Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:15
L'emigrazione è una forza sociale che può contribuire alla politicizzazione di indicatori etnici e perciò all'emergere di conflitti etnici. Questo è vero sia per l'emigrazione all'interno dei confini nazionali sia per quella tra diversi paesi. Ogni emigrazione, a prescindere dalla sua causa, produce una tensione sociale perché implica un cambiamento socio-strutturale e di conseguenza solleva la questione della redistribuzione. Questo fenomeno si verifica anche in società culturalmente omogenee, ad esempio quando il rapido spostamento di una popolazione da zone rurali a zone urbane o altre forme di cambiamenti provocati dall'economia turbano i tradizionali modelli d'insediamento. La tensione sociale come risultato di spostamenti su larga scala di popolazioni indotti dalla guerra è particolarmente nota; casi esemplificativi sono rappresentati dai rifugiati tedeschi provenienti dai territori annessi all'Unione Sovietica ed alla Polonia alla fine della seconda guerra mondiale e dai nazionalisti cinesi che fuggirono a Formosa (Taiwan) dopo la vittoria comunista nella Cina continentale. Anche quando i tedeschi cercarono rifugio tra i tedeschi e i cinesi tra i cinesi, in altre parole, in assenza di divisioni culturali ed etniche, gli interessi dei rifugiati si rivelarono diversi da quelli dei residenti ed i gruppi impiegarono anni per integrarsi socialmente ed economicamente. Nelle società con diversi gruppi etnici, religiosi e linguistici, le conseguenze dell'emigrazione interna sono incomparabilmente più esplosive. L'Emergere dei Conflitti Etnici Anche se gruppi di questo tipo possono aver coesistito pacificamente per secoli, l'avvento dello sviluppo economico moderno rende obsoleta la tradizionale divisione del lavoro su base etnica e scatena una fuga dalla campagna ed una rapida urbanizzazione. Membri di diversi gruppi ora interagiscono come concorrenti. Di regola questa concorrenza non viene percepita come una concorrenza tra individui singoli ma tra gruppi etnici. Raramente gli individui attribuiscono un fallimento a loro mancanze personali, piuttosto alla discriminazione contro i loro gruppi o in favore di altri. è d'aiuto, per sopravvivere a questa concorrenza, avere il supporto di un gruppo. Perciò la creazione di blocchi etnici è un'espressione perfettamente razionale dell'aggregazione per interesse. Questo risulta vero, in particolare, quando l'accesso al potere politico è cruciale per l'assegnazione di opportunità, cioè quando l'appartenenza etnica si accompagna a privilegio e discriminazione. Le crisi sorgono anche quando gli spostamenti demografici portano la gente ad interrogarsi sulla distribuzione del potere tra i gruppi etnici. I gruppi più critici sono da una parte gli strati più bassi dei gruppi precedentemente dominanti, nel momento in cui affrontano il declino sociale, e dall'altra le élites ambiziose dei gruppi precedentemente esclusi dal potere. Entrambi tendono a utilizzare la mobilitazione etnica per promuovere i loro interessi. Ciò che in una società omogenea rimane un conflitto sociale in una società pluralistica può degenerare rapidamente in un conflitto etnico. Mentre il conflitto sociale riguarda in primo luogo la distribuzione di beni negoziabili, il conflitto etnico ruota attorno a principi indivisibili ed ai loro simboli. è più facile fare compromessi nel primo piuttosto che nel secondo caso. Meccanismi di Regolazione Esistono esempi storici e contemporanei di risoluzioni pacifiche di conflitti etnici all'interno di uno Stato. Sono particolarmente comuni due forme di risoluzioni di conflitti: democrazia consociativa (consociational democracy), nella quale i diversi gruppi condividono il potere ed i suoi benefici sulla base della proporzionalità o della parità, e la democrazia aperta (open democracy), nella quale il privilegio è sciolto dall'etnia; tutte le etnie, le religioni e le lingue sono trattate ugualmente davanti alla legge e la loro espressione pratica è lasciata all'autonomia dei gruppi coinvolti, fatto che riduce la loro rilevanza come oggetti di conflitto. La consociazione, mentre regola pacificamente la coesistenza tra i differenti gruppi, istituzionalizza politicamente e mantiene le differenze fra i gruppi; la democrazia aperta invece depoliticizza queste differenze. Entrambe le forme di risoluzione dei conflitti rispettano i criteri democratici e hanno superato la prova del tempo in diversi paesi. Esempi di democrazie consociative di successo sono il Belgio e la Svizzera; due casi un po' ammaccati, ma alla fine funzionanti sono la Malaysia e il Libano. L'esempio più notevole di una democrazia multietnica aperta che funziona è l'India, di gran lunga la democrazia più popolosa nel mondo. Anche il Sud Africa è riuscito a depoliticizzare il confronto etnico da più di un decennio. In breve: anche se il conflitto etnico può risultare più difficile da controllare rispetto al conflitto sociale, gli esempi sopra menzionati attestano che sia la condivisione del potere fra gruppi etnici sia la democrazia aperta possono addomesticare o depoliticizzare il confronto etnico. Le Migrazioni Transnazionali La migrazione transnazionale, al pari di quella interna, non porta necessariamente ed automaticamente al conflitto etnico, com'è dimostrato dai classici paesi di immigrazione. I processi d'integrazione non sono mai stati privi di tensioni; l'integrazione, come l'immigrazione, è sempre avvenuta ad ondate e nel corso di molti decenni e l'immigrazione ancora in atto continua a creare nuove sfide. Gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia dimostrano che uguali diritti in una democrazia aperta sono basi sufficienti per una coesistenza pacifica fra gruppi molto differenti di vecchi e nuovi immigrati. Dall'altra parte, i processi di migrazione transnazionale hanno anche scatenato conflitti estremi. Nelle Figi il potere coloniale ha importato lavoratori indiani insieme alle loro famiglie; in poche generazioni gli indiani hanno superato in numero la popolazione locale, che insiste nel mantenere i tradizionali privilegi politici ed economici, se necessario anche attraverso la forza militare. La coesistenza rimane precaria. In anni recenti, la Costa d'Avorio si è trasformata in un campo di battaglia tra i militari armati appartenenti alla popolazione locale e gli immigrati che da generazioni arrivano dai paesi vicini: la prima aperta "guerra dei lavoratori ospiti". Numerosi interventi internazionali hanno ottenuto poco più che una serie di cessate il fuoco temporanei. L'immigrazione è anche uno dei più importanti fattori nelle guerre che dal 1996 interessano il Congo: coloro che sono emigrati per cause economiche ed i rifugiati di guerra hanno portato in Congo i conflitti fra Hutu e Tutsi che avvenivano in Ruanda e Burundi; in Congo il bilancio delle vittime è stato di quattro o cinque volte superiore a quello del genocidio in Ruanda. Il Ruanda e l'Uganda si servono dei conflitti anche per giustificare interventi ulteriori e per saccheggiare sistematicamente le materie prime del loro vicino. Anche qui l'intervento internazionale ha ottenuto poco più che instabili "cessate il fuoco". Comuni sono in questi ed altri esempi i non voluti, ma inevitabili costi sociali di processi di migrazione transnazionale innescati senza valutarne le conseguenze. Da circa un secolo, gli emigranti si sono diretti verso l'Europa occidentale. Questi forti processi di emigrazione differiscono da quelli avvenuti verso i paesi di immigrazione classica in due punti fondamentali. Il primo è demografico: gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia attiravano giovani immigrati verso giovani società. Anche l'Europa occidentale attira giovani immigrati, ma in paesi che stanno invecchiando. Questi paesi offrono molti vantaggi, ma l'apertura all'innovazione non è uno di questi: di regola le persone più anziane resistono al cambiamento nel loro ambiente sociale. Sebbene siano assolutamente necessari per puntellare i sistemi di previdenza sociale, gli immigrati vengono visti con avversione perché sono la personificazione di cambiamenti sgraditi. La seconda differenza, ancora più pesante, è politica: fino a pochissimo tempo fa, i paesi dell'Europa occidentale in generale - e la Germania in particolare - rifiutavano di accettare il fatto di essere paesi meta di immigrazione. Un paese che non vuole essere meta d'immigrazione non progetterà una politica dell'immigrazione. Le conseguenze di un'immigrazione incontrollata e non pianificata sono evidenti in tutti i paesi europei: xenofobia fra gli autoctoni meno scolarizzati e vulnerabili economicamente, crescita dei partiti populisti e isolamento culturale autoimposto da parte degli immigrati stessi, e dei loro figli nati in Europa in particolare, in risposta a quello che viene percepito come un rifiuto da parte della società maggioritaria. Molti governi europei sono stati obbligati a riflettere sull'importanza di politiche di integrazione solo dall'urgente necessità di confrontarsi con queste conseguenze, in vista dei loro stessi interessi. Ridurre il Conflitto Potenziale Si dovrebbe porre attenzione nel non sovraestimare il conflitto potenziale di cui la migrazione potrebbe essere portatrice in Europa: non esiste nessun paese in cui le condizioni assomiglino anche solo vagamente alla situazione nelle Figi, nella Costa d'Avorio o in Congo o alle condizioni che hanno caratterizzato le passate migrazioni interne, affrontate con successo da tutti i paesi europei. Normalmente la migrazione transnazionale è meno insidiosa della migrazione interna. Perché? Generalmente le persone che si spostano in un paese straniero sono disposte a temperare la loro cultura e farne un fatto privato, cioè sono più desiderose di integrarsi rispetto agli emigranti interni. La storia dei paesi caratterizzati da immigrazione classica mostra che nonostante gli immigrati formino all'inizio delle "società parallele", se la società di maggioranza è aperta all'integrazione, essi modificheranno gradualmente gran parte del loro comportamento tradizionale, impareranno le lingue del loro nuovo paese e posto di lavoro, prima di perdere le loro. Nel giro di poche generazioni, tutto ciò che la maggior parte delle famiglie emigrate conservano sono la cucina tradizionale e soprattutto la religione. Se quest'ultima prescrive l'endogamia religiosa, ci saranno pochi matrimoni con persone di altre religioni per diverse generazioni, com'è successo ancora, appena due generazioni fa, fra gli emigrati interni nelle società con confessioni miste d'Europa. Insieme all'adattabilità degli emigrati internazionali, un altro fattore facilita le politiche di integrazione. Oggi gli immigrati rappresentano una significativa percentuale di popolazione nella maggior parte dei paesi europei, ma da nessuna parte si avvicinano ad essere la maggioranza. Per il futuro prossimo la maggioranza della popolazione avrà il monopolio sulle politiche a venire: essi possono decidere la forma di coesistenza. è certo che se questa maggioranza fallirà nell'usare il suo potere per strutturare politiche concrete, a lungo termine rischierà di perderlo. In Europa l'inattività politica minaccia l'integrazione in due aree in particolare: economia ed educazione. All'inizio, l'emigrazione internazionale occupa i posti di lavoro che le persone locali rifiutano. La conseguenza è una divisione etnica non equa del lavoro che può condurre ad una compartimentazione etnica e alla fine ad una politicizzazione. L'unico modo per opporsi a questo sviluppo è dare ai figli degli immigrati opportunità d'educazione e specificamente d'educazione professionale. Il laissez-faire nelle politiche dell'educazione per gli immigrati è spesso presentato come tolleranza per la loro eredità culturale, ma in effetti è un pretesto per giustificare l'indifferenza e per la mancanza di disponibilità a spiegare agli elettori la necessità di maggiori spese per l'educazione degli "stranieri". Le persone che si comportano in questo modo hanno la responsabilità della crescita della xenofobia tra gli autoctoni e della crescente militanza etnica tra gli alloctoni di terza generazione che si sentono esclusi dalla società. Considerazioni Normative L'ideale normativo sull'integrazione degli immigrati è la completa assimilazione nella società e nella cultura del paese ospite; la Francia del diciannovesimo secolo ne è un esempio valido. Ci sono tre condizioni per questo tipo d'assimilazione: la società di maggioranza deve essere disposta ad accettare i nuovi arrivati e a trattarli come eguali; deve trovarsi nella condizione di fornire vantaggi economici a chi si assimila; infine i nuovi cittadini devono essere disposti a rinunciare alla loro originale identità culturale. Di regola, la terza condizione si verifica se le prime due sono rispettate. Molte società con immigrati sono soddisfatte anche con meno che la completa assimilazione. Esse accettano il persistere di distinzioni culturali se gli immigrati accettano i valori fondamentali e l'ordine costituzionale del paese ospite. Gli immigrati dovrebbero essere soddisfatti di questa forma di integrazione differenziata, perché essa offre l'opportunità di mantenere le tradizioni senza rinunciare all'uguaglianza civile. In una o due generazioni questo può portare alla completa assimilazione. In ogni caso, perché avvenga l'integrazione è cruciale che la maggioranza della società non si definisca in termini etnici o, per dirla più provocatoriamente, in termini zoologici.