Il travaglio dell'Islam /3. A dispetto delle analisi che lo vogliono chiuso e monolitico, l'universo musulmano esprime invece una grande varietà di posizioni. Il confronto tra tradizionalismo e innovazione è aperto e serrato e ricchissimo di sfumature. Tante sono le voci di politici, intellettuali, scrittori che con rigore critico e autocritico animano un intensissimo dibattito. E non si tratta di voci che devono per forza "piacere" all'Occidente, ma che l'Occidente dovrebbe finalmente imparare ad ascoltare.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:51
Negli ultimi anni è decisamente cresciuta, non solo nell'opinione pubblica ma anche tra esperti ed opinionisti, la percezione dell'Islam come un'oscura minaccia. Il fenomeno del terrorismo internazionale lo giustifica ampiamente e non si può certo negare che i paesi arabi e musulmani attraversino una fase di profondo travaglio che spesso si esprime anche in forme estreme di antagonismo violento. Il rischio è tuttavia che questa rappresentazione mediatica dei musulmani, che parte da alcuni dati oggettivi ma non esclusivi, si sovrapponga progressivamente ad una realtà la quale benché problematica è senz'altro più varia ed articolata, fino ad occultarla del tutto. In questo contributo ci proponiamo di dar conto di voci e posizioni meno note, ma a nostro avviso molto interessanti, espresse da alcuni autori musulmani. Il dibattito interno al mondo islamico non è infatti di scarso rilievo, anche se risulta soffocato da un pensiero dominante fortemente ideologizzato. Un simile approccio ci pare preferibile alle fin troppo diffuse analisi di taglio "essenzialista" che tendono a definire la pretesa natura monolitica e inalterabile di una tradizione religiosa, basandosi sull'interpretazione letterale e decontestualizzata delle fonti. La predominanza di espressioni di taglio apologetico, prevalenti in ogni situazione fortemente polarizzata come la presente, emargina fatalmente quanti sono più disposti a mettersi in discussione. Essi rappresentano senza dubbio la componente più aperta e matura di ogni tradizione culturale, ma di frequente le loro idee vengono considerate manifestazioni di debolezza, se non di connivenza con i presunti avversari, spesso con gravi conseguenze sulla loro stessa incolumità. Molti ritengono infatti questi pensatori traditori della causa comune. Si tratta certamente di una élite, ma un'adeguata valorizzazione di quanto propongono potrebbe sostenere e diffondere le loro posizioni con relativa facilità. Non va infatti dimenticato che la stragrande maggioranza della popolazione dei paesi arabo-musulmani è costituita da giovani, ormai poco influenzati sia dalla retorica nazionalistica che ha accompagnato la stagione della conquista dell'indipendenza alla fine dell'epoca coloniale, sia dalla propaganda rivoluzionaria del periodo successivo. Il successo del radicalismo religioso si spiega anche con la mancanza di alternative e l'assenza (o comunque la scarsa visibilità) di modelli positivi universalmente riconosciuti rispetto a quanti seguono altre opzioni. In un pregevole volume uscito ormai parecchi anni or sono, l'ex Ministro tunisino Habib Boularès proponeva questa semplice ma pregnante riflessione: "In effetti, oggi l'Islam fa paura. è innegabile. [...] Ma si tratta di qualcosa di fatale, di un destino ineluttabile? [...] Il problema che sta di fronte al musulmano non è facile. Alle note difficoltà legate allo sviluppo si aggiunge il peso della tradizione e la pervasività della religione. Per superare o evitare l'ostacolo, molte formule sono state proposte e tentate. Alcune ammettono come postulato che l'Islam sia un universo chiuso. Altre implicano l'inevitabilità dello sradicamento culturale. Lo sforzo maggiore è quello di coloro che rifiutano tali posizioni estreme tentando, da oltre un secolo, di realizzare una modernizzazione che non comporti né uno sradicamento, né l'isolamento dai propri simili. Se l'Islam può darsi oggi un senso, di che altro si tratterà se non quello di realizzare una più ampia comunicazione tra gli uomini? Ogni autentico musulmano crede infatti che la sua religione si rivolge all'intero genere umano e che vale per ogni tempo e per ogni luogo. La sfida che gli lancia il mondo moderno è semplicemente quella di provarlo"[1]. In altri autori, tale atteggiamento autocritico è giunto a riconsiderare la storia recente e i miti diffusi in ambito islamico, evidenziandone le contraddizioni: "Se possiamo conciliare Islam e rivoluzione, perché non anche Islam e diritti umani, democrazia e libertà?"[2]. "Rivoluzione islamica (o indù, o buddista...): quale dei due termini è il più attivo, il più determinante? Rivoluzione o Islam? è la religione che cambia la rivoluzione, la santifica, la risacralizza? O è al contrario la rivoluzione che storicizza la religione, che fa di essa una religione impegnata, in breve, un'ideologia politica? [...] Così facendo, la religione cade nella trappola dell'astuzia della ragione: volendo ergersi contro l'Occidente, si occidentalizza; volendo spiritualizzare il mondo, si secolarizza; e volendo negare la storia, vi si inabissa completamente"[3]. Lo stesso autore giunge ad una conclusione decisiva sul carattere ideologico del pensiero islamista: "Ciò che chiamiamo identità culturale non è che un'illusione o, se volete, una falsa immagine di noi stessi. È per questo che la maggior parte dei pensatori del mondo islamico non sono né dei saggi, né degli intellettuali nel vero senso di questi termini, ma degli ideologi. Vale a dire che si dedicano all'azione e a soluzioni sbrigative, più che ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della realtà. Ciò che muove il loro rifiuto, disgraziatamente, è il risentimento"[4]. Tuttavia non si può negare che alcune domande di fondo abbiano una qualche legittimità: "è "possibile", in base al Corano, fare dell'Islam una religione del foro interno e lasciare le questioni terrene alla politica? Di fronte a una simile domanda si è tentati, in un primo momento, di rispondere negativamente. L'Islam è una religione di questo mondo non meno che dell'altro. Esso determina un quadro costituzionale nel quale non v'è alcuna separazione tra politica e religione. Unifica le istituzioni. La legge è la concretizzazione della fede, lo Stato si occupa della preghiera e protegge la religione così come regola gli affari della società civile. Ma, si tratta davvero di un dogma, o potrebbe essere piuttosto un habitus mentale? Se si osserva la storia più da vicino si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a un'interpretazione dominante più che alla vera natura delle cose"[5]. Il vero problema troverebbe le sue cause piuttosto in una situazione culturale che ben viene delineata da un celebre filosofo marocchino contemporaneo, secondo il quale ci troveremmo di fronte a una vera e propria ricostruzione mitica del passato, tesa teoricamente a controbilanciare le delusioni del presente, ma in realtà complice dell'attuale stagnazione: "La bandiera dell'"autenticità" (aslah), dell'attaccamento alle radici e della difesa dell'identità, tutte nozioni interpretate come l'essenza stessa dell'Islam: "l'Islam vero", non l'Islam quale era vissuto a quei tempi dai musulmani. Si trattava quindi di una lettura ideologica polemica, giustificata per un periodo nel quale essa si risolveva effettivamente in un mezzo per affermare la propria identità e per far rinascere la fiducia. Tale lettura rappresenta un'espressione del normale meccanismo di difesa, e conserverebbe quindi una sua legittimità qualora venisse inserita nel quadro di un progetto globale di ritorno a quell'epoca. Ma è stato proprio il contrario ad accedere. Il mezzo è divenuto fine: è il passato, frettolosamente ricostruito per servire da trampolino allo "sviluppo", che è divenuto la finalità stessa del progetto di rinascita. A partire da quel momento, il futuro sarebbe stato sottoposto ad una lettura che avrebbe avuto come strumento di interpretazione il passato, non il passato che realmente fu, ma il passato quale avrebbe dovuto essere. Tuttavia, dal momento che quel passato non è mai esistito se non nella sfera degli affetti e dell'immaginazione, la concezione del futuro-a-venire rimase sempre incapace di distaccarsi dalla rappresentazione del futuro-passato"[6]. Un vicolo cieco che alimenta una sorta di circolo vizioso: "Il concetto di "risorgenza islamica" così come è utilizzato nel momento storico presente, dà luogo a ogni sorta di confusione, di cui la meno importante non è che rende quasi impossibile la distinzione tra coloro che, nella nebulosa islamista, spingono verso il progresso e coloro che vogliono conservare le cose allo stato in cui sono, o tornare indietro. Nella febbre del dibattito, si vedono i gruppi più reazionari, che si affrettano a correre dietro il treno in marcia, rappresentarsi come attori del "risveglio" e della "rinascita", mentre essi portano avanti un'ideologia di sonno e di morte"[7]. Le conseguenze di tale situazione sulla mancata evoluzione della società civile, che favorisce inevitabilmente la perpetuazione di regimi autocratici, sono chiaramente evidenziate dallo stesso autore: "I fautori di un potere fondato sulla religione rimproverano al sistema democratico di basarsi sulle tendenze, le opinioni e le preferenze degli uomini, che sono per natura versatili e fallibili, alle quali essi oppongono la perfezione divina della legge religiosa. Bisogna ribattere loro che è precisamente in questo che risiede la grandezza della democrazia, poiché essa sola permette all'uomo di trarre lezione dai suoi errori, di prendere coscienza delle sue debolezze e, proprio da ciò, di misurare la sua capacità a superarle. Il potere religioso, benché non sia che un potere umano esposto come tale, a tutti gli errori umani, non riconosce all'uomo questo diritto di imparare dalle sue esperienze: gli impone una tutela a priori e gli impedisce di svilupparsi e di giungere a maturità. L'obbedienza è l'essenza della fede, è anche la prima virtù del soldato, ma è certamente la peggiore delle relazioni che possa instaurarsi tra governanti e governati. Come il capo militare deve essere obbedito e rispettato dai suoi uomini, così il governante deve ispirare ai governati il gusto del dibattito nel contraddittorio e della critica. Tutte le catastrofi del mondo musulmano, e del mondo arabo in particolare, sono frutto di governi militari prodotti da pseudo-rivoluzioni, che stabiliscono con i governati una relazione politica del tipo di quella che gli ufficiali intrattengono con i loro soldati. C'è ogni motivo di temere che il governo religioso non faccia altro che sostituire l'autorità dei chierici alla forza delle armi, e non sia in fin dei conti che un'altra metamorfosi dello stesso archetipo autoritario. Molti cittadini dei paesi arabo-musulmani, sottomessi da lunga data a un regime autoritario, hanno preso l'abitudine, e, se ce n'è, il gusto, a obbedire e hanno perso le loro facoltà critiche: niente di meglio che il potere degli stivali per preparare al potere dei turbanti"[8]. In un simile contesto, esprimersi fuori dal coro può risultare estremamente rischioso, il che produce spesso un conformismo dalle conseguenze devastanti sul libero sviluppo del pensiero: "La situazione culturale, politica ed economica attuale del mondo arabo fa sì che sia impossibile, soprattutto se si è arabi e dal mondo arabo, parlare della religione come di un fenomeno sociale totalmente spiegabile. [...] Il risultato è che ogni discorso sulla società, sulla religione, sul diritto suppone preventivamente una sorta di autocensura da parte di chi parla o scrive. è dunque un dibattito quasi impossibile, poiché gli mancano due condizioni indispensabili all'obiettività: l'accordo sugli strumenti d'analisi e l'autonomia di giudizio. In generale, l'analisi del fenomeno religioso coinvolge colui che la conduce in prima persona e ciò non è dovuto esclusivamente a una debolezza intrinseca alla sua personalità o alla sua formazione, ma all'ambiente in cui opera. Infatti ciò che egli scriverà, a dispetto della neutralità che si sforzerà di mantenere, sarà percepito come una scelta di campo religioso, ideologico, etnico o politico. Per quanto egli tenterà di dissociarsi, la società continuerà a valutarlo secondo i propri criteri e gli negherà ogni neutralità. [...] Egli lo sa e sa che, impegnandosi nella ricerca, è condannato a perdere la propria innocenza, in quanto sa che alla fine potrà essere condannato. È quindi del tutto naturale che non essendo ogni intellettuale necessariamente un eroe in tali condizioni non tutto venga detto e che il discorso dell'intellettuale a proposito della religione, del diritto, della politica sia diplomatico, fatto di silenzi, prudenza e furbizie, sia in definitiva un discorso corrotto" [9]. Come giustificare dunque un pensiero critico, senza incorrere nel pericolo di vedersi tacciare di disfattismo o di alto tradimento? Un contributo fondamentale è offerto in tal senso dal filosofo iraniano Abdolkarim Soroush: "La religione è sacra e divina, ma la comprensione che si ha di essa è umana e terrena. La conoscenza e la comprensione che di essa hanno gli uomini sono incomplete ed hanno costantemente bisogno di essere emendate"[10]. Ben lungi dal rappresentare una questione puramente teorica, questo approccio investe questioni molto concrete, come quelle relative all'applicazione della shari'a, non a caso avanzate dal discepolo di Mahmud Muhammad Taha, martire sudanese del riformismo musulmano: "Senza introdurre un nuovo principio interpretativo che consenta ai musulmani moderni di modificare o cambiare del tutto alcuni aspetti del diritto pubblico previsto dalla shari'a, solo due altre scelte rimangono: o continuare a disattendere la shari'a nell'ambito pubblico, così come si fa nella maggior parte dei moderni stati islamici, o procedere ad imporne i principi, senza badare ai contrasti con il diritto costituzionale, le leggi internazionali e i diritti dell'uomo. La prima opzione la trovo contestabile in linea di principio e ritengo che sia improbabile che si possa praticarla ancora per molto. In linea di principio, infatti, essa contrasta con l'obbligo dei musulmani di seguire in ogni aspetto della propria vita sociale e individuale i precetti dell'Islam. Inoltre, tenendo conto del progressivo revival dell'Islam, tale tendenza sarà difficilmente applicabile nella pratica per molto ancora. Anche la seconda opzione è comunque ripugnante e politicamente insostenibile. È ripugnante, a mio parere, sottoporre donne e non musulmani agli affronti e alle umiliazioni che comporta l'applicazione della shari'a al giorno d'oggi. Ritengo infatti che le disposizioni di diritto pubblico insite in essa fossero del tutto giustificate e coerenti con il contesto storico in cui sono apparse, il che però non basta a renderle giustificabili e coerenti in quello odierno. Inoltre, date le caratteristiche concrete dei moderni stati nazionali e dell'ordine internazionale, tali aspetti del diritto pubblico sciaraitico sono politicamente improponibili"[11]. Alcune riflessioni maturate tra musulmani europei possono rappresentare un possibile interessante sviluppo del pensiero islamico critico che troverebbero in Occidente condizioni migliori che nei paesi d'origine per esprimersi e diffondersi. A nostro avviso ne è un valido esempio il pensiero di Tariq Ramadan, personaggio controverso ma comunque con un vasto seguito, specialmente tra le nuove generazioni di musulmani immigrati. La sua analisi non si discosta molto da quella degli autori fin qui citati, benché sia riproposta in prospettiva di una totale fedeltà ai principi tradizionali dell'Islam. Proprio per questo risulta ancor più efficace, almeno al fine di coinvolgere nel dibattito quanti ne sono generalmente lontani: "La formazione islamica non si preoccupa di tenere conto del contesto europeo nel quale vivono musulmani e musulmane. Si imparano a memoria e spesso molto teoricamente brani del Corano e insegnamenti del Profeta senza un reale legame con l'ambiente. Tutto avviene come se l'identità definita aperta fosse vissuta, de facto, in modo chiuso, isolato, quasi etereo. La formazione islamica dovrebbe, perciò, integrare la dimensione dell'intelligenza del contesto e dell'educazione in funzione dell'ambiente, dell'azione e della partecipazione in Europa, dall'atto di solidarietà alla consapevolezza della responsabilità civile"[12]. Una filosofia dunque tutt'altro che favorevole all'atteggiamento di molti immigrati islamici che pretendono di costituire una sorta di società parallela, destinata a percepirsi e ad essere percepita come un corpo estraneo nelle società ospitanti: "Essere musulmano in Europa significa interagire con tutta la società a diversi livelli, dall'impegno locale a quello nazionale e anche continentale. Le prime comunità islamiche, a causa della novità della situazione in cui si trovavano, sono state portate in modo assolutamente naturale a chiudersi in se stesse durante i primi due o tre decenni e a sforzarsi di risolvere i loro problemi in modo indipendente, e dall'interno. Esse percepivano l'ambiente europeo come estraneo, alienante e spesso aggressivo ed era meglio non avere nulla a che fare con esso, né lasciarsi coinvolgere troppo. Per quanto questo processo possa essere considerato come una tappa del tutto naturale in un dato momento della storia dello stanziamento dei musulmani nei nuovi paesi, oggi non è più così. Non si può immaginare un qualche futuro per i musulmani in Europa se essi si rifiutano di avere rapporti con l'ambiente circostante e se non sviluppano una dialettica grazie alla quale potranno essere, dare e ricevere"[13]. Posizione anche contraria alla rappresentazione delle comunità musulmane in Occidente quali casse di risonanza dei problemi che travagliano il loro mondo d'origine: "Forti della loro indipendenza politica e finanziaria, i musulmani europei devono far sentire una voce nuova, libera e onesta, che si imponga la probità intellettuale e l'analisi rigorosa, che spieghi e commenti se necessario e che sviluppi un vero discorso critico sullo stato dell'Islam nel mondo, sulle sue acquisizioni e i suoi tradimenti. Una voce nuova che, evidentemente, fa paura qui e altrove; ma le premesse affinché venga udita sono ogni giorno più numerose e questa è una delle sfide più grandi della presenza musulmana in Europa che deve acquistare sostanza, coerenza e peso"[14]. Per finire riproponiamo un'acuta pagina dell'ex presidente iraniano che non esita a dichiarare definitivamente concluse fasi della storia che altri vorrebbero semplicemente rivivere senza alcuna considerazione per l'evoluzione che gli uomini e le società hanno conosciuto negli ultimi secoli: "Dopo il Profeta Mohammed, nei secoli III e IV dell'Egira, avvalendosi di una specifica interpretazione dell'insegnamento islamico, e di particolari concezioni che l'Islam aveva accolto in sé traendole da altri e diversi sistemi di pensiero, quali le civiltà greca e iranica, l'uomo musulmano ha creato una civiltà, ripeto, ha creato una civiltà secondo un'interpretazione particolare del Corano e della Tradizione, e grazie ad acquisizioni derivanti dalle conoscenze scientifiche. Si tratta di quella fase che definiamo civiltà islamica. E vero, essa è stata fondata sul Corano, ma secondo deduzioni e metodi interpretativi che l'uomo di quei giorni elaborava riguardo al Corano, al Libro, alla religione, all'essere umano e al mondo. Questa civiltà dei tempi d'oro è finita. Se essa fosse stata l'incarnazione piena della dottrina del Corano e dell'Islam, una simile affermazione ci indurrebbe a concludere che anche il Corano e l'Islam siano finiti: invece non è così, e noi musulmani crediamo che oggi si debba far ricorso in un modo nuovo alle risorse religiose nel mettere a fuoco i problemi a noi contemporanei, allo scopo di costruire la nostra vita rispondendo, secondo i fondamenti della religione, ai nostri bisogni di oggi"[15]. Anche solo da questa rapida carrellata emerge l'intenso travaglio interiore che agita il mondo musulmano; esso merita attenzione e rispetto, lungi dai giudizi affrettati che ancora troppo spesso vengono espressi su un universo culturale più ricco e diversificato di quanto comunemente si creda. Il vero antidoto al paventato "scontro delle civiltà" sta proprio nella capacità di ascolto che l'Occidente opulento e distratto saprà dare a queste voci, alla valorizzazione che ne verrà fatta e al posto che si vorrà dare ai protagonisti di un profondo lavoro di analisi e di ricerca che, pur tra innegabili difficoltà, anima e feconda il pensiero islamico contemporaneo.
Note [1] H. Boularès, L'Islam. La peure et l'espérance, Parigi 1983, 8-12. [2] M. Sadri e A. Sadri (ed.), Reason, Freedom,and Democracy in Islam. Essential Writings of Abdolkarim Soroush,Oxford University Press 2000, 22. [3] D. Shayegan cit. in K. Fouad Allam, L'Islam globale, Milano 2002, 79. [4] D. Shayegan, Les Illusions de l'Identité, Parigi 1992,306-308. [5] Y. Ben Achour, Politique, Religion et Droits dans le Monde Arabe, Tunisi 1992, 15. [6] Ibidem, 34-35. [7] F. Zakariyya, cit. in Aa. Vv., I Fratelli Musulmani e il dibattito sull'Islam politico, Torino 1996, 140. [8] Ibidem, 145. [9] Y. Ben Achour, op. cit., Tunisi 1992, 28-29. [10] M. Sadri e A. Sadri (ed.), op. cit. , 31. [11] A. A. An-Na'im, Toward an Islamic Reformation, Il Cairo 1992, 58-59. [12] T. Ramadan, Essere musulmano europeo,Troina 2002, 273. [13] Ibidem, 294-295. [14] Ibidem, 302. [15] M. Khatami, Religione, libertà e democrazia , Bari 1999, 98-99.