione e sono talvolta nostalgici dei tempi precedenti al 2011. Attribuiscono alla rivolta e alla rivoluzione il deterioramento del clima sociale, l’assenza di lavoro per i giovani, la mancanza di sicurezza, le crescenti disuguaglianze e il degrado dei servizi pubblici.
Eppure, a ben vedere le cose, la rivoluzione non c’entra. Al contrario, ha permesso al Paese di uscire dal letargo politico in cui era sprofondato. Il potere era infatti concentrato nelle mani di una casta che ruotava attorno a Ben Ali e alla sua famiglia, mentre i tunisini, poco informati e poco coesi, avevano finito per sentirsi estranei al gioco politico. La rivoluzione ha rivelato l’interesse dei cittadini per un esercizio diverso della politica, mettendo sul tavolo questioni essenziali come le disuguaglianze e i privilegi. Essa ha inoltre posto al centro delle rivendicazioni la dignità in senso lato, che presuppone una retribuzione adeguata e un alloggio dignitoso, la libertà di esprimersi, di incontrarsi, di impegnarsi, ma anche di vivere la propria differenza religiosa o sessuale sotto la protezione della legge. La Costituzione del 2014 ha confermato proprio questa superiorità del diritto sulla religione. In realtà, a essere messo in discussione è il modo in cui la transizione è stata governata in questo decennio, così come la scelta di un regime politico che sembra del tutto inadatto al Paese.
Una transizione mal governata
La dinamica rivoluzionaria del 2011 è stata drammaticamente carente di strategia, di visione e di leadership. Queste caratteristiche, attribuite a giusto titolo alla spontaneità del movimento, hanno segnato il modo in cui è stata governata la transizione. In un primo momento, gli attori che avevano avuto tanto successo nel mobilitare folle, inventare slogan significativi, comunicare e infine detronizzare Ben Ali, non hanno avuto né lo slancio né l’inventiva sufficienti per organizzare in modo diverso la vita politica.
Il primo voto libero dell’ottobre 2011, organizzato per eleggere un’Assemblea costituente, ha dato vita a una Troika composta da tre partiti del passato che, grazie alla rivoluzione, sono passati dall’opposizione al governo del Paese, con l’obbligo di gestire gli affari correnti e di vigilare per un anno sulla redazione della Costituzione. Questo esecutivo, dominato da Ennahda, si è rapidamente trovato di fronte a molteplici difficoltà, che hanno messo in luce la mancanza di esperienza e di visione politica dei tre partiti. Il partito islamista, azionista di maggioranza del governo, ha manifestato da subito una volontà egemonica, tentando di impossessarsi di tutte le leve del potere e di assumere il controllo dello Stato, dell’amministrazione e dei media.
Benché si trattasse di un terzetto politico, non è stato elaborato alcun programma comune. È stata Ennahda a governare, mentre le altre due formazioni hanno svolto la parte delle comparse, senza però chiedere alcuna forma di condivisione del potere. L’egemonia di Ennahda, il nepotismo di cui essa ha dato prova e la sua mancanza di considerazione per l’opposizione non hanno nulla da invidiare ai metodi che lo stesso partito islamista aveva subito sotto il vecchio regime.
A partire dal 2012 si è proceduto a massicce assunzioni di nuovi funzionari secondo criteri di parte, aumentando il deficit dello Stato e raddoppiandone il debito pubblico. Ma altrettanto dannoso è stato il costo politico di questi circa 4000 dipendenti pubblici, visto che la sostituzione di un personale amministrativo con un altro, meno esperto, ha avuto conseguenze sul funzionamento dell’amministrazione. A queste pratiche i vecchi funzionari non hanno opposto una fronda, ma un immobilismo amministrativo che ha paralizzato interi segmenti della vita amministrativa del Paese, contribuendo a indebolire lo Stato. Alcuni parlamentari dell’opposizione sono stati esclusi dalla presidenza delle principali commissioni parlamentari e i sindacalisti sono stati intimiditi o maltrattati. Questi atti hanno alimentato una vera e propria diffidenza dei tunisini verso la loro classe politica, che si sarebbe poi trasformata in una crisi di fiducia sulla questione della sicurezza e della moltiplicazione degli attacchi attribuiti ai gruppi salafiti.
La situazione tunisina diventa in effetti preoccupante nel 2012, quando alcuni salafiti sequestrano circa 400 moschee predicandovi violenza, collaborano alla costruzione di scuole e asili nido e creano canali televisivi come Al-Insan TV. Inoltre, con l’invito di predicatori radicali dal Medio Oriente, il panorama e il discorso religioso cambiano radicalmente. Sono soprattutto gli attacchi armati di questi gruppi a seminare la paura tra la popolazione (come gli attacchi all’ambasciata americana a Tunisi, ai mausolei dei santi dell’Islam popolare, alle donne e agli artisti).
La Troika non reagì a queste derive, lasciando trasparire l’indulgenza di Ennahda verso i salafiti. Questa incapacità del governo di proteggere la popolazione, la sua mancanza di risposte a questioni economiche e sociali, e più in generale la sua inesperienza e assenza di visione contribuirono alla crisi politica dell’estate 2013, quando parte della società civile chiese le dimissioni di un governo ritenuto incompetente e che, del resto, era stato eletto solo per un anno.
Nel 2014 Essebsi, ex ministro di Bourguiba, che era già stato invitato a guidare il governo nel marzo 2011 prima di fondare il suo partito Nidaa Tounes nel 2012, si presenta come il “salvatore” del Paese. Approfittando della debolezza temporanea di Ennahda, che doveva far dimenticare il suo bilancio alla guida della Troika, Essebsi tende una mano al suo leader Rached Ghanouchi. Per giustificare questa alleanza contro-natura tra due formazioni più inclini a combattersi che a cooperare si inizia a parlare di compromesso e di consenso. Ma in nome di questo consenso, presentato come baluardo contro la violenza e la guerra civile, era il passato politico a ripresentarsi con forza e senza inibizioni. Nidaa Tounes rappresentava infatti il prolungamento dell’RCD (Rassemblement constitutionnel démocratique), il partito di Ben Ali, mentre Ennahda poteva oramai agire alla luce del sole e non clandestinamente. La scena politica antecedente alla rivoluzione, dominata da due grandi formazioni, veniva così ristabilita, spazzando via tutti i partiti emersi nel 2011. I due partiti si sono impadroniti della vita politica, smantellando metodicamente le pratiche messe in atto grazie alla rivoluzione.
Al di là del ripristino della vita politica di un tempo, la convivenza tra due formazioni così diverse non era sostenuta da alcun progetto comune capace di superare le difficoltà sociali dei tunisini, combattere il moltiplicarsi delle reti di contrabbando che sfuggono al controllo del potere, restaurare l’autorità dello Stato ed evitare il degrado dei servizi pubblici. Il bilancio di questa politica del compromesso è stato disastroso. Se le questioni essenziali legate alla vita dei tunisini non hanno trovato risposta, i parametri di riferimento per leggere la vita politica del Paese sono risultati totalmente distorti. Modernisti e islamisti, che si erano abbondantemente insultati a vicenda durante la campagna elettorale del 2014, si sono ritrovati uniti nel governo del Paese, facendo così venir meno il confine tra il vecchio regime e lo schema politico tracciato dopo la rivoluzione. Inefficace, la vita politica è diventata opaca e il salvataggio del Paese proposto da Essebsi è sembrato sempre più un’illusione.
Le pratiche politiche hanno iniziato a obbedire sempre meno all’ideale espresso al momento della rivoluzione. Essebsi, nelle cui mani si è concentrata buona parte del potere, non si è curato molto del quadro istituzionale o del regime politico scelto nel 2014, che assegna più prerogative al primo ministro che al capo dello Stato, benché quest’ultimo sia eletto a suffragio universale. Riteneva infatti che non spettasse a lui conformarsi allo schema politico post-rivoluzionario, che prevedeva l’istituzione di organi indipendenti e di contro-poteri, necessari per la democrazia. Da uomo del passato, ha agito per un ritorno di quest’ultimo, riabilitando i quadri di Ben Ali e rendendo i ministri e il primo ministro meri attuatori di una politica che voleva ideare da solo. Essebsi ha creato e posto sotto la sua autorità istituzioni parallele al governo, come il Consiglio di sicurezza nazionale, da lui insediato a Cartagine, che si è occupato di tutte le pratiche relative all’istruzione, alla sanità, all’economia, etc. In poche parole: un vero governo parallelo che ha consolidato il suo potere a scapito del governo formale.
Per cinque anni, il gioco politico si è svolto in un perimetro molto ristretto, nel quale ciascun attore dell’esecutivo ha cercato di espandere il proprio potere a danno dell’altro, a prescindere dalle esigenze sociali della popolazione.
La condanna delle urne
Le manovre politiche e i riposizionamenti hanno contribuito ad allontanare i tunisini da una vita politica disinteressata alle loro preoccupazioni circa il peggioramento della vita economica. Il potere d’acquisto delle classi medie è crollato e si è assistito a un graduale impoverimento di intere fette della popolazione. Il malgoverno ha eroso il rapporto di fiducia tra governanti e governati: i partiti politici non sono stati più in grado di mobilitare e fidelizzare i loro militanti e simpatizzanti, assistendo di elezione in elezione a una vera emorragia al proprio interno. I capi di queste formazioni sono stati accusati di aver agito secondo i propri interessi personali e di essersi schierati con l’oligarchia, ritenuta corrotta e incapace. I risultati delle consultazioni elettorali del 2018 (amministrative) e del 2019 (presidenziali e legislative) hanno penalizzato la classe politica a favore di attori esterni al Palazzo, che hanno adottato un discorso fortemente populista.
Queste elezioni, che hanno chiuso un breve decennio di transizione, hanno fatto registrare un’affluenza molto bassa: 33,7% alle elezioni comunali del 2018, con un balzo delle liste indipendenti, a dimostrazione del rifiuto dei partiti politici. I candidati indipendenti si sono presentati a queste elezioni locali sparando a zero contro la corruzione e contro la negligenza dei due partiti al potere dal 2014. Guidati da una parte della società civile che aveva comunque mantenuto la sua fede nella politica, gli indipendenti hanno ottenuto un grande successo sia contro Ennahda sia contro Nidaa Tounes, che hanno perso rispettivamente metà e i due terzi del loro elettorato del 2014. Nel luglio 2019, la morte del capo dello Stato, Essebsi, ha invertito il calendario elettorale, spostando così le elezioni presidenziali prima delle legislative. Tutta l’attenzione si è concentrata così sulla ricerca di un “salvatore”, una specie di uomo della provvidenza che avrebbe salvato il Paese dalle sue tante difficoltà. I tunisini scoprono attraverso i sondaggi che l’elettorato apprezza delle figure esterne al mondo politico. Ad attirare l’attenzione sono profili singolari, come quello di Nabil Karoui, 56 anni, proprietario di Nessma TV, canale televisivo fondato nel 2007 e a capo di un’associazione di beneficenza che difende i poveri e i diseredati; oppure Abir Moussi, avvocato di 44 anni, ex vice-segretario del RCD, il partito di Ben Ali, che non fa mistero della sua fedeltà al suo mentore, arrivando ad affermare che il 14 gennaio 2011 non fu una rivolta spontanea ma un complotto organizzato all’estero con la collaborazione di alcuni tunisini “traditori della patria”; infine la figura più enigmatica, Kais Saied, un accademico di 61 anni, che fa campagna elettorale senza essere sostenuto da un partito o da un’associazione.
La vittoria di Kais Saied e Nabil Karoui al primo turno elettorale coglie di sorpresa i tunisini. Due uomini con profili e percorsi molto diversi, ma con una cosa in comune: l’accento posto durante la campagna elettorale sul divario tra la promessa della rivoluzione del 2011 e una vita politica in costante deterioramento, al punto da generare un divorzio netto tra la classe dirigente e i cittadini. Con la loro contrapposizione tra il popolo e le élite, Saied e Karoui possono essere collocati all’interno del populismo. E come tutti i progetti populisti, i loro programmi non hanno nulla di articolato, ma erigono il popolo a figura centrale di una democrazia da costruire.
È Kais Saied a essere eletto a larga maggioranza alla presidenza della Repubblica (72,71% dei voti espressi, con un’affluenza del 55%), dimostrando così di essere riuscito a convincere molte persone, che hanno visto in lui il portatore di una nuova verità nella vita politica, riconoscendosi in quel popolo che Saied presenta come virtuoso, trascurato e vittima di un sistema politico di cui beneficerebbero solo le élite. Il nuovo presidente si pone quindi come un “riparatore”, capace di correggere la scarsa rappresentanza della politica tunisina. Il suo progetto consiste in una sorta di democrazia popolare, con un’inversione della piramide dei poteri che egli ritiene necessaria per emarginare le élite corrotte e invischiate nei loro piccoli calcoli politici. Ma ora che è stato eletto, il suo discorso deve trovare una traduzione politica dopo aver sedotto molti tunisini. Saied sembra scontrarsi con molte difficoltà nel passaggio da una campagna elettorale in cui si è rivolto ai giovani e agli emarginati al ruolo di capo dello Stato che parla ai tunisini nel loro insieme e che è giudicato per le sue azioni e non per la sua immagine. Il suo discorso populista non può essere una risposta alle aspettative dei cittadini. D’altronde, il problema non risiede solo nella debolezza della sua retorica, ma anche nella configurazione di un regime politico che, pur presentando le caratteristiche di un regime parlamentare, concede al capo dello Stato ampi poteri in materia di difesa nazionale e diplomazia, a cui si aggiunge una legittimità acquisita attraverso le urne. Il punto di equilibrio di questo modello si situa a livello del governo e del primo ministro, che dovrebbe essere il vero detentore del potere esecutivo. Questo schema ibrido combina tuttavia gli inconvenienti del parlamentarismo (con l’instabilità del governo e la conseguente paralisi del processo decisionale) con quelli del potere personale di un regime presidenziale. Di qui la tendenza degli ultimi due presidenti della Repubblica a rafforzare il potere del capo dello Stato a scapito del premier e del parlamento.
Il malgoverno delle classi dirigenti che si sono succedute dal 2011 in avanti, sommato a un regime politico inadeguato, spiega il rifiuto della politica espresso dai tunisini a dieci anni dalla loro grande rivoluzione. Fino a oggi, i governanti hanno evitato l’essenziale, non riuscendo a rispondere alle emergenze economiche e sociali e tralasciando la riforma dello Stato e la ristrutturazione dei servizi pubblici.
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Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Khadija Mohsen-Finan, Luci e ombre dell’eccezione tunisina, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 14-25.
Riferimento al formato digitale:
Khadija Mohsen-Finan, Luci e ombre dell’eccezione tunisina, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/luci-e-ombre-eccezione-tunisina
[1] Si veda Khadija Mohsen-Finan e Pierre Vermeren, Dissidents du Maghreb, Belin, Paris 2018.
[2] Discorso sullo stato dell’Unione, 25 gennaio 2011, https://bit.ly/2TuOiPW