Il film Un divano a Tunisi, della regista franco-tunisina Manele Labidi, racconta la liberazione della parola nella Tunisia post-2011

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:29

«La psicanalisi? Non ci serve, noi abbiamo l’Islam». È una delle prime battute che, nel film Un divano a Tunisi, accoglie Selma, psicanalista di origine tunisina che torna da Parigi in patria per stendere i connazionali sul lettino. Bella idea, questa dell’esordiente franco-tunisina Manele Labidi. La commedia, che ha vinto il Premio del Pubblico alla Mostra di Venezia 2019, esplora infatti con ironia un tema cruciale del nostro tempo: la secolarizzazione che, dall’Europa, si estende verso il continente africano, familiarizzando le società più conservatrici con una idea di laicità che potrebbe riservare sorprese.  

 

Intanto, sorpresi sono gli abitanti di Tunisi che, dopo la delusione per una rivoluzione riuscita solo a metà, si ritrovano tra i piedi una bellissima parigina che parla arabo e vuole sapere tutti i loro segreti. «Per risolvere i problemi?» chiede la shampista interessata. «No», risponde lei. Ma allora, a che cosa serve la psicanalisi? Se lo chiedono tutti, nel film, e si arrabbiano per i silenzi di Selma. I primi sono i parenti che abitano al piano sotto la terrazza dove la ragazza si è insediata. D’altra parte, l’operaio dei traslochi l’aveva avvertita. Guardando la foto di Freud con il fez rosso, aveva chiesto se era musulmano (visto che portava la barba). Alla risposta divertita di Selma: «È ebreo. È il mio capo», aveva profetizzato: «Avrai problemi per lui con i vicini».

 

E infatti i problemi cominciano subito, mentre trasloca nella casa di famiglia: la guardano male la zia col velo, invidiosa della sua libertà di single, lo zio Mourad, che beve vino nelle lattine di Coca Cola e non vuole testimoni, la cuginetta ribelle che non si capacita del ritorno di Selma da Parigi: «Non è che hai ammazzato un paziente? O sei incinta? Forse ti droghi? No? E allora, perché sei tornata? Non durerai molto, comunque». Ma è risentita anche la parrucchiera: abituata com’è a raccogliere i segreti delle clienti, la vede un po’ come una rivale e la aggredisce: «Spocchiosetta post-coloniale». Selma resta impassibile: al suo posto, risponde la lunghissima fila di pazienti, i più improbabili, che si accalcano sulla terrazza. Tutti vogliono parlare con lei. C’è il fornaio che sogna di baciare Putin, l’imam depresso, abbandonato dalla moglie e dalla fede, il paranoico convinto di essere spiato, la madre stanca di un figlio appiccicoso. C’è Ferid, che è stato cinque anni in prigione: «Una volta ho aperto la bocca. Ero nel mio giardino, non ricordo che cosa ho detto ma loro hanno sentito». Per tutti, il rito è lo stesso: il divano, le parole in libertà, i pensieri che trovano voce, favoriti dal silenzio di Selma che prende appunti, il denaro lasciato sulla scrivania, insieme ai dolcetti dei pazienti che pagano in natura.

 

La scelta dell’attrice che interpreta Selma è addirittura geniale. Si tratta di Golshifteh Farahani, apprezzata in Iran per aver lavorato con i più grandi, da Kiarostami a Farhadi, ma anche in Occidente, dove ha recitato con Ridley Scott e Jim Jarmusch. Della Farahani si è molto parlato per la storia emblematica che l’ha vista protagonista: condannata una prima volta nel 2008, per aver recitato senza velo nel film di Scott, è stata definitivamente esiliata nel 2012, per una fotografia a seno nudo (ma coperto) in una campagna europea contro gli abusi sulle donne. Oggi vive tra Spagna e Francia. E al film Un divano a Tunisi – dove compare in jeans e camicia bianca, la sigaretta in bocca, i riccioli ribelli a incorniciare la bella faccia struccata – regala un’aura battagliera e indipendente.

 

«Guarda che non siamo in Europa, qui. Noi, un dio ce l’abbiamo. Non c’è bisogno di questo genere di stupidaggini, qui da noi». Non bastasse l’incoraggiamento della famiglia, Selma si rende conto davvero di non essere più in Europa una sera, quando la polizia la ferma per verificare se ha bevuto. Per colpa dei tagli al budget, l’etilometro è umano e l’alcol test consiste in lei che respira sulla faccia di un bel poliziotto e di lui che le annusa l’alito. Le parole sono prosaiche – «Aglio» dice lui. «Mi scusi. Posso andare?» risponde lei –, ma gli sguardi volano lontano. Da questo momento, tra i due si ingaggia una battaglia che ha come oggetto la licenza per esercitare la professione, ma che assomiglia a una schermaglia amorosa. Lo conferma la colonna sonora, utilizzata anche in funzione paradossale. “Strade vuote” canta Mina, mentre il traffico arroventa le vie caotiche di Tunisi, tra donne velate, mercatini e larghe terrazze che svettano sul mare. Sono i favolosi anni ’60 della secolarizzazione italiana, indirettamente messa a confronto con quello che accade in Tunisia, dove si invoca Allah ad ogni passo ma senza crederci davvero. Nel film, l’unica a leggere davvero il Corano sembra lei, la psicanalista senza velo alla ricerca di una qualche verità. Tutti gli altri, divisi tra rispetto della tradizione e desiderio di trasgressione, paiono avvolti in un sentimento comune: la paura, e non solo dei salafiti. Confessa lo zio: «Sai, Selma, qui non è rimasto niente. È un deserto buio, tenebroso. Siamo seduti su una polveriera. Basta una scintilla ed è finita».

 

Il percorso di Selma nei meandri di una burocrazia grottesca e corrotta – con l’impiegata che dietro la scrivania vende di tutto, dalla lingerie ai foulard turchi, alternando la richiesta di regali alle invocazioni religiose – si aggiunge al controllo soffocante della polizia che la accusa di tutto: riceve uomini, lavora per il Mossad, ha un nonno rabbino e ha detto “sesso” davanti a donne e anziani. Per fortuna c’è lui, il poliziotto bello e impossibile. Anche lui depresso: «Qui ormai è un gran casino. Forse mi manderanno a sorvegliare la frontiera o a pulire i cessi al ministero».

 

In una sequenza che conduce dritta al finale aperto, Selma sta guidando per le strade semideserte: intorno, una pianura arida, percorsa da un vento che trascina polvere. È appena stata a casa del nonno che vive circondato dalle immagini di una famiglia che non c’è più e dai ritratti di Ben Ali. Pensando a lui, al padre esiliato in Francia, Selma crolla. Un’impotenza, la sua, che si traduce nel metaforico blocco della macchina, in panne sulla strada deserta. La salvezza arriva da un burbero Freud, che passa in limousine, dice “Bonsoir” e la porta via dal deserto. Selma piange a dirotto, protesta il suo amore per la Tunisia, la sua voglia di cambiare le cose. Lui, imperturbabile, fuma il sigaro e le porge fazzoletti di carta. Proprio come fa lei con i pazienti. Alla fine, la licenza arriva, insperata. E arriva anche il diploma per la cugina che, al ritmo di “Io sono quel che sono” di Mina, si toglie il velo e mette in mostra i ciuffi bicolori. È una giornata di sole: la parrucchiera acconcia le signore, il fornaio distribuisce il pane, un tanga giallo che spunta sotto i jeans. Selma si infila un vestito e corre al mare, dopo aver mostrato il dito medio al ritratto di Freud. Come a dire che, brutta o bella che sia, la vita è più forte delle interpretazioni. Si siede su un muretto e guarda il mondo che strepita, i venditori abusivi di pesce, il poliziotto che li caccia via. All’improvviso, tutto tace: lui la guarda, lei lo affianca e sorride. Vivranno tutti felici e contenti. Forse.

 

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