Discorso di Giovanni Paolo II all'Assemblea generale delle Nazioni Unite
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:47
Desidero esprimere la mia gratitudine all'illustre Assemblea Generale delle Nazioni Unite, alla quale mi è consentito oggi partecipare e rivolgere la parola. La mia riconoscenza va, in primo luogo, al signor Segretario Generale dell'ONU, il dottor Kurt Waldheim, il quale già nell'autunno scorso poco dopo la mia elezione alla Cattedra di san Pietro mi rivolse l'invito per questa mia visita e, in seguito, lo rinnovò nello scorso maggio durante il nostro incontro a Roma. Sin dall'inizio ne fui molto onorato e profondamente obbligato. E oggi, dinanzi ad una così eletta assemblea, desidero ringraziare lei, signor presidente, che così gentilmente mi ha accolto e dato la parola. Il motivo formale del mio intervento odierno è, indubbiamente, il particolare legame di cooperazione che unisce la Sede Apostolica all'Organizzazione delle Nazioni Unite, come attesta la presenza stessa della missione permanente di un osservatore della Santa Sede presso questa Organizzazione. Tale legame, che la Santa Sede tiene in grande considerazione, trova la ragione d'essere nella sovranità di cui la Sede Apostolica è, da lungo volgere di secoli, rivestita, sovranità che, per l'ambito territoriale, è circoscritta al piccolo stato della Città del Vaticano, ma che è motivata dalla esigenza che ha il papato di esercitare con piena libertà la sua missione e, per ogni suo possibile interlocutore, governo o organismo internazionale, di trattare con esso indipendentemente da altre sovranità. Naturalmente la natura e i fini della missione spirituale, propria della Sede Apostolica e della Chiesa, fanno sì che la loro partecipazione ai compiti e alle attività dell'ONU si differenzi profondamente da quella degli stati in quanto comunità in senso politico-temporale. La Sede Apostolica non soltanto tiene in grande conto la propria collaborazione con l'ONU, ma fin dalla nascita dell'Organizzazione ha sempre espresso la propria stima e il proprio consenso per lo storico significato di questo supremo foro della vita internazionale dell'umanità contemporanea. Essa non cessa anche di appoggiare le sue funzioni ed iniziative, che hanno quale scopo la pacifica convivenza e la collaborazione fra le nazioni. Ne abbiamo molte prove. Negli oltre trent'anni di esistenza dell'ONU, messaggi ed Encicliche pontificie, documenti dell'Episcopato cattolico, ed anche il Concilio Vaticano II le hanno prestato grande attenzione. I pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI guardavano con fiducia a questa importante istituzione, come a un eloquente e promettente segno dei nostri tempi. E anche colui che ora vi parla, fin dai primi mesi del proprio pontificato, ha espresso più volte la stessa fiducia e convinzione che nutrivano i suoi predecessori. Questa fiducia e convinzione della Sede Apostolica, come dicevo, non risultano da ragioni puramente politiche, ma dalla stessa natura religioso-morale della missione della Chiesa Cattolica Romana. Questa, quale comunità universale che raccoglie in sé fedeli appartenenti a quasi tutti i paesi e continenti, nazioni, popoli, razze, lingue e culture, è interessata all'esistenza ed all'attività dell'Organizzazione, la quale come deduciamo dal suo nome unisce e associa nazioni e stati. Unisce e associa, e non già divide e contrappone: essa cerca le vie dell'intesa e della pacifica collaborazione tendendo, con i mezzi disponibili e i metodi possibili, a escludere la guerra, la divisione, la reciproca distruzione in quella grande famiglia che è l'umanità contemporanea. Questo è il motivo vero, il motivo sostanziale della mia presenza tra voi, e desidero esprimere gratitudine a così illustre assemblea perché ha preso in considerazione tale motivo che può rendere, in qualche modo, utile la mia presenza. Ha certamente un rilevante significato che, tra i rappresentanti degli stati, la cui ragion d'essere è la sovranità dei poteri legati al territorio e alla popolazione, si trovi oggi anche il rappresentante della Sede Apostolica e della Chiesa cattolica. Questa Chiesa è quella di Gesù Cristo che, davanti al tribunale del giudice romano Pilato, dichiarò di essere re, ma di un regno che non è di questo mondo [cfr. Gv 18,36-37]. Interrogato poi sulla ragion d'essere del suo regno tra gli uomini, Egli spiegò: «per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità» [Gv 18,37]. Trovandomi quindi dinanzi ai rappresentanti degli stati desidero non soltanto ringraziare, ma congratularmi in modo particolare, perché l'invito a dare la voce al Papa nella vostra assemblea comprova che l'Organizzazione delle Nazioni Unite accetta e rispetta la dimensione religioso-morale di quei problemi umani, dei quali la Chiesa, per il messaggio di verità e di amore che deve portare al mondo, si occupa. Certamente, per le questioni che sono oggetto delle vostre funzioni e delle vostre sollecitudini attestate dal vastissimo e organico complesso di istituzioni e di attività che fanno capo all'ONU o con essa collaborano, particolarmente nei settori della cultura, della sanità, dell'alimentazione, del lavoro, nell'uso pacifico dell'energia nucleare è essenziale che ci incontriamo in nome dell'uomo inteso nella sua integrità, in tutta la pienezza e multiforme ricchezza della sua esistenza, spirituale e materiale, come ho espresso nell'Enciclica Redemptor Hominis, la prima del mio pontificato. In questo momento, profittando della solenne occasione di un incontro con i rappresentanti delle nazioni del globo, vorrei rivolgere un saluto soprattutto a tutti gli uomini e le donne viventi sulla nostra terra; ad ogni uomo, ad ogni donna, senza eccezione alcuna. Ogni essere umano, infatti, che abita il nostro pianeta, è membro di una società civile, di una nazione, numerose delle quali sono qui rappresentate. Ognuno di voi, illustrissimi signore e signori, è rappresentante di singoli stati: sistemi e strutture politiche, ma soprattutto di determinate unità umane; voi tutti siete i rappresentanti degli uomini, praticamente di quasi tutti gli uomini del globo: uomini concreti, comunità e popoli, che vivono l'odierna fase della loro storia, ed insieme sono inseriti nella storia di tutta l'umanità, con la loro soggettività e dignità di persona umana, con una propria cultura, con esperienze e aspirazioni, tensioni, sofferenze proprie e legittime aspettative. In questo rapporto trova il suo perché tutta l'attività politica, nazionale e internazionale, la quale in ultima analisi viene "dall'uomo", si esercita "mediante l'uomo" ed è "per l'uomo". Se tale attività si distacca da questa fondamentale relazione e finalità, se diventa, in certo modo, fine a se stessa, perde gran parte della sua ragion d'essere; ancor più può diventare sorgente di una specifica alienazione, può diventare estranea all'uomo, può cadere in contraddizione con l'umanità stessa. In realtà, ragion d'essere di ogni politica è il servizio all'uomo, è l'adesione, piena di sollecitudine e responsabilità, ai problemi ed ai compiti essenziali della sua esistenza terrena, nella sua dimensione e portata sociale, dalla quale contemporaneamente dipende anche il bene di ciascuna persona. Mi scuso di parlare di questioni che a voi, illustrissimi signore e signori, sono certamente evidenti. Ma non sembra inutile parlarne, perché ciò che insidia più spesso le attività umane è l'eventualità che, nel compierle, si possano perdere di vista le verità più lampanti, i principi più elementari. Mi sia permesso di augurare che l'Organizzazione delle Nazioni Unite, per il suo carattere universale, non cessi mai di essere quel "forum", quell'alta tribuna, dalla quale si valutano, nella verità e nella giustizia, tutti i problemi dell'uomo. In nome di questa ispirazione, per questo impulso storico, fu firmata il 26 giugno 1945, verso la fine della terribile seconda guerra mondiale, la Carta delle Nazioni Unite e prese vita, il 24 ottobre successivo, la vostra Organizzazione. Poco dopo venne il fondamentale suo documento che fu la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (10 dicembre 1948), dell'uomo come individuo concreto e dell'uomo nel suo valore universale. Questo documento è una pietra miliare posta sul lungo e difficile cammino del genere umano. Bisogna misurare il progresso dell'umanità non solo col progresso della scienza e della tecnica, dal quale risalta tutta la singolarità dell'uomo nei confronti della natura, ma contemporaneamente e ancor più col primato dei valori spirituali e col progresso della vita morale. Proprio in questo campo si manifesta il pieno dominio della ragione attraverso la verità nei comportamenti della persona e della società, ed anche il dominio sulla natura e trionfa silenziosamente la coscienza umana, secondo l'antico detto «Genus humanum arte et ratione vivit». Proprio quando la tecnica, nell'unilaterale suo progresso, veniva diretta a scopi bellici di egemonie e di conquiste, perché l'uomo uccidesse l'uomo e una nazione distruggesse l'altra privandola della libertà o del diritto di esistere e ho sempre davanti alla mia mente l'immagine della seconda guerra mondiale, iniziata quarant'anni or sono, il primo settembre 1939, con l'invasione della Polonia, e finita il 9 maggio 1945 proprio allora è sorta l'Organizzazione delle Nazioni Unite. E tre anni dopo nacque il documento che come ho detto è da considerare una vera pietra miliare sulla via del progresso morale dell'umanità: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Governi e stati del mondo hanno capito che, se non vogliono aggredirsi e distruggersi reciprocamente, debbono unirsi. La via reale, la via fondamentale che conduce a questo, passa attraverso ciascun uomo, attraverso la definizione, il riconoscimento ed il rispetto degli inalienabili diritti delle persone e delle comunità dei popoli. Oggi, a quarant'anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale, vorrei richiamarmi all'insieme delle esperienze degli uomini e delle nazioni, vissute da una generazione in buona parte ancora in vita. Non molto tempo fa, ho avuto modo di ritornare a riflettere su alcune di quelle esperienze in uno dei luoghi più dolorosi e più traboccanti di disprezzo per l'uomo e per i suoi fondamentali diritti: il campo di sterminio di Oswiecim (Auschwitz), che ho visitato durante il mio pellegrinaggio in Polonia, nel giugno scorso. Questo luogo, tristemente conosciuto, è, purtroppo, soltanto uno dei tanti sparsi sul continente europeo. Anche il ricordo di uno solo dovrebbe costituire un segnale di avvertimento sulle strade dell'umanità contemporanea per fare sparire, una volta per sempre, ogni genere di campi di concentramento in ogni luogo della terra. E dovrebbe sparire per sempre, dalla vita delle nazioni e degli stati, tutto ciò che si richiama a quelle orribili esperienze, ciò che sotto forme anche diverse, cioè di ogni genere di tortura e di oppressione, sia fisica sia morale, esercitata con qualsiasi sistema, in qualunque terra è la loro continuazione, fenomeno ancor più doloroso che si effettua col pretesto di "sicurezza" interna e di necessità di conservare una pace apparente. Gli illustri presenti mi perdoneranno tale ricordo: ma sarei infedele alla storia del nostro secolo, non sarei onesto di fronte alla grande causa dell'uomo che tutti desideriamo servire se, provenendo da quel Paese, sul cui vivo corpo è stato costruito, un tempo, "Oswiecim", io tacessi. Lo ricordo tuttavia, illustrissimi e cari signore e signori, soprattutto al fine di dimostrare da quali dolorose esperienze e sofferenze di milioni di persone è sorta la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che è stata posta come ispirazione di base, come pietra angolare dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Questa Dichiarazione è costata milioni di nostri fratelli e sorelle che l'hanno pagata con la propria sofferenza e sacrificio, provocati dall'abbrutimento che aveva reso sorde e ottuse le coscienze umane dei loro oppressori e degli artefici di un vero genocidio. Questo prezzo non può essere stato pagato invano! La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo con tutto il corredo di numerose dichiarazioni e convenzioni su aspetti importantissimi dei diritti umani, a favore dell'infanzia, della donna, dell'uguaglianza tra le razze e, particolarmente, i due patti internazionali sui diritti economici, sociali e culturali, e sui diritti civili e politici deve rimanere, nell'Organizzazione delle Nazioni Unite, il valore di base con cui la coscienza dei suoi membri si confronti e da cui attinga la sua ispirazione costante. Se le verità e i principi contenuti in questo documento venissero dimenticati o trascurati, perdendo la genuina evidenza di cui rifulgevano al momento della nascita dolorosa, allora la nobile finalità dell'Organizzazione delle Nazioni Unite potrebbe trovarsi di fronte alla minaccia di una nuova rovina. Ciò avverrebbe se, sulla semplice e insieme forte eloquenza della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, prendesse decisamente il sopravvento un interesse che si definisce ingiustamente "politico", ma che significa spesso soltanto guadagno e profitto unilaterale a danno di altri, oppure volontà di potenza che non tiene conto delle esigenze altrui: tutto ciò che, per sua natura, è contrario allo spirito della Dichiarazione. "L'interesse politico" così inteso, perdonatemi signori, porta disonore alla nobile e difficile missione che è propria del vostro servizio, per il bene delle vostre nazioni e di tutta l'umanità. Quattordici anni fa, parlava da questa tribuna il mio grande predecessore Papa Paolo VI. Egli ha allora pronunziato alcune parole memorabili che desidero oggi ripetere: «Non più la guerra, non più! Mai più "gli uni contro gli altri", e neppure "l'uno sopra l'altro", ma sempre, in ogni occasione, "gli uni con gli altri"». Paolo VI è stato un instancabile servo della causa della pace. Anch'io desidero seguirlo con tutte le mie forze e continuare tale suo servizio. La Chiesa cattolica, in tutti i luoghi della terra, proclama un messaggio di pace, prega per la pace, educa l'uomo alla pace. Questa finalità è condivisa, e per essa si impegnano anche rappresentanti e seguaci di altre Chiese e Comunità, e di altre religioni del mondo. E questo lavoro, unito agli sforzi di tutti gli uomini di buona volontà, porta certamente frutti. Tuttavia sempre ci turbano i conflitti bellici che ogni tanto scoppiano. Quanto ringraziamo il Signore quando si riesce, con intervento diretto, a scongiurarne qualcuno, come per esempio la tensione che minacciava l'anno scorso l'Argentina e il Cile. Quanto auspico che anche nelle crisi del Medio Oriente ci si possa avvicinare ad una soluzione. Mentre sono pronto ad apprezzare ogni passo o tentativo concreto che si fa per la composizione del conflitto, ricordo che esso non avrebbe valore se non rappresentasse davvero la "prima pietra" di una pace generale e globale della regione. Una pace che, non potendo non fondarsi sull'equo riconoscimento dei diritti di tutti, non può non includere la considerazione e la giusta soluzione del problema palestinese. Con esso è connesso anche quello della tranquillità, dell'indipendenza e dell'integrità territoriale del Libano nella formula che ne ha fatto esempio di pacifica e mutuamente fruttuosa coesistenza di comunità distinte e che auspico sia mantenuto nel comune interesse, pur con gli adeguamenti richiesti dagli sviluppi della situazione. Auspico inoltre uno statuto speciale che, sotto garanzie internazionali come ebbe ad indicare il mio predecessore Paolo VI assicuri il rispetto della particolare natura di Gerusalemme, patrimonio sacro alla venerazione di milioni di credenti delle tre grandi religioni monoteistiche, l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islam. Non meno ci turbano le informazioni sullo sviluppo degli armamenti, che oltrepassano mezzi e dimensioni di lotta e distruzione mai finora conosciuti. Anche qui, incoraggiamo le decisioni e gli accordi che tendono a frenarne la corsa. Tuttavia la minaccia della distruzione, il rischio che emerge perfino dall'accettare certe "tranquillizzanti" informazioni, incombono gravemente sulla vita dell'umanità contemporanea. Anche il resistere a proposte concrete ed effettive di reale disarmo come quelle che questa assemblea ha richiesto, lo scorso anno, in una sessione speciale testimonia che con la volontà di pace dichiarata da tutti e dai più desiderata coesista, forse nascosto, forse ipotetico, ma reale, il suo contrario e la sua negazione. I continui preparativi alla guerra, di cui fa fede, in vari paesi, la produzione di armi sempre più numerose, più potenti e sofisticate, testimoniano che si vuole essere pronti alla guerra, ed essere pronti vuol dire essere in grado di provocarla, vuol dire anche correre il rischio che in qualche momento, in qualche parte, in qualche modo qualcuno possa mettere in moto il terribile meccanismo di distruzione generale. È perciò necessario un continuo, anzi un ancor più energico sforzo, che tenda a liquidare le stesse possibilità di provocazioni alla guerra, per rendere impossibili i cataclismi, agendo sugli atteggiamenti, sulle convinzioni, sulle stesse intenzioni e aspirazioni dei governi e dei popoli. Questo compito, sempre presente all'Organizzazione delle Nazioni Unite e alle sue singole istituzioni, non può non essere di ogni società, di ogni regime, di ogni governo. A questo compito serve certamente ogni iniziativa che abbia come fine la cooperazione internazionale nel promuovere lo sviluppo. Come disse Paolo VI a conclusione della sua Enciclica Populorum Progressio: «Se lo sviluppo è il nuovo nome della pace, chi non vorrebbe cooperarvi con tutte le sue forze?». Tuttavia a questo compito deve servire anche una costante riflessione e attività che tenda a scoprire le radici stesse dell'odio, della distruzione, del disprezzo di tutto ciò che fa nascere la tentazione della guerra non tanto nel cuore delle nazioni quanto nella determinazione interiore dei sistemi che sono responsabili della storia di tutte le società intere. In questo lavoro titanico vero lavoro di costruzione del futuro pacifico del nostro pianeta l'Organizzazione delle Nazioni Unite ha indubbiamente un compito chiave e direttivo, per il quale non può non riportarsi ai giusti ideali contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Questa Dichiarazione ha infatti realmente colpito le molteplici e profonde radici della guerra, perché lo spirito di guerra, nel suo primitivo e fondamentale significato, spunta e matura là dove gli inalienabili diritti dell'uomo vengono violati. Questa è una nuova visuale, profondamente attuale, più profonda e più radicale, della causa della pace. È una visuale che vede la genesi della guerra e, in certo senso, la sua sostanza nelle forme più complesse che promanano dall'ingiustizia, considerata sotto tutti i suoi vari aspetti, la quale prima attenta ai diritti dell'uomo e per questi recide l'organicità dell'ordine sociale, ripercuotendosi in seguito su tutto il sistema dei rapporti internazionali. L'Enciclica di Giovanni XXIII Pacem in Terris sintetizza, nel pensiero della Chiesa, il giudizio più vicino ai fondamenti ideali dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Bisogna conseguentemente basarsi su di esso e attenervisi, con perseveranza e lealtà, per stabilire cioè la vera "pace sulla terra". Applicando questo criterio dobbiamo diligentemente esaminare quali tensioni principali legate ai diritti inalienabili dell'uomo possano far vacillare la costruzione di questa pace, che tutti desideriamo ardentemente, e che è anche il fine essenziale degli sforzi dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Non è facile, ma è indispensabile. Nell'intraprenderla ognuno deve situarsi in una posizione del tutto oggettiva, essere guidato dalla sincerità, dalla disponibilità nel riconoscere i propri pregiudizi od errori, e perfino dalla disponibilità nel rinunciare a particolari interessi anche politici. La pace è, infatti, un bene più grande e più importante di ciascuno di essi. Sacrificando questi interessi alla causa della pace, li serviamo in modo più giusto. Nell'interesse politico «di chi può mai essere una nuova guerra?». Ogni analisi deve necessariamente partire dalle stesse premesse: ogni essere umano possiede una dignità la quale, benché la persona esista sempre in un contesto sociale e storico concreto, non potrà mai essere sminuita, ferita o distrutta, ma al contrario dovrà essere rispettata e protetta, se si vuole realmente costruire la pace. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e gli strumenti giuridici, sia a livello nazionale che internazionale, secondo un movimento che non ci si può augurare se non progressivo e continuo, cercano di creare una coscienza generale della dignità dell'uomo e di definire almeno alcuni dei diritti inalienabili dell'uomo. Mi sia permesso di enumerarne qualcuno tra i più importanti e universalmente riconosciuti: il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona; il diritto all'alimentazione, all'abbigliamento, all'alloggio, alla salute, al riposo e agli svaghi; il diritto alla libertà di espressione, all'educazione e alla cultura; il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e il diritto a manifestare la propria religione, individualmente o in comune, tanto in privato che in pubblico; il diritto di scegliere il proprio stato di vita, di fondare una famiglia e di godere di tutte le condizioni necessarie alla vita familiare; il diritto alla proprietà e al lavoro, a condizioni eque di lavoro e ad un giusto salario; il diritto di riunione e di associazione; il diritto alla libertà di movimento e alla migrazione interna ed esterna; il diritto alla nazionalità e alla residenza; il diritto alla partecipazione politica e il diritto alla libera scelta del sistema politico del popolo al quale si appartiene. L'insieme dei diritti dell'uomo corrisponde alla sostanza della dignità dell'essere umano, inteso integralmente, e non ridotto a una sola dimensione; essi si riferiscono alla soddisfazione dei bisogni essenziali dell'uomo, all'esercizio delle sue libertà, alle sue relazioni con altre persone; ma si riferiscono sempre e dovunque all'uomo, alla sua piena dimensione umana. L'uomo vive, contemporaneamente, nel mondo dei valori materiali e in quello dei valori spirituali. Per l'uomo concreto che vive e spera, i bisogni, le libertà e le relazioni con gli altri non corrispondono mai solamente all'una o all'altra sfera di valori, ma appartengono ad ambedue. È lecito considerare separatamente i beni materiali ed i beni spirituali per meglio comprendere che nell'uomo concreto essi sono inseparabili e per vedere, altresì, che ogni minaccia ai diritti umani, sia nell'ambito dei beni materiali che in quello dei beni spirituali, è ugualmente pericolosa per la pace, perché riguarda sempre l'uomo nella sua integralità. I miei illustri interlocutori mi consentano di richiamare una regola costante della storia dell'uomo, già implicitamente contenuta in tutto ciò che è stato ricordato a proposito dei diritti dell'uomo e dello sviluppo integrale. Questa regola è basata sulla relazione fra i valori spirituali e quelli materiali o economici. In tale relazione il primato spetta ai valori spirituali, sia per riguardo alla natura stessa di questi valori che per i motivi che riguardano il bene dell'uomo. Il primato dei valori dello spirito definisce il significato proprio e il modo di servirsi dei beni terreni e materiali, e si trova, per questo stesso fatto, alla base della giusta pace. Tale primato dei valori spirituali, d'altra parte, influisce nel far sì che lo sviluppo materiale, tecnico e di civilizzazione serva a ciò che costituisce l'uomo, cioè che renda possibile il pieno accesso alla verità, allo sviluppo morale, alla totale possibilità di godere dei beni della cultura di cui siamo eredi e a moltiplicarli a mezzo della nostra creatività. Ecco, è facile constatare che i beni materiali hanno la capacità, non certo illimitata, di soddisfare i bisogni dell'uomo; in sé, non possono essere distribuiti facilmente e, nel rapporto tra chi li possiede e ne gode e chi ne è privo, provocano tensioni, dissidi, divisioni, che possono arrivare spesso alla lotta aperta. I beni spirituali possono essere invece in godimento contemporaneo di molti, senza limiti e senza diminuzione del bene stesso. Anzi, più grande è il numero degli uomini che partecipa ad un bene, più se ne gode e ad esso si attinge, più quel bene dimostra il suo indistruttibile e immortale valore. È una realtà confermata ad esempio dalle opere della creatività, cioè del pensiero, della poesia, della musica e delle arti figurative, frutto dello spirito dell'uomo. Un'analisi critica della nostra civiltà contemporanea mette in luce che essa, soprattutto durante l'ultimo secolo, ha contribuito, come mai prima, allo sviluppo dei beni materiali, ma ha anche generato, in teoria e ancor più in pratica, una serie di atteggiamenti in cui, in misura più o meno rilevante, è diminuita la sensibilità per la dimensione spirituale dell'esistenza umana, a causa di certe premesse: il senso della vita umana è stato rapportato in prevalenza ai molteplici condizionamenti materiali ed economici, e cioè alle esigenze della produzione, del mercato, del consumo, delle accumulazioni di ricchezze o della burocratizzazione con cui si cerca di regolarne i corrispondenti processi. E questo non è frutto anche dell'aver subordinato l'uomo a una sola concezione e sfera di valori? Quale legame ha questa nostra considerazione con la causa della pace e della guerra? Dato che, come abbiamo già detto in precedenza, i beni materiali, per la stessa loro natura, sono origine di condizionamenti e di divisioni, la lotta per conquistarli diventa inevitabile nella storia dell'uomo. Coltivando questa unilaterale subordinazione umana ai soli beni materiali non saremo capaci di superare tale stato di necessità. Potremo attenuarlo, scongiurarlo nel caso particolare, ma non riusciremo a eliminarlo in modo sistematico e radicale se non mettiamo in luce, e in onore più largamente, agli occhi di ogni uomo, alla prospettiva di tutte le società, la seconda dimensione dei beni: la dimensione che non divide gli uomini, ma li fa comunicare tra loro, li associa e li unisce. Ritengo che il prologo famoso della Carta delle Nazioni Unite, in cui i popoli delle Nazioni Unite, «decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra», riaffermano solennemente «la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne, e delle nazioni grandi e piccole», intende dare evidenza a tale dimensione. Non si possono infatti combattere i germi delle guerre in modo soltanto superficiale, "sintomatico". Bisogna farlo in modo radicale, risalendo alle cause. Se mi sono permesso di richiamare l'attenzione sulla dimensione dei beni spirituali, l'ho fatto per sollecitudine per la causa della pace, che si costruisce con l'unione degli uomini intorno a ciò che è al massimo e più profondamente umano, che eleva gli esseri umani al di sopra del mondo che li circonda e decide della loro indistruttibile grandezza: indistruttibile nonostante la morte alla quale ciascuno di questa terra è soggetto. Vorrei aggiungere che la Chiesa cattolica e, sento di poter dire, tutta la Cristianità, vedono proprio in questo campo il loro compito particolare. Il Concilio Vaticano II aiutò a stabilire ciò che la fede cristiana ha in comune in questa aspirazione, con le diverse religioni non-cristiane. La Chiesa è quindi grata a tutti coloro che, nei confronti di tale sua missione, si comportano con rispetto e benvolere, e non la ostacolano o la rendono difficile. L'analisi della storia dell'uomo, in particolare nella sua epoca attuale, dimostra quanto rilevante è il dovere di svelare più pienamente la portata di questi beni ai quali corrisponde la dimensione spirituale dell'esistenza umana. Dimostra quanto importante è questo compito per la costruzione della pace, e quanto grave sia ogni minaccia contro i diritti dell'uomo; la loro violazione, anche nella condizione "di pace", è una forma di guerra contro l'uomo. Sembra che esistano due principali minacce nel mondo contemporaneo che riguardano, l'una e l'altra, i diritti dell'uomo nell'ambito dei rapporti internazionali e all'interno dei singoli stati o società. Il primo genere di minaccia sistematica contro i diritti dell'uomo è legato, in un senso globale, alla distribuzione dei beni materiali, spesso ingiusta sia nelle singole società che nell'intero globo. È noto che questi beni sono dati all'uomo non soltanto come ricchezze della natura ma, in maggior parte, vengono da lui goduti come frutto della sua molteplice attività, dal più semplice lavoro manuale e fisico, fino alle più complicate forme della produzione industriale, alle ricerche e studi di specializzazioni altamente qualificate. Varie forme di disuguaglianza nel possesso dei beni materiali, e nel godimento di essi si spiegano spesso con diverse cause e circostanze di natura storica e culturale. Ma tali circostanze, se pur possono diminuire la responsabilità morale dei contemporanei, non impediscono che le situazioni di disuguaglianza siano contrassegnate dall'ingiustizia e dal danno sociale. Bisogna quindi prendere coscienza che le tensioni economiche esistenti nei singoli paesi, nelle relazioni tra gli stati e perfino tra interi continenti, portano insiti in se stesse elementi sostanziali che limitano o violano i diritti dell'uomo, come per esempio lo sfruttamento del lavoro e i molteplici abusi della dignità dell'uomo. Ne consegue che il criterio fondamentale, secondo il quale si può stabilire un confronto tra i sistemi socio-economico-politici, non è e non può essere il criterio di natura egemonico-imperialista, ma può, anzi deve essere quello di natura umanistica, cioè la misura in cui ognuno di essi sia veramente capace di ridurre, frenare ed eliminare al massimo le varie forme di sfruttamento dell'uomo, e di assicurare all'uomo, mediante il lavoro, non soltanto la giusta distribuzione dei beni materiali indispensabili, ma anche una partecipazione, corrispondente alla sua dignità, all'intero processo di produzione e alla stessa vita sociale che, intorno a questo processo, si viene formando. Non dimentichiamo che l'uomo, benché dipenda per vivere dalle risorse del mondo materiale, non può esserne lo schiavo, ma il signore. Le parole del libro della Genesi: «riempite la terra; soggiogatela» [Gen 1, 28] costituiscono in un certo senso una direttiva primaria ed essenziale nel campo dell'economia e della politica del lavoro. Certamente, in questo campo, l'umanità intera e le singole nazioni, hanno compiuto, durante l'ultimo secolo, un notevole progresso; ma non mancano mai le minacce sistematiche e le violazioni dei diritti dell'uomo. Sussistono, spesso come fattori di turbamento, le terribili disparità fra gli uomini e i gruppi eccessivamente ricchi da una parte e, dall'altra parte, la maggioranza numerica dei poveri o addirittura dei miserabili, privi di nutrimento, di possibilità di lavoro e di istruzione, condannati in gran numero alla fame e alle malattie. Ma una certa preoccupazione è talvolta suscitata anche da una radicale separazione del lavoro dalla proprietà, cioè dall'indifferenza dell'uomo nei confronti dell'impresa di produzione alla quale lo leghi soltanto un obbligo di lavoro, senza la convinzione di lavorare per un bene suo o per se stesso. È comunemente noto che l'abisso tra la minoranza degli eccessivamente ricchi e la moltitudine dei miseri è un sintomo ben grave nella vita di ogni società. Lo stesso bisogna ripetere, con maggiore insistenza, a proposito dell'abisso che divide i singoli paesi e le regioni del globo terrestre. Può questa disparità grave, che contrappone aree di sazietà ad aree di fame e di depressioni, essere colmata in altro modo se non mediante una cooperazione coordinata di tutte le Nazioni? A ciò è necessaria anzitutto un'unione ispirata ad una autentica prospettiva di pace. Ma tutto dipenderà dal fatto se quei dislivelli e contrasti nell'ambito del "possesso" dei beni, saranno ridotti sistematicamente e con mezzi veramente efficaci; se spariranno dalla carta economica del nostro globo le zone della fame, della denutrizione, della miseria, del sottosviluppo, della malattia, dell'analfabetismo; e se la pacifica cooperazione non porrà condizioni di sfruttamento, di dipendenza economica o politica, che sarebbero soltanto una forma di neo-colonialismo. Vorrei ora richiamare l'attenzione sulla seconda specie di minaccia sistematica di cui è oggetto, nel mondo contemporaneo, l'uomo nei suoi intangibili diritti, e che costituisce, non meno della prima, un pericolo alla causa della pace, ossia le diverse forme di ingiustizia nel campo dello spirito. Si può infatti ferire l'uomo nella sua interiore relazione alla verità, nella sua coscienza, nelle sue convinzioni più personali, nella sua concezione del mondo, nella sua fede religiosa, così come nella sfera delle cosiddette libertà civili nelle quali è decisiva l'eguaglianza di diritti senza discriminazione a motivo di origine, razza, sesso, nazionalità, confessione, convinzioni politiche e simili. L'eguaglianza di diritti vuol dire l'esclusione delle diverse forme di privilegio degli uni e di discriminazione degli altri, siano individui nati in una stessa nazione, siano uomini di diversa storia, nazionalità, razza e pensiero. Lo sforzo della civilizzazione tende da secoli in una direzione: dare alla vita delle singole società politiche una forma in cui possono essere pienamente garantiti i diritti, obiettivi dello spirito, della coscienza umana, della creatività umana, inclusa la relazione dell'uomo con Dio. Eppure siamo sempre testimoni delle minacce e violazioni che in questo campo ritornano, spesso senza possibilità di ricorsi e istanze superiori o di rimedi efficaci. Accanto all'accettazione di formule legali che garantiscono come principio le libertà dello spirito umano, per es. la libertà di pensiero, di espressione, la libertà religiosa, la libertà di coscienza, esiste spesso una strutturazione della vita sociale in cui l'esercizio di queste libertà condanna l'uomo, se non nel senso formale almeno di fatto, a divenire un cittadino di seconda o di terza categoria, a vedere compromesse le proprie possibilità di promozione sociale, di carriera professionale, o di accesso a certe responsabilità, e a perdere perfino la possibilità di educare liberamente i propri figli. È questione di massima importanza che, nella vita sociale interna ed in quella internazionale, tutti gli uomini, in ogni nazione e paese, in ogni regime o sistema politico, possano godere una effettiva pienezza di diritti. Soltanto una tale effettiva pienezza di diritti, garantita ad ogni uomo senza discriminazioni, può assicurare la pace alle stesse sue radici. Per quanto riguarda la libertà religiosa, che a me, come Papa, non può non stare particolarmente a cuore, anche in relazione proprio alla salvaguardia della pace, vorrei riportare qui, come contributo ideale al rispetto della dimensione spirituale dell'uomo, alcuni principi contenuti nella Dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II. «A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze» [Dignitatis Humanae, 1, 2]. «Infatti l'esercizio della religione, per sua stessa natura, consiste anzitutto in atti interni volontari e liberi, con i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio: i quali atti da un'autorità meramente umana non possono essere né comandati, né proibiti. Però la stessa natura sociale dell'essere umano esige che egli esprima esternamente gli atti interni di religione, comunichi con altri in materia religiosa, professi la propria religione in modo comunitario» [Ivi, 1,3]. Queste parole toccano la sostanza del problema. Dimostrano anche in che modo lo stesso confronto tra la concezione religiosa del mondo e quella agnostica, o anche ateistica, che è uno dei "segni dei tempi" della nostra epoca, potrebbe conservare leali e rispettose dimensioni umane senza violare gli essenziali diritti della coscienza di nessun uomo o donna che vivono sulla terra. Lo stesso rispetto della dignità della persona umana sembra richiedere che, quando sia discusso o stabilito, in vista di leggi nazionali o di convenzioni internazionali, nel giusto tenore dell'esercizio della libertà religiosa, siano coinvolte anche le istituzioni che, per loro natura, servono la vita religiosa. Trascurando tale partecipazione si rischia di imporre delle norme o delle restrizioni, in un campo tanto intimo della vita dell'uomo, che sono contrarie ai suoi veri bisogni religiosi. L'organizzazione delle Nazioni Unite ha proclamato l'anno 1979 l'Anno del Fanciullo. Desidero quindi, in presenza dei rappresentanti qui riuniti di tante nazioni del globo, esprimere la gioia che per ognuno di noi costituiscono i bambini, primavera della vita e anticipo della storia futura di ognuna delle presenti patrie terrestri. Nessun paese del mondo, nessun sistema politico, può pensare al proprio avvenire diversamente se non tramite l'immagine di queste nuove generazioni che dai loro genitori assumeranno il molteplice patrimonio dei valori, dei doveri, delle aspirazioni della nazione alla quale appartengono insieme con quello di tutta la famiglia umana. La sollecitudine per il bambino, ancora prima della sua nascita, dal primo momento della concezione e, in seguito, negli anni dell'infanzia e della giovinezza è la prima e fondamentale verifica della relazione dell'uomo all'uomo. E perciò, che cosa di più si potrebbe augurare a ogni nazione e a tutta l'umanità, a tutti i bambini del mondo, se non quel migliore futuro in cui il rispetto dei Diritti dell'Uomo diventi una piena realtà nelle dimensioni del Duemila che s'avvicina? Ma in tale prospettiva dobbiamo chiederci se continuerà ad accumularsi sul capo di questa nuova generazione di bambini la minaccia del comune sterminio i cui mezzi si trovano nelle mani degli stati contemporanei, e particolarmente delle maggiori potenze della terra. Dovranno forse ereditare da noi, come un patrimonio indispensabile, la corsa agli armamenti? Con che cosa possiamo spiegare questa corsa sfrenata? Gli antichi solevano dire: «si vis pacem, para bellum». Ma la nostra epoca può credere ancora che la vertiginosa spirale degli armamenti serva alla pace del mondo? Adducendo la minaccia di un nemico potenziale si pensa invece a riservarsi a propria volta un mezzo di minaccia per ottenere, con l'aiuto del proprio arsenale di distruzione, il sopravvento? Anche qui è la dimensione umana della pace che tende a svanire in favore di eventuali, sempre nuovi imperialismi. Bisogna dunque augurare qui, in modo solenne, ai nostri bambini, ai bambini di tutte le nazioni della terra, che non si arrivi mai a tale punto; per ciò non cesso di supplicare ogni giorno Iddio che ci preservi, con la sua misericordia, da un simile giorno terribile. Alla fine di questo discorso desidero esprimere, ancora una volta, davanti a tutti gli alti rappresentanti degli stati qui presenti, un pensiero di stima e di profondo amore per tutti i popoli, per tutte le nazioni della terra, per tutte le comunità di uomini. Ognuna di esse ha la propria storia e cultura: auguro che possano vivere e svilupparsi nella libertà e nella verità della propria storia, poiché tale è la misura del bene comune di ognuna di esse. Auguro che ciascuno possa vivere e fortificarsi con la forza morale di questa comunità, che forma i suoi membri come cittadini. Auguro che le autorità statali, rispettando i giusti diritti di ciascun cittadino, possano godere, per il bene comune, della fiducia di tutti. Auguro che tutte le Nazioni, anche le più piccole, anche quelle che non ancora godono della piena sovranità e quelle alle quali è stata forzatamente tolta, possano ritrovarsi in piena uguaglianza con le altre nell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Auguro che l'Organizzazione delle Nazioni Unite rimanga sempre il supremo foro della pace e della giustizia: autentica sede della libertà dei popoli e degli uomini nella loro aspirazione a un futuro migliore. ©Libreria Editrice Vaticana, 00120 Città del Vaticano