Affari e sharî‘a. L’accoppiata sta dando frutti interessanti: la finanza islamica cresce a un tasso superiore al 15% annuo ed è presente in oltre 45 Paesi. Se adeguatamente praticata, potrebbe competere anche a livello internazionale. Ma per poter incidere ha bisogno di strutture e regole più solide.
Ultimo aggiornamento: 19/12/2024 09:40:32
L’Islam è religione e Stato, una concezione emersa sin dai tempi del Profeta Muhammad, il quale non fu solo un emissario di Dio inviato agli uomini per diffondere la rivelazione coranica, ma ha anche governato una comunità in tutti i suoi aspetti, politici, economici e sociali. I successori di Muhammad seguirono le sue orme e governarono in nome dell’Islam riferendosi ai versetti coranici e alle parole pronunciate dal Profeta. Per esempio, in ambito economico e commerciale, il versetto coranico «Questo perché essi hanno detto: “La compravendita è come l’usura”. Ma Dio ha permesso la compravendita e ha proibito l’usura» (2,275) diventò un riferimento sia per i governanti musulmani che per gli uomini comuni, perché indicava che l’Islam non proibisce il commercio ma l’usura. I musulmani sono dunque liberi di stipulare accordi commerciali e istituire enti commerciali e industrie che mirino ad attivare, promuovere e stimolare l’economia dello Stato. Tuttavia, anche se i versetti coranici e i detti del Profeta Muhammad consentono la compravendita, essi non contengono indicazioni esplicite sulle modalità specifiche con cui praticare i commerci, con la sola eccezione del divieto di praticare l’usura, il commercio di bevande alcoliche e di carne e il gioco di azzardo. L’esiguità di tale base testuale lascia dunque irrisolte alcune importanti questioni: quale approccio economico occorre privilegiare nelle pratiche commerciali? Esiste una prospettiva in grado di esprimere la specificità dei principi islamici? E se sì, come applicarla?
Dall’epoca del profeta Muhammad fino al XX secolo le società islamiche non hanno adottato alcuna struttura economica specificamente islamica, limitandosi a produrre teorie e opinioni incentrate sull’importanza del divieto di praticare l’usura, peraltro ammessa, in percentuale limitata, da alcuni ‘ulamâ’. Per esempio, nel 1840 lo Stato Ottomano emise per la prima volta una sorta di titoli di Stato che servivano da cartamoneta e davano un rendimento dell’8%[1]. Anche in Egitto, lo shaykh riformatore Muhammad ‘Abduh, nel periodo in cui fu Gran Muftì d’Egitto (1899-1905), legittimò gli interessi derivanti dal deposito dei risparmi in banca a condizione che essi provenissero dai profitti generati da investimenti. In assenza di una visione economica o finanziaria specifica per l’Islam, i Paesi e i popoli musulmani erano fortemente influenzati dai principi dell’economia capitalista dei Paesi europei. Il primo esperimento serio e completo di applicazione del capitalismo in un Paese musulmano fu compiuto in Egitto nel XIX secolo da Muhammad ‘Ali Pasha. Quest’ultimo, colpito dall’industrializzazione e dalla civiltà europea, diede un forte impulso alla creazione di industrie, soprattutto nel settore del cotone, incidendo profondamente sull’economia e sullo Stato e raggiungendo risultati molto positivi, contribuendo in maniera determinante alla prosperità dell’Egitto.
L’impatto con il capitalismo
In seguito alla dissoluzione dell’Impero ottomano (1918) il Medio Oriente fu diviso in molti Stati e i Paesi arabi si trovarono, nella forma del Protettorato o del Mandato, sotto la tutela di Stati stranieri. Sul piano economico gli Stati colonizzati vennero così a essere inseriti all’interno del sistema capitalistico. Essi da un lato beneficiarono dell’esperienza e delle competenze dello Stato colonizzatore, dall’altro furono oggetto di alcuni trattamenti scorretti, come il pagamento di imposte elevate, l’acquisto dei raccolti a prezzi bassi e altre pratiche politiche intollerabili che avrebbero contribuito in seguito a innescare le lotte per l’indipendenza e la liberazione dei Paesi colonizzati. La maggior parte dei Paesi arabi e musulmani conquistò l’indipendenza tra il 1930 e il 1960, un periodo di profondi mutamenti politici ed economici: seconda guerra mondiale, accordi di Bretton Woods, ascesa dell’economia socialista. Dopo un dominio ottomano durato quasi 400 anni, i Paesi arabi si trovavano per la prima volta ad auto-governarsi. Tra le questioni importanti da decidere vi era anche quella economica. Avrebbero optato per un sistema capitalista, uno socialista o una terza via? Dai tempi di Muhammad ‘Abduh le società arabe erano attraversate da due tendenze opposte: una considerava la civiltà europea un modello, senza preoccuparsi della sua compatibilità con i principi islamici; un’altra esaltava le virtù dell’Islam come sistema di vita completo ed esclusivo. Fu all’interno di quest’ultimo movimento che si iniziò a cercare un’alternativa ai sistemi economici esistenti, puntando sulla specificità della visione islamica. Così, tra il 1955 e il 1975, alcuni economisti musulmani, tra cui Muhammad Nejatullah Siddiqi, Monzer Kahf e Tariqullah Khan[2] elaborarono un pensiero economico fondato sulle norme della sharî‘a e sul divieto di usura che trovò applicazione nella creazione, rispettivamente nel 1974 e nel 1975, delle prime due banche islamiche: la Dubai Islamic Bank negli Emirati Arabi Uniti e la Islamic Development Bank a Gedda. All’ascesa della finanza islamica contribuì anche la crisi petrolifera degli anni ’70 e il surplus di liquidità che ne derivò per i Paesi arabi. Fu proprio la Islamic Development Bank ad assorbire parte di quella massa di denaro e ad assicurare un maggiore controllo dell’economia e dei Paesi musulmani, investendo denaro in questi ultimi sulla base dei principi finanziari islamici del profit-loss sharing (condivisione del rischio e del profitto). Nel periodo tra il 1970-1985 la Islamic Development Bank e i potenti leader della finanza islamica lavorarono alla fondazione di un gran numero di istituti islamici, tra cui l’importante Dâr al-Mâl al-Islâmî. Rimanevano tuttavia molte ambiguità in merito alla possibilità di compravendita di obbligazioni, ai rapporti con le banche tradizionali e all’accesso al credito internazionale.
La distanza tra teoria e pratica
Fu proprio per rispondere a questi problemi che la International Association of Islamic Banks pubblicò, ad uso di banche e istituti islamici, il manuale della banca islamica (The Handbook of Islamic Banking). In ragione del breve lasso di tempo in cui sono stati compiuti, tali sforzi vanno presi sul serio e meritano una certa ammirazione. Meno positiva rimaneva però l’applicazione pratica. Le statistiche dimostrano che il principio del profit-loss sharing, che sta alla base della teoria finanziaria islamica, era lontano dall’essere effettivamente applicato, mentre continuavano a essere normalmente praticate operazioni di compravendita, leasing e mark-up [la differenza tra il costo di un bene o di un servizio e il suo prezzo, N.d.R.], oltre a rischiose attività di speculazione sull’oro, sulla valuta straniera e sulle merci. La crescita esponenziale di tali attività fu alla base del fallimento, avvenuto nel 1988, della maggior parte delle Società islamiche di investimenti, tra cui la famosa finanziaria egiziana al-Rayyan, che provocò un crollo del 15% del PIL egiziano. A tale collasso si aggiunse la diminuzione del prezzo del petrolio, che iniziò a calare nel 1981 per precipitare nel 1986. Negli anni ’80, il contesto economico e politico era molto diverso da quello in cui avevano preso forma e si erano sviluppate le prime istituzioni finanziarie islamiche. Esse furono così costrette ad avviare un profondo ripensamento. Già nel 1985, l’Accademia Islamica del Fiqh si vedeva costretta ad appellarsi a tutti i Paesi islamici per facilitare la creazione di banche islamiche, vietando ai musulmani di ricorrere alle banche tradizionali se potevano rivolgersi a una banca islamica[3]. Tuttavia, tale appello non trovò risposte effettive. La realtà richiedeva infatti l’elaborazione di un nuovo metodo islamico di finanza e l’abbandono di un modello uniforme da adottare in tutti i Paesi islamici sotto la guida dell’Associazione Internazionale per le Banche Islamiche e della Islamic Development Bank. Il nuovo orientamento permise l’emergere di diversi poli economico-finanziari, come il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, l’Arabia Saudita, il Pakistan, l’Iran e soprattutto la Malesia. Nel corso degli anni, quest’ultima ha saputo diventare una protagonista dell’economica globale facendo leva su due fattori: da un lato, invece di puntare come altri Paesi sull’islamizzazione integrale del suo sistema economico ha promosso lo sviluppo di un sistema parallelo a quello convenzionale, mentre quest’ultimo veniva abilitato a fornire anche prodotti islamici; dall’altro ha interpretato l’Islam come motore di una forte crescita economica fondata su strumenti, anche finanziari, altamente tecnologici e innovativi[4]. I risultati sono stati sorprendenti, perché Kuala Lumpur è riuscita a diventare allo stesso tempo un centro, probabilmente il più importante, della finanza islamica, e un centro regionale delle finanza convenzionale in grado di competere con Hong Kong e Singapore[5]. Secondo quanto riportato dall’Economist, più di un quinto del suo sistema bancario è conforme alla sharî‘a, contro una media del 12% (e forse anche meno), degli altri Paesi musulmani. Nel 2012 inoltre, la Malesia si è attestata come leader incontrastato del mercato mondiale dei sukûk, le obbligazioni islamiche, con una quota superiore al 70%, contro l’8% dell’Arabia Saudita, il 5% degli Emirati Arabi e il 3,6% del Qatar[6].
Verso un nuovo dinamismo
La diversificazione del mercato finanziario islamico e l’emergere al suo interno di nuovi attori si è rivelato un fenomeno sano, perché, garantendo la concorrenza e spezzando i monopoli, ha impresso al sistema dinamismo, capacità di innovazione e di adattamento alle esigenze del mercato finanziario internazionale. In questo senso gli strumenti e i prodotti elaborati da istituti e banche islamici non rappresentano una vera e propria alternativa al sistema finanziario globale, quanto una sua declinazione islamica. D’altra parte già nel 1966, quando ancora molti Paesi musulmani sembravano aver scommesso sul socialismo, sulla base di una certa affinità tra tale sistema e i principi dell’Islam, Maxime Rodinson scriveva che «l’opposizione basilare dell’Islam al capitalismo è un mito»[7].
I risultati non sono stati sempre soddisfacenti: mentre compravendite e investimenti sono effettivamente regolati dalla Murâbaha [investimento a breve], dall’Ijâra [leasing convenzionale] e dalla Kafâla [fideiussione], il ricorso ai due più importanti strumenti di profit-loss sharing, la Mushâraka [partecipazione ai profitti e alle perdite] e la Mudâraba [partecipazione ai profitti], è ancora incerto. Nel complesso però il nuovo corso della finanza islamica sta dando i suoi frutti: secondo alcune stime, infatti, nel periodo 2003-2008 «più di 250 istituti finanziari in oltre 45 Paesi praticano qualche forma di finanza islamica e il settore è andato crescendo a un tasso superiore al 15% annuo», con un fatturato annuo, per il 2008, «pari a 350 miliardi di dollari rispetto ai soli 5 miliardi nel 1985»[8]. Inoltre, sia nei Paesi arabi che in Europa si sono realizzate molte ricerche e si sono pubblicati molti libri e articoli sulla finanza islamica. E questo interesse non riguarda solo i Paesi musulmani perché anche le banche europee e americane offrono prodotti islamici[9] in considerazione del fatto che una percentuale non trascurabile del mercato richiede questo tipo di intermediazione finanziaria.