Cagliari, 1973. Giorgio La Pira riassume lo slancio ideale della sua azione politica ripercorrendo la lunga stagione dei convegni mediterranei di Firenze. Un’iniziativa che ha sfidato le guerre e l’odio e che ha conosciuto successi insperati e cocenti delusioni
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:22
Cari amici, permettete che io vi esponga il piano delle mie riflessioni relativamente a questo convegno, ed alla "premessa" a me affidata con la quale avete desiderato di introdurlo. Perché, mi sono detto, gli amici della Regione Sarda e dell'Ipalmo hanno dato a me questo mandato? La risposta non poteva essere che questa (e ne abbiamo, del resto, con tanti di voi, parlato spesse volte): perché a Firenze noi abbiamo avuto, a partire dal 1956, una certa, singolare esperienza dei problemi tanto complessi storici, spirituali, culturali, sociali, economici, militari e politici dei popoli mediterranei: e perché questa esperienza si è svolta alla luce di una idea madre, di una ipotesi di lavoro, che gli eventi mediterranei europei e mondiali di questi ultimi quindici anni non hanno, come crediamo, affatto indebolito, ma hanno anzi, in certo senso, fortemente convalidato.
Vi sono, quindi, tre problemi da affrontare: 1. Quale è stata questa esperienza? 2. Quale è stata l'idea madre, l'ipotesi di lavoro, nella cui luce essa si è svolta? 3. Quale la validità attuale di questa esperienza e della idea madre che l'ha finalizzata e diretta? Prima di rispondere con uno schizzo essenziale a queste domande, permettete che io vi dica fraternamente (parlo specie agli amici arabi): voi lo sapete, noi non abbiamo mai avuto (a Firenze) altro scopo che quello di aiutare l'emergenza storica dei popoli arabi (in genere l'emergenza storica dei popoli nuovi, quelli di Bandung) e di aiutarli nel loro processo di liberazione e di emancipazione storica, sociale, economica e politica dalle potenze occidentali. Tutto questo noi lo abbiamo fatto non solo con convegni di studio e con strumenti di riflessione (utilissimi, anche essi, si capisce): lo abbiamo fatto anche adoperando strumenti tecnici, economici e politici essenziali per aiutare efficacemente questo processo di promozione storica. Basti ricordare la parte determinante avuta sin dal 1956 per questa azione di liberazione e di emancipazione dall'On. Fanfani e dall'indimenticabile Mattei. Non dimenticherò mai la telefonata fatta il 5 settembre 1956 (dalla sede romana dell'Ambasciata egiziana) da Taha Hussein, da Fanfani e da me a Nasser per dirgli che gli eravamo vicini in quel momento drammatico e determinante della storia dell'Egitto e di tutta la nazione araba (eravamo nel momento più duro della triste guerra di Suez).
Fu dopo quella telefonata che si pensò di impegnare Mattei perché andasse al Cairo per offrire a Nasser la sua cooperazione per lo sviluppo (mediante una adeguata politica dell'energia) del sistema industriale ed economico dell'Egitto. Questa azione "liberatrice" triangolare Firenze, Fanfani, Mattei investì rapidamente tutto il mondo arabo e mediterraneo: si estese al Marocco (non posso non ricordare la visita impreveduta e tanto significativa ed efficace di Maometto V a Firenze nell'inverno 1957); attraversò la Tunisia (dove ancora era in corso il processo per la liberazione politica); e fu, in certo senso, la forza determinante per la successiva liberazione algerina (un processo iniziatosi a Firenze nel primo Colloquio Mediterraneo del 4 ottobre 1958 e conclusosi ad Evian col trattato di pace franco-algerino del 19 marzo 1962).
Questa "azione triangolare" si estese, a partire dal 1957, a tutto il mondo arabo mediterraneo (Libia compresa); passò poi al mondo asiatico (si pensi all'Iran); si estese a tutto il continente africano (l'ultimo incontro di Mattei a Firenze fu quello avuto il 4 ottobre 1962 con Senghor); ed era già fortemente avviato ad estendersi all'Europa orientale, all'Urss, all'America latina, all'India e, in maniera vasta e profonda, alla Cina (i grandi impianti di Ravenna "puntavano", appunto, sulla Cina). Questi cenni che meriterebbero una meditazione vasta ed una vasta analisi bastano per mostrare quale fu concretamente la scelta storica e politica fatta a Firenze a partire dal 1956 a favore dei popoli arabi in emergenza ed a favore, in generale, di tutti i popoli emergenti (i popoli del Bandung) nella fase tanto nuova della storia nuova del mondo. Agli amici arabi presenti in questo Convegno possiamo, perciò, dire fraternamente: voi lo sapete: le cose che abbiamo fatto, le idee che ci hanno guidato, i piani che abbiamo elaborato ed in cui ancora crediamo, hanno il loro fondamento nel "senso della storia": quindi, in una amicizia storica, spirituale, culturale, sociale e politica incontestabile: parlano i fatti: rebus ipsis dictantibus! Di noi, perciò, potete fidarvi: abbiamo sempre cercato e sempre cerchiamo il bene delle nazioni arabe nel contesto solidale e globale delle nazioni mediterranee, Israele, quindi, compreso e di tutte le nazioni del mondo: nel contesto, cioè, non alternativo in questa età atomica della unità, della giustizia e della pace fra i popoli di tutto il pianeta.
Quale è stata questa esperienza? Ecco: si è trattato di una azione a favore di tutti i popoli del Mediterraneo per la loro convergenza e pacifica coesistenza che ha avuto, in certo senso, nel I° Colloquio Mediterraneo di Firenze del 4 ottobre 1958 il suo "luogo" e il suo "strumento di maturazione": una azione mirante, cioè, alla soluzione globale prospettica dei problemi di questi popoli. Una azione che ha avuto successi (la pace franco-algerina conclusa ad Evian il 19.3.1962 si radicò nel Colloquio di Palazzo Vecchio; anche la distensione fra Tunisia e Francia) ed insuccessi (la tensione arabo-israeliana che ebbe, dopo il colloquio, pause distensive è, purtroppo, ancora forte ed è stata anzi aggravata con la guerra "dei sei giorni" del 1967): una azione che non abbiamo, però, mai sospeso, che è stata svolta con più impegno dopo la guerra del '67; con viaggi del 1967 e del 1968 di Parigi, di Gerusalemme e del Cairo e con le ulteriori iniziative di questi ultimi anni; un'azione che non ha smesso di mostrare presso tutti i popoli (per il Vietnam in modo speciale ed urgente) la sua invitta speranza, la speranza di Abramo: spes contra spem!
Il disegno, l'architettonica, di questa esperienza fu semplice: si trattò di convocare a Firenze, di far convergere verso Firenze, i popoli mediterranei; farli incontrare in S. Croce (nel ricordo di S. Francesco e della sua azione di pace svolta nel 1200 col Sultano) ed in Palazzo Vecchio; ed iniziare a Firenze, nell'occasione di questo incontro, quel tessuto di negoziato globale e di pace destinato a dare unità, giustizia e pace a tutti i popoli mediterranei, dell'unica famiglia di Abramo e destinati a dare un nuovo essenziale apporto alla nuova storia ed alla nuova civiltà del mondo. Questa idea germogliò attraverso i contatti avuti nel 1956, nel 1957 e nei primi mesi del 1958; con Nasser; con Re Hussein; con Maometto V; con l'F.L.N. algerino; con Ben Gurion; coi dirigenti tunisini; con Gronchi e con Fanfani; col Gen. De Gaulle; e con qualificati rappresentanti della S. Sede: Pio XII fece il suo telegramma di benedizione al Colloquio, proprio cinque giorni avanti la Sua morte. «I problemi mediterranei sono solidali e necessitano di una soluzione unica, solidale; chiami tutti i popoli mediterranei a Firenze e li faccia unire e pacificare a Firenze» mi disse nel 1957 Maometto V sul piazzale Michelangelo, guardando con occhio contemplativo e quasi profetico la bellezza liberatrice, pacificante ed unitiva di Firenze. Accettammo arditamente l'invito e lanciammo la rete!
Organizzammo cioè il Colloquio Mediterraneo (con l'aiuto essenziale degli "Etudes Méditerranées"), convocammo a Firenze per il 4 ottobre 1958, senza discriminazione alcuna e senza esclusione alcuna (invitando tutti, cioè: arabi ed israeliani; francesi ed algerini), i popoli (e gli stati!) di tutto il Mediterraneo. Sarebbero venuti? Algerini e francesi, arabi ed israeliani si sarebbero a Firenze incontrati? I dubbi ci furono: ma la speranza vinse; vinse la fede; vinse la bellezza attrattiva e pacificatrice di Firenze. "Il miracolo della convergenza" infatti avvenne: l'orazione di tutti i monasteri di clausura del mondo che avevamo impegnati per questa grande speranza fu davvero efficace: «quidquid orantes petite et credite quia accipietis et fiet vobis!». I popoli mediterranei salirono tutti alla "seconda Gerusalemme" (come Savonarola chiamava Firenze) e qui si incontrarono (in S. Croce e in Palazzo Vecchio) per parlare di pace ed operare per la pace. Delegazioni "ufficiose" di algerini (del F.L.N.) e di francesi, venne anche l'Ambasciatore, seppure in mezzo a perplessità: ma il Gen. De Gaulle aveva aderito all'iniziativa; di arabi e di israeliani; Marocco, con il Principe Ereditario e con molti ministri; Tunisia, con Bourghiba junior e con Masmudi; Algeria, con Boumengel, Bouteflika, Amrouche ed altri del F.L.N.; Egitto, con l'Ambasciatore Okacha, con Henein; vennero la Siria; la Giordania; il Libano; etc.; e venne Israele, con l'Ambasciatore Fischer e con altri qualificati rappresentanti diplomatici e culturali; e c'erano presenti per l'Italia il Presidente della Repubblica Gronchi e il Presidente del Consiglio (e Ministro degli Esteri) Fanfani.
Il Colloquio fu presieduto dal Principe ered. del Marocco; e vi parteciparono figure "di primo piano", oltre che della politica, dell'economia e della cultura mediterranea: basti ricordare Massignon; Daniélou; Amrouche; oltre a giornalisti (J. Rous; Lacouture; Golan; J. Daniel; Rouleau e altri) della Francia e di tutta l'Europa. I problemi dei popoli del Mediterraneo venivano così posti "globalmente" sui tavoli cinquecenteschi del salone dei 500 e dei 200, in Palazzo Vecchio: ciò che mai prima d'ora aveva potuto aver luogo, era avvenuto: "l'incontro" fra le principali parti in conflitto (arabi ed israeliani; algerini e francesi) era avvenuto. L'intuizione di Maometto V si realizzava: Firenze era così diventata, in certo senso, il centro della speranza storica e politica (ed anche economica: Mattei era presente) dei popoli mediterranei: il discorso della pace mediterranea era effettivamente iniziato. I risultati? La pace algerina prese radice proprio in questo colloquio (De Gaulle con lettera a me personalmente diretta aveva sostenuto il Colloquio) e fiorì qualche anno più tardi ad Evian (il 19 marzo 1962): la distensione franco-tunisina si operò pure al Colloquio: e molto migliorarono, al Colloquio, le relazioni franco-marocchine; anche le relazioni arabo-israeliane videro qualche schiarita (purtroppo senza seguito): Nasser mi disse nel gennaio 1960 quando andai a visitarlo «manderò sempre un mio rappresentante (cioè Okacha) ai colloqui mediterranei».
Ecco la struttura del I° colloquio. Le ripercussioni politiche di esso furono vaste e profonde in tutti i continenti: la stampa del mondo intero seguì con attenzione ed anche con trepidazione questo primo tanto vistoso segno della pace nel Mediterraneo e nel mondo. Ne furono interessati Washington, come Mosca; Parigi e Londra; e tutte le altre capitali dell'Europa e del mondo. Dopo quel I° Colloquio altri ne seguirono: l'azione di Firenze non si affievolì: altre schiarite vennero. Ma poi venne con la tristissima guerra vietnamita la rottura, a tutti i livelli, degli equilibri del mondo, militari politici e culturali: e questa rottura attrasse a sé un'altra tristissima guerra: quella "dei sei giorni". Firenze non si scoraggiò: essa riprese con più energia la sua azione di pace: ci incontrammo subito a Parigi con il rappresentante della Lega Araba e con gli Ambasciatori arabi (specie quello tunisino, Masmudi, che si fece allora pilota dell'azione araba e che ebbe incontri con Fanfani): facendo passi analoghi presso rappresentanti qualificati ed autorevoli del mondo israeliano (specie Goldmann): e in vista di un possibile nuovo incontro fiorentino fummo invitati dalle due parti a visitare tanto Gerusalemme, quanto il Cairo. E questa visita con i passaporti vistati dagli Ambasciatori di Israele e dell'Egitto venne fatta nel Natale del 1967 e nell'Epifania del 1968. Vedemmo rappresentanze politicamente qualificate di Israele (lo stesso Ministro degli esteri Abba Eban) ed al Cairo vedemmo Nasser. Il colloquio con Nasser fu lungo e pieno di grande cordialità e di grande speranza: la nostra tesi era questa - iniziare partendo dalla soluzione del problema di Suez, un negoziato globale ed efficace!
Una nuova schiarita sembrava sorta: ma poi, purtroppo, nuove dannose operazioni militari sul canale fecero scomparire quel raggio di speranza, e due settimane dopo le cose tornarono come prima. Ed intanto emergeva, assumendo contorni politici nuovi, il problema palestinese: Firenze non mancò di essere nuovamente presente per la impostazione e la possibile soluzione di questo problema: lo seguì in tutto il suo evolversi in tutti gli eventi dolorosi in cui esso si manifestò nel corso di questi anni. La tesi fiorentina fu così precisata e pubblicamente enunciata in un discorso tenuto a Gerusalemme: la soluzione del problema palestinese non può essere che politica: il possibile dialogo politico arabo-israeliano non può, ormai (se vuole essere efficace e risolutivo davvero) che essere triangolare: Israele, Palestina e gli altri stati arabi. Questa tesi indicammo epistolarmente anche ad Arafat e di essa parlammo a Firenze anche al Dr. Waec (intermediario di Arafat) alcuni mesi prima della sua tragica fine.
Questa "tesi fiorentina" del triangolo appare ogni giorno più valida: tutti sono in certo modo persuasi che il negoziato e la pace arabo-israeliana passa inevitabilmente da questo triangolo. La speranza di Firenze è perciò sempre viva: Firenze e le sue tesi resta sempre per l'incontro arabo-israeliano come una intramontabile stella di pace che brilla all'orizzonte del cielo mediterraneo: verso di essa si volge sempre, con nostalgia accresciuta (e questo convegno di Cagliari e quello fiorentino dello scorso dicembre lo dimostra) l'attenzione dei popoli del mediterraneo e del mondo.
Ma questa esperienza fiorentina è stata solo empirica di fatto o è stata consapevolmente guidata da una luce teoretica, da un'idea madre, assunta come ipotesi di lavoro? La risposta è positiva: sì, a fondamento e guida di questa azione fiorentina c'è stata e c'è una "ipotesi di lavoro" nella cui validità sempre più crediamo che si articola in tre parti solidalmente collegate fra di loro:
a. La prima, concerne un giudizio scientifico, tecnico e politico su questa presente età apocalittica della storia del mondo;
b. La seconda, concerne la teleologia generale, universale, della storia;
c. La terza, concerne la teleologia specifica della storia mediterranea: della storia, cioè, dei popoli membri della famiglia del loro comune patriarca Abramo.
Per quanto concerne il primo punto, il nostro giudizio è quello stesso che le guide spirituali, culturali, scientifiche e politiche del mondo hanno dato, rinnovandolo ogni giorno, nel corso di questi ventisette anni che ci separano da quel 6 agosto 1945 quando esplose distruggendo Hiroshima la prima bomba atomica! L'atomica ha introdotto in certo senso la storia nella sua età finale. Gunther Anders nel 1961 espresse in modo esatto questa situazione nuova della storia del mondo: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata una nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in una altra Hiroshima: ...Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest'epoca è l'ultima: poiché la sua differenza specifica, la possibilità, cioè, dell'autodistruzione del genere umano, non può avere fine che con la fine stessa». Questa medesima tesi è stata espressa in modo più o meno variato e quasi senza eccezione dai massimi scienziati, analisti e "pensatori" atomici: Einstein, Russell, Oppenheimer, Pauling, Philbert, Kahn, Jaspers, J. Guitton e centinaia di altri. L'ultimo studio sopra la corsa agli armamenti del 1971 di George Hallgarten termina così: «ma se qualcosa non va per il suo verso, e gli Stati Uniti arrivano ad uno scontro diretto con l'Urss, o con una Cina divenuta ormai potenza nucleare, o con entrambi? Allora saranno le armi a decidere; le armi nucleari; e il giorno del giudizio sarà vicino. Ma in fondo non saranno le armi a distruggerci. Le armi sono cieche, e tali rimarranno. Forgiandole l'umanità come l'apprendista stregone, ha evocato lo spettro possente che la minaccia di morte. Ma è lo stesso responsabile di ciò che ha fatto. Sarà sua la colpa, se il mondo dovrà sprofondare in questo olocausto». Lacrimosa dies illa quo resurget ex favilla judicandus homo reus huic ergo parce, Deus!
Il giudizio delle massime guide politiche degli anni '60 è identico: Kennedy lo espresse con la famosa dichiarazione del 25.8.61 all'ONU: «o 10 mila anni di pace o la terra ridotta ad un braciere». E così pure disse Krusciov: e così si espresse nella stessa giornata del 6 agosto 1945, dopo lo scoppio della bomba Gandhi. E questo "giudizio di apocalisse" orientò l'intiera meditazione ed azione di Giovanni XXIII! Nessuna discordanza dunque ci fu su questa valutazione apocalittica fatta dalle guide (spirituali, scientifiche, culturali, politiche) responsabili del mondo: e questa stessa valutazione apocalittica viene rappresentata oggi (dopo le tristi anse del fiume storico operate dalla antistorica ed antiumana guerra vietnamita) oltre che da Paolo VI («la guerra mai più»; «la pace è possibile ed è doverosa») e dagli scienziati atomici e dagli analisti più significativi di questi ultimi anni (per tutti Hallgarton), anche dalle tre massime guide politiche del mondo: Nixon Breznev e Ciu en Lai: questo è, infatti, il senso apocalittico della loro contemporanea affermazione fatta quest'anno a Pechino, Mosca ed Washington: «al negoziato globale non c'è alternativa».
C'è, in verità, un'alternativa: ma è solo quella apocalittica della morte (del genere umano e della terra medesima e, pare, del cosmo): «essere o non essere» (Gunther Anders): «tutto o nulla» (J. Guitton): «o 10 mila anni di pace o la terra ridotta ad un braciere» (Kennedy). Ma la scelta noi (spes contra spem) lo speriamo e lo crediamo! cadrà sul negoziato globale: e perciò, sul "millennio" di fioritura di cui parla l'Apocalisse [XX, ss.]. E qui tocchiamo il secondo punto della "nostra ipotesi di lavoro": quello concernente la teleologia (che è anche teologia!) generale, universale, della storia. Quale? Ecco noi crediamo che alla storia sovrasta un piano, un "progetto": il piano della Provvidenza «che governa il mondo», come Dante dice [Paradiso, XI]. Un piano che essa irreversibilmente svolge e che non può (in certo senso) non trovare attuazione nel mondo! La storia universale è finalizzata da questo "progetto": essa è paragonabile ad un fiume che, nonostante le sue drammatiche anse, va irreversibilmente sotto la spinta di una forza sovrannaturale di grazia verso una foce: verso la foce dell'unità dei popoli (multi unum corpus sumus): dello sradicamento della guerra (come strumento risolutivo dei conflitti fra gli Stati e fra i popoli); del disarmo e della trasformazione delle armi in aratri, in piani cioè di sviluppo (per attuare la giustizia nel mondo; e, perciò, della pace fraterna, universale, da stabilire nell'unica famiglia dei popoli.
Il fiume storico, cioè, va verso la foce della "utopia profetica" di Isaia [II, ss.]: Paolo VI lo sottolineò nella Populorum Progressio: questa utopia di Isaia costituisce l'autentico realismo della storia. A questo finalismo storico, a questa teleologia della storia universale non c'è alternativa, se non quella della distruzione apocalittica oltre che del genere umano, anche del pianeta e del cosmo! Isaia vide lucidamente questo corso irreversibile della storia universale, della storia cioè, collegata, di Israele, di Ismaele e dei popoli di tutta la terra avviati verso la foce della pace universale: "vide" profeticamente "lesse"! il progetto storico di Dio svolgersi irreversibilmente, nonostante tutto (ostacolato ad ogni passo), verso questa foce. Gli studi recenti mettono sempre più in luce questa "scoperta" fondamentale che specifica in modo tanto originale, organico, l'intiero pensiero profetico e l'intiera storiografia profetica di Isaia [cfr. Kaufmann, La Paix universelle dans les Prophetics d'Isaïe, Gerusalemme 1968]. Tutta la storiografia biblica (Antico e N. Testamento) ed anche, in certo senso, coranica è, del resto, animata da questa immensa, invincibile, speranza messianica. Una speranza che si radica in Abramo (spes contra spem); che attraversa tutta la storia di Israele e di Ismaele; Mosè ed i Profeti; perviene sino a Cristo, e che Cristo Risorto, attraverso la Chiesa, lancia nel mondo, per finalizzare la storia di tutti i popoli, sino al termine dei secoli [S. Matteo; Apocalisse XX, ss.]. Unum sint (la Chiesa ed i popoli; S. Giovanni) Unum ovile (S. Giovanni) Questa immensa, soprannaturale, invincibile, speranza biblica ha nonostante tutto e vincendo le terribili resistenze del "nemico" finalizzato la storia di questi duemila anni di storia cristiana: è inutile qui ricordare le storiografie "utopiche" che hanno attraversato questi duemila anni di storia mediterranea, europea e mondiale: da S. Paolo, a S. Giovanni a S. Ireneo, a Gioacchino da Fiore, a S. Francesco, a Dante, a Savonarola, a Campanella, a Moro, e via via sino a Fornari, Gratry, Theilard, Feret e, in certo senso, sino a Pio XII, a Giovanni XXIII, al Concilio ed allo stesso Paolo VI. Essa è così pervenuta di secolo in secolo, di generazione in generazione sino alla soglia di questa età nucleare che, per la prima volta nella storia, pone ogni giorno più al genere umano (agli stati ed ai popoli tutti) l'alternativa finale: o sopravvivere per "1000 anni" [Apocalisse XX, ss.] attraversando le "nuove frontiere" di Isaia [II, ss.] e costituendosi in unità, giustizia e pace; o perire, sprofondando con lo stesso pianeta, nell'abisso senza speranza della catastrofe nucleare!
Ecco il "secondo punto" nella nostra "ipotesi di lavoro": esso è strutturalmente legato al primo, di cui anzi è la premessa: perché questa nuovissima "età finale" della storia ("età nucleare, età apocalittica") va vista ed interpretata in funzione dell'immenso moto di speranza che nonostante tutto discende da Dio e trascina, irreversibilmente ed invincibilmente, verso la "terra di Isaia" la storia del mondo! La trascina, cioè, verso quella unità, giustizia e pace fra tutti i popoli della terra nella quale consiste "il regno messianico" (la regalità di Cristo) sulla terra: "regno" di grazia, di verità, di giustizia e di pace: "regno" che Savonarola indicò ai fiorentini perché consacrassero la loro Repubblica a Cristo Re; un "regno" terrestre che è il termine finale del processo di maturazione civile verso cui la storia è irreversibilmente avviata.
«Lo spirito di Dio fece profetica, a loro insaputa, la parola dei fiorentini quando dichiararono Cristo Re della loro Repubblica; tutte le nazioni riunite fra loro sotto il suo scettro; la materia, dominata dallo spirito nella persona umana e l'universo materiale dominato dall'umanità; questo è il paradiso terrestre, a cui la civiltà mira e da cui spetta alla religione trasferirci nel paradiso celeste, che è regno eterno di Cristo... La civiltà cristiana guida l'uomo sino al paradiso terrestre, là dove il nostro poeta finge che lo abbia accompagnato l'ombra di Virgilio, dopo fattolo pellegrinare in purgatorio» [Fornari, Vita di Cristo, II, cap. XVI]. Questo moto finalizzatore della storia universale che scende da Dio e "trascina i popoli" verso le frontiere di Isaia, può essere efficacemente rappresentato pensando al cammino dei Magi diretti a Betlemme. La stella misteriosa li attrae e li guida: e nonostante gli oscuramenti che si verificano nel corso di questo cammino, unitivo del mondo, giungono a Gerusalemme, la attraversano (superando impensati nuovi "oscuramenti"); e pervengono finalmente a Betlemme dove trovano Cristo ed a Lui offrono, con adorazione, i doni dell'incenso, dell'oro e della mirra [S. Matteo].
Convergenza dei popoli avviati verso "il punto" in cui essi colliguntur et veniunt. Conosco le obiezioni. Utopia? Fantasia? E tuttavia non è facile liberarsi da questa nostra "ipotesi di lavoro" con obiezioni puramente razionali ed hegeliane: l'età atomica, apocalittica, in cui viviamo solleva sempre più questa ipotesi di lavoro sino ai livelli dell'autentica verità storica: quella proprio, che mostra "l'utopia" di ieri come la inevitabile storia di oggi e, più, di domani. In ogni caso, un dubbio si fa sempre più legittimo e crescente: e se questa "ipotesi di lavoro" non fosse affatto "fantastica", non fosse affatto una semplice ipotesi, ma avesse la saldezza di una tesi fondata sulla verità e sui fatti? Comunque: la nostra ipotesi di lavoro a Firenze fu proprio questa: la guerra impossibile: l'unità, la pace e la giustizia fra tutti i popoli inevitabile: il cammino verso le nuove frontiere, nonostante tutto, invincibile e irreversibile.
Potremmo dire con Ciu en Lai interpretando biblicamente questa sua espressione che "la storia, nonostante i suoi flussi e riflussi, va indubitatamente e irreversibilmente non verso le tenebre ma verso la luce" (come Ciu en Lai disse a Nixon, a Pechino, lo scorso febbraio). E biblicamente possiamo, in certo senso, interpretare anche quella "visione messianica" della storia (quella della città senza classi) che domina il pensiero di Marx (Marx è ebreo; il Manifesto non è comprensibile senza l'Esodo) e il pensiero e l'azione di Lenin.
E veniamo al terzo dei punti attorno ai quali si struttura la nostra ipotesi di lavoro: quella, cioè, concernente la teleologia specifica della storia dei popoli mediterranei. Una storia che in certo senso a partire dalla vocazione di Abramo può essere definita come la storia tanto complessa, tanto divisa, drammatica e contraddittoria, della comune famiglia abramitica. Perché questo è certo: che salendo dalla comune radice abramitica l'albero della triplice famiglia monoteista (ebrei, cristiani, musulmani) si è profondamente e solidamente radicata presso tutti i popoli mediterranei e da essi si è, in certo senso, esteso su tutti i popoli, su tutte le civiltà e su tutti i continenti. Questi popoli mediterranei, perciò, hanno, in certo senso, anche se pieni di lacerazioni e di contrasti, un fondo storico comune, un destino spirituale, culturale e politico comune!
La loro "unità" è essenziale ed è in qualche modo quasi una premessa per l'unità della intiera famiglia dei popoli. In questi ultimi decenni ricerche di alto valore hanno cercato e cercano di fare ogni giorno più un'analisi attenta di questo "fondo comune", di questo "destino comune" e di questa "storia comune" della famiglia abramitica abitante lungo le sponde del Mediterraneo. Quando noi, a Firenze, intraprendemmo la nostra esperienza mediterranea l'ipotesi di lavoro che assumemmo per orientare la nostra azione fu questa: nell'età apocalittica (inevitabilmente unitiva e pacificatrice dei popoli di tutta la terra) una delle unità fondamentali da ricostruire, proprio in vista della unità di tutta la famiglia umana, era quella dei popoli della famiglia di Abramo. A questa "unificazione" mira (ci dicemmo) la Provvidenza di Dio! L'unità del mondo, la spiritualità del mondo, il disarmo del mondo, la pace del mondo proprio in questa età apocalittica esigono, ci dicemmo, che le gravi lacerazioni interne della famiglia di Abramo siano eliminate; esigono che questa unità sia composta e che i popoli di questa qualificata famiglia abramitica facciano la pace come dicono Isaia [XIX, 23] e il Corano [III, 2] e si facciano insieme esecutori del grande mandato spirituale, culturale e politico che la storia la Provvidenza! assegna ad essi per la costruzione planetaria della "nuova casa" dei popoli!
Quale mandato? Elevare sul mondo e proprio nella nuova età tecnologica, atomica ed apocalittica la lampada di Dio. Così scrissi a Nasser in una lettera del 22 febbraio 1958 (una lettera preceduta, a partire dal 1956 e seguita, sino alla morte di Nasser, da tante altre lettere riaffermanti tutte la stessa idea). I "valori verticali" di Dio del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe proprio in questa età "materialistica", tecnologica e dissacratrice, inevitabilmente rifioriranno: essi costituiranno l'inevitabile splendore e l'inevitabile volto e corona dell'edificio della civiltà nuova del mondo. Ecco il mandato specifico unito a quello della liberazione da ogni forma di schiavitù sociale che la Provvidenza assegna oggi, in modo specifico, ai popoli mediterranei della famiglia di Abramo: "elevare sul mondo la lampada di Dio". Questa la nostra ipotesi di lavoro che proponemmo a Maometto V, a Nasser, a Bourghiba, alla Direzione algerina (del F.L.N.); che proponemmo alle più qualificate dirigenze culturali e spirituali mussulmane: che proponemmo a Ben Gurion ed a Buber (ed alla più qualificata dirigenza politica e culturale israeliana); che proponemmo a De Gaulle ed a Mendès-France; che proponemmo a Fanfani ed a Mattei, che proponemmo alle più qualificate dirigenze culturali e giornalistiche della Francia e dell'Italia; e che proponemmo pure al Patriarca di Costantinopoli, Athenagora, ed alla Sede Apostolica (sin dal tempo di Pio XII).
A questo punto sorge inevitabile la domanda: nonostante tutto, l'esperienza fiorentina resta valida ancora oggi? Resta sempre valida l'ipotesi di lavoro che l'ha ispirata e diretta? Sempre necessaria per l'unità del mondo la convergenza e l'unità della famiglia abramitica dei popoli mediterranei? La risposta a me sembra tanto chiara: nonostante tutto, questa validità sussiste: l'ipotesi fiorentina appare sempre più un'ipotesi senza alternativa. E infatti: se sono validi "i tre punti" in cui si articola la nostra ipotesi di lavoro, cioè
1) inevitabilità nell'età atomica della soluzione politica, pacifica dei problemi del mondo;
2) unità, giustizia e pace quale inevitabile foce del fiume storico;
3) inevitabile convergenza ed unità dei popoli mediterranei della famiglia abramitica a causa del comune mandato spirituale e storico che ad essi la storia (la Provvidenza!) assegna per l'edificazione della "nuova casa planetaria" del mondo, allora la conseguenza non può essere che questa: sì, quella esperienza e quella ipotesi sono nonostante tutto ancora valide: anzi, oggi più valide di ieri!
Ed allora? Allora non c'è che da riprendere per così dire la strada di Firenze: la strada cioè della convergenza, dell'incontro, che il Profeta Isaia indicò con tanta profetica precisione: «In quel tempo vi sarà una strada dall'Egitto alla Siria e il Siro si recherà in Egitto e l'Egiziano andrà in Siria ed Egitto e Siria serviranno il Signore: in quel tempo Israele sarà terzo con l'Egitto e con l'Assiria, benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore dicendo benedetto l'Egitto, mio popolo, la Siria opera delle mie mani ed Israele, mia eredità» [XIX, 23-25]. La strada che il Corano [III, 64] indica dicendo: «O gente del Libro! Venite a un accordo equo fra noi e voi e di non associare a Lui cosa alcuna, di non sceglierci fra noi padrone che non sia Dio».
Permettete che io finisca con un "sogno" (un "sogno" peraltro senza alternativa): "sognando", cioè, come realizzato il negoziato e come realizzata l'unità, la giustizia e la pace nella triplice famiglia abramitica; come realizzato, cioè, il "sogno unitivo" di Abramo («saranno in te benedette tutte le nazioni della terra»); sognando cioè come diventata storia effettiva dei popoli della famiglia di Abramo e dei popoli dell'intiera famiglia dei popoli, "l'utopia" di Abramo. Cosa si vedrebbe allora? Ecco: si vedrebbe la Terra Santa la terra dei Patriarchi; la terra d'Israele e di Ismaele; la terra di Cristo, di Maria, degli Apostoli; la terra della Chiesa e dei santi diventata visibilmente la terra attrattiva, il centro attrattivo del mondo. E si vedrebbe Gerusalemme diventata come il suo stesso nome dice e come è nel suo stesso destino soprannaturale e storico la capitale non di una sola nazione, ma di tutte le nazioni; la città della pace universale; la città dell'universale adorazione (venite ascendamus). La città verso la quale si vedrebbero ascendere "in pellegrinaggio per adorare" non solo i popoli della famiglia abramitica, ma altresì i popoli di tutta la famiglia umana: «alla sua luce cammineranno le nazioni ed i re della terra porteranno ad essa il loro splendore» [Apocalisse XXI, 24].
Riguardate ora, dall'angolo visuale economico, tecnologico, sociale, politico, gli effetti di questo "sogno realizzato": quale per fermarsi ad essa la massa degli "investimenti" economici che questo afflusso dei popoli permetterebbe? Quali gli effetti sociali, culturali, spirituali, politici, che questo afflusso di intelligenze e di volontà operose produrrebbe? E se passiamo all'Egitto e pensiamo al Cairo? Non diverrebbe davvero la chiave che apre la porta di accesso a tutti gli oceani ed a tutti i continenti? Ed il Nilo? Queste prospettive che sembrano utopiche e non lo sono! le indicai sin dal 1957 ad Hussein, a Nasser, a Maometto V, a Ben Gurion. La pace mediterranea diventerà davvero come una misteriosa, divina "pietra filosofale" che trasforma in oro le cose che tocca. Ed una grande civiltà la nuova civiltà del mondo! avrebbe qui, in Terra Santa e nel Mediterraneo il suo fondamento ed il suo grande punto di genesi. è un sogno? è vero: ma questa età apocalittica in cui viviamo e nel cui interno sempre più ci inoltriamo, è appunto "l'età del sogni (l'immaginazione al potere) l'età dell'utopia": l'età nella quale appunto l'utopia diventa storia; il sogno diventa realtà! Lasciatemi, dunque, finire con questo sogno! Lasciate che io veda in questa luce lo scopo ultimo di questo Convegno mediterraneo di Cagliari: un Convegno che riprende la tesi di Firenze e che fa rifiorire il "sogno di Abramo", la speranza di Abramo; un Convegno che preannunzia quasi profeticamente pel 1973 l'alba di una nuova utopia storica di grazia e di pace per la Terra Santa, per Gerusalemme, per tutto il Mediterraneo, per i popoli di Abramo e per i popoli (a partire da quello vietnamita) del mondo intiero! Spes contra spem! gennaio 1973