L’imperativo morale di fare qualcosa per difendere il proprio popolo dalle atrocità commesse da regimi autoritari: questa la molla che spinse nel 2011 Sam Najjar, giovane di padre libico e mamma irlandese a lasciare la vita agiata e “integrata” a Dublino per combattere prima in Libia poi in Siria. Un’esperienza singolare nel fenomeno non uniforme dei foreign fighters che oggi coinvolge centinaia di giovani europei, mossi da ragioni diverse.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:25
Non fatica Sam Najjar, 35 anni, di origini libico-irlandesi, a raccontare la sua storia di foreign fighter, il viaggio di andata e ritorno. Lo muove l’intento di spiegare cosa spinge un giovane a lasciare il suo ambiente “occidentale” per partire per una guerra lontana e poi, dopo l’immersione nella violenza, a ritornare a casa. Per quanto la sua esperienza resti singolare, getta una luce su quel che muove tanti altri come lui. Nato e cresciuto a Dublino in una famiglia musulmana, il padre libico e la madre irlandese, tra le prime donne a convertirsi all’Islam nel suo Paese, Sam è stato educato al rispetto dei valori religiosi, ma senza particolari fondamentalismi. Tanto che una volta cresciuto, si è allontanato dalla pratica religiosa, come tanti dei suoi amici, anteponendo altri interessi. Ma a un certo punto il legame con la patria lontana del padre, la Libia, ha giocato un ruolo decisivo.
«Avevo 9 anni quando sono stato per la prima volta in Libia, ero piccolo e molto impressionabile. Ho imparato in fretta l’arabo, in sei mesi circa, cosa che mi ha permesso di entrare in grande empatia con il Paese e con quelli che, come me, avevano origini diverse. Dopo questo primo soggiorno, sono tornato a Dublino dove o trascorso tutta la mia adolescenza. È stato allora, nel mio viaggio da adulto, che ho avuto la chiara percezione di cosa volesse dire vivere sotto una dittatura. All’epoca c’era l’embargo e ho potuto vedere cos’erano le punizioni collettive di Gheddafi. Dopo due anni sono tornato a Dublino, dove ho vissuto normalmente, lasciandomi tutto alle spalle; non ero nemmeno più praticante, ho vissuto la mia vita e ho conseguito una laurea in informatica, perché l’Irlanda in quegli anni stava fiorendo nel settore dei computer».
E poi le primavere arabe…
«Poi è arrivato il 2011: quell’anno ha offerto a me la possibilità di redimermi dopo anni in cui avevo vissuto senza combinare niente, e alla Libia l’occasione di provare a risolvere i suoi problemi. Per mesi ho seguito i fatti alla televisione e mi preoccupavo molto perché sapevo quello che il regime era in grado di fare, come poteva uccidere moltissimi innocenti. Ciò che mi colpì di più fu l’intervento dei mercenari serbi volati in Libia, stipendiati da Gheddafi per combattere in difesa della dittatura. Non avevo studiato molto la storia e non conoscevo i meccanismi di un intervento armato. Ma quando scoprii quanti mercenari pagati con denaro, ma anche droghe e alcol, combattevano nei nostri villaggi, avvenne in me una svolta. Era troppo da sopportare, non potevo più stare fermo davanti alle atrocità di cui riferivano i telegiornali. Ricordo di aver fatto un passo indietro e di aver detto: “I miei amici sono lì. Devo fare qualcosa! Vado!”. Dovevo lasciare tutto e partire. Era il richiamo della patria, dovevo combattere le ingiustizie. Ero disponibile a svolgere qualsiasi servizio, mettere a disposizione la mia conoscenza dell’inglese per trattare con i media, occuparmi della distribuzione dei beni alimentari, fino ad usare le armi».
Dall’ideale al reale: quando è arrivato lì, al fronte, cos’è accaduto?
«Quando arrivi lì affondi in qualcosa di totalmente nuovo. In un conflitto militare sei nudo, indossi i tuoi vestiti ma è come se fossi nudo: non hai armi e non sei addestrato. Sono andato, mi sono unito a una brigata di cui faceva parte mio cognato e con loro mi sono addestrato per mesi. In questo tipo di addestramento sei subito buttato nel conflitto, perché è il miglior modo per imparare. Così ad esempio ho imparato molto sul linguaggio del corpo dagli interrogatori. Dopo un paio di mesi ero in battaglia e ci sono rimasto otto mesi, a partire dal giugno 2011. Quando siamo arrivati alle porte di Tripoli per liberare la città (ero con quattrocento uomini circa), abbiamo capito la portata del conflitto, ma anche le cose stavano già peggiorando. Poi qualche tempo dopo decisi di andare in Siria, unirmi ai gruppi ribelli contro Assad».
Nella decisione di partire quanto influì la sua educazione musulmana?
«Sia il mio viaggio in Libia che quello successivo in Siria non avevano nessun tipo di sfondo religioso. Io e migliaia di altri uomini come me siamo partiti per spirito patriottico, non per ragioni religiose. Sono andato in Siria, con altre brigate libiche, per portare quello che avevamo imparato dalla rivoluzione nel nostro Paese: non era una guerra “normale”, ma una rivoluzione e andava perciò combattuta come tale. Per questo motivo siamo partiti per il nord della Siria. Volevo vedere il popolo siriano libero dalla dittatura. Questo il movente, non la religione».
Quale il suo rapporto con la pratica della violenza?
«Ritengo la violenza il “male necessario”. Molte persone diventano violente perché la violenza si presenta alla loro porta, è una reazione necessaria. ISIS non rappresenta l’Islam, è una deriva pericolosa. Nel 2012 quando sono arrivato in Siria, ISIS non era ancora coinvolto a pieno titolo nel conflitto, ma iniziava a reclutare i giovani. Io credo che sia accaduto questo a molti dei combattenti, come insegnano alcune storie personali conosciute: da laici e liberali, passando attraverso l’esperienza drammatica della guerra, diventano religiosi e fanatici. Perché se ti trovi in una brutta situazione come la guerra, sei in pericolo e senti la gente parlare di un aldilà, in fondo vuoi sentirti in qualche modo in pace e inizi a pensare che forse potrebbero avere ragione. Se hai una fede di qualsiasi tipo e ti trovi in una situazione in cui la tua vita è a rischio, vuoi essere almeno dalla parte dei buoni. Per questo le persone diventano religiose una volta arrivate lì. ISIS è diventato attraente perché prende uomini vulnerabili dai Paesi in conflitto e dà loro dei compagni e degli strumenti per difendersi in un luogo che assomiglia al più terribile dei film horror. La percentuale delle persone che parte già con uno scopo fondamentalista è molto bassa, ma estremisti lo diventano tutti dopo. È difficile da spiegare, ma quando ti trovi lì sei talmente spaventato che non puoi fare altro che pensare di essere lì per una buona causa. Non sai chi sono i tuoi amici e non conosci i tuoi nemici, da combattente straniero non conosci neanche il Paese e devi stare attento perché le dinamiche sono diverse, non sei a casa tua, potresti essere venduto, rapito. Il punto è fare attenzione: non si può definire tutti con la stessa etichetta, io stesso sono stato etichettato come jihadista da un giornalista italiano. Ma non lo sono!».
Ha avuto problemi quando è tornato a casa? Come è stato accolto?
«Anche questo è molto interessante, perché lascia intendere come sono volubili i sistemi mediatici e l’opinione pubblica. Nel 2012 noi che avevamo combattuto le rivoluzioni eravamo considerati degli eroi, anche dai media occidentali. Quando ero in Siria non c’era ISIS, c’era ancora la rivoluzione. Ma adesso tutto è cambiato: c’è una guerra in Siria oggi, totalmente diversa da tre anni fa. Oggi non potrei mai andarci, non potrei neppure combattere dalla stessa parte in cui ho combattuto nel 2012, perché sarei arrestato una volta tornato in Occidente».