“Pensare il Medio Oriente degli anni 2000 significa pensare il nostro mondo a partire dai suoi ‘altrove’”
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:29
Recensione di Hamit Bozarslan, Révolution et état de violence. Moyen-Orient 2011-2015, CNRS Editions, 2015
Rivoluzione e violenza e non dalla rivoluzione alla violenza. Per Hamit Bozarslan, gli anni che in Medio Oriente vanno dal 2011 al 2015 non sono segnati da un brusco passaggio dalla libertà al caos (secondo l’abusata immagine di una transizione dalla primavera all’inverno arabo), ma fanno parte di un unico ciclo storico, imprevedibile nel suo inizio ma non nei suoi esiti. Gli si potrebbe obiettare che è troppo facile essere profeti a cose fatte, ma la critica mancherebbe il bersaglio.
Già nel 2012, infatti, Bozarslan metteva in conto la possibilità di derive e dirottamenti delle rivolte. E non lo faceva per un moto di prudenza o di pessimismo, ma perché, da allievo del grande François Furet, conosceva bene le dinamiche rivoluzionarie e sapeva che “le rivoluzioni democratiche non sempre sono rivoluzioni felici”. Non a caso la sua lettura deve molto alla lezione della rivoluzione francese del 1848, da cui non nacque la democrazia, ma il bonapartismo. Bozarslan beneficia anche dei suoi studi sulla storia della violenza in Medio Oriente, dai quali ricava il dato di una regione già profondamente minata da decenni di autoritarismo, islamismo jihadista e guerra. Sullo sfondo di questo intreccio tra rivoluzione e violenza si stagliano poi le figure di tre grandi pensatori, numi tutelari del libro: Ibn Khaldun, Marx e Tocqueville.
Il percorso in sette capitoli si apre, dopo l’introduzione, con lo scenario del 2011. L’autore spiega come la rivoluzione dia vita a un “popolo” attraverso una triplice coalizione, che “nessuno aveva negoziato e priva di un’esistenza formalizzata”: tra la capitale e le province; tra classe operaia e classi medie; tra generazioni. In questo quadro, se “la maggior parte degli attori […] si adattò rapidamente a un nuovo ordine, temporaneo ma molto denso”, gli islamisti sembrarono superati dagli eventi, perché “incapaci di attingere al loro patrimonio rivoluzionario, abbandonato da molto tempo; non erano più capaci di proporre nient’altro che ciò che essi difendevano già: il neoliberismo e il conservatorismo” (p. 67).
Il secondo capitolo fa luce sul passaggio, in Tunisia e in Egitto, dal successo della contestazione rivoluzionaria agli affanni della transizione, al momento cioè, in cui “alla tirannia del presente del momento rivoluzionario, che è unitario, succedeva quella delle soggettività rivoluzionarie plurali, contraddittorie, indeterminate e tutte potenzialmente ‘radicalizzabili’” (p. 91). Lungo questo tragitto, il cammino della rivoluzione s’inceppa anche perché i principali attori politici, sia islamisti che laici, si disinteressano della questione sociale, che pure era stata al cuore della crisi, per impegnarsi in un estenuante kulturkampf. Intanto, a fronte della crescente fatica della popolazione e del desiderio di ritorno all’ordine, si fa strada la tentazione “bonapartista”.
L’attenzione si sposta infine sulla diffusione nel resto del mondo arabo, per “effetto domino”, dell’appello rivoluzionario, “ricevuto ogni volta in un contesto locale particolare che può presentare fortissimi contrasti con la terra-matrice della rivoluzione” (p. 109). Nella seconda parte del volume (capitoli 4-7) l’analisi si concentra sulle forme del potere e della violenza in Medio Oriente. Anche qui emerge la differenza tra la Tunisia e l’Egitto e Paesi come Libia, Yemen e Siria. Nei primi lo Stato si ricompone secondo i modelli prerivoluzionari; nei secondi esso si riorganizza “nella forma di una forza paramilitare in una scala gigantesca, anche a costo di mettere il paese nel suo complesso a ferro e fuoco” (p. 174), diventando così “il principale attore della destabilizzazione, se non della distruzione del territorio che gli è affidato dal sistema vestfaliano” (p. 175).
Proprio il sistema vestfaliano e il suo crollo sono il tema del quinto capitolo, in cui Bozarslan esamina l’attuale stato di violenza del Medio Oriente nelle sue radici storiche. Negli anni ’80 “apparentemente gli Stati ‘tenevano’ ancora; dopo aver martirizzato, poi svuotato di ogni significato politico la loro opposizione di sinistra, riuscivano a gestire le loro contestazioni islamiste canalizzandole verso l’Afghanistan o addomesticandole. […] Si trattava tuttavia di una stabilità di facciata” (p. 193), destinata a essere messa in discussione sia a livello sovra-territoriale dagli attori “transumanti” (come i jihadisti) sia a livello micro-territoriale.
Poi l’indagine si trasferisce dalle istituzioni alle società, trascinate nel baratro della disintegrazione dal collasso degli Stati. Certo il fenomeno non è generale. Dove lo Stato ha resistito, come in Egitto e in Tunisia, resistono anche le società, anche se segnate “dalle conseguenze violente dei loro kulturkampf” (p. 219). Dove invece lo Stato è travolto dalla violenza, le società sprofondano in un sanguinoso conflitto confessionale (Iraq e Siria) o si dissolvono per effetto della costituzione di entità di tipo qaidista o della frammentazione prodotta dalle milizie (Libia, Yemen, regione del Sahel).
L’ottavo e ultimo capitolo è una suggestiva riflessione sul corpo, sulla violenza e sulla crudeltà nel Medio Oriente di questi anni ’10 del XXI secolo. Il corpo è innanzitutto quello maschile ma impotente di Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante che auto-immolandosi ha dato avvio alla rivoluzione tunisina; o quello “peloso” e “militarizzato” dei jihadisti e dei miliziani, “messo in scena sotto l’influenza della ‘cultura pop’, dei ‘wargames’ e dei film d’azione americani” (p. 237). Ma può essere anche un corpo femminile, che pur “non disponendo degli attributi del coraggio del corpo maschile, s’impone per la sua visibilità e sfida, davanti a tutti, i riferimenti patriarcali, per non dire machisti” (p. 237).
La violenza è, sì, quella “antica”, e tuttavia si è “trasformata in nuove forme per il fatto stesso di essere esercitata ormai in società parzialmente distrutte, oppure contro di esse”. La crudeltà che ne deriva, e che come sola risposta produce una “crudeltà inversa”, genera un sistema disumano di dono e contro-dono in cui si perde “qualsiasi obbligazione etica, e perciò qualsiasi ethos” (p. 250). È la tragica realtà del Medio Oriente odierno e della sua caduta in quella che, con Norbert Elias, Bozarslan definisce “de-civilizzazione”. Sarebbe illusorio pensare che questo processo in fondo non ci tocchi: “pensare il Medio Oriente degli anni 2000 – chiosa infatti l’autore di questo grande e inquietante affresco – significa pensare il nostro mondo a partire dai suoi ‘altrove’, che in realtà non abbiamo alcuna ragione di relegare a semplici ‘altrove’”.