Nel più popoloso Paese musulmano del mondo, i leader delle organizzazioni religiose spiegano perché non sono molti i giovani a partire per i fronti della Siria e dell’Iraq. I timori di una radicalizzazione e di nuovi reclutamenti sono però concreti
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:46:04
Giacarta. Il ministro sorridente in maniche di camicia mostra slide in PowerPoint in una sala da banchetto. Il catering serve cattivo caffè, zuppa di lenticchie, ogni genere di curry e cassava fritta. Da febbraio, ogni mese Luhut Binsar Panjaitan, ministro indonesiano per gli Affari politici, giuridici e della sicurezza, invita la stampa locale e straniera a una colazione per fare il punto sulla lotta al terrorismo.
Giacarta è stata colpita nel gennaio del 2016, dopo anni di calma, da un attentato che ha fatto otto morti – tra cui i quattro attentatori – in un centro commerciale della capitale. L’attacco ha sancito l’ingresso dello Stato Islamico nel Sud-est asiatico. Sono circa 300, spiega il ministro, gli indonesiani che sarebbero partiti per il fronte del jihad siriano: il numero, se paragonato alla popolazione islamica di 200 milioni (l’Indonesia è il più popoloso Paese musulmano al mondo), è basso. Soltanto dalla piccola Tunisia sarebbero partiti 3.000 uomini.
Luhut, seguendo le sue slide, racconta gli sviluppi della guerra a Poso, nell’Isola di Sulawesi. Lì, le forze governative combattono una guerra contro gli uomini di Santoso, il ricercato numero uno tra i terroristi indonesiani, che più che un jihadista che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico ha l’aria di un sandinista fuori tempo massimo. L’esercito e le forze speciali hanno ristretto il campo di ricerca a una zona di 500 chilometri quadrati, spiega il ministro. E ancora:
«Avvieremo programmi di deradicalizzazione nei villaggi. Manderemo nella zona maestri e collaboreremo su programmi di insegnamento con organizzazioni come la Muhammadiya e Nahdlatul Ulama»
Muhammadiya e Nahdlatul Ulama
La Muhammadiya è la seconda organizzazione islamica sunnita in Indonesia: afferma di avere circa 29 milioni di aderenti. Nata nel 1912, è considerato un movimento riformista o modernista: seguendo gli insegnamenti dell’egiziano Muhammad ‘Abduh, vissuto al Cairo alla fine del XIX secolo, la Muhammadiya predica una purificazione della fede e un ritorno all’Islam non intaccato da tradizioni e pratiche locali, mette l’accento sul senso individuale di responsabilità morale, su un’interpretazione del Corano e degli Hadīth – i detti del Profeta dell’Islam – personale e non filtrata dagli ulema, gli esperti in materia di religione. Pone enorme attenzione all’istruzione moderna, sul modello occidentale. In Indonesia, gestisce migliaia di istituti di insegnamento superiore, non soltanto religioso, dai licei alle università.
Nahdlatul Ulama, “la Rinascita degli ulama”, o NU, è nata invece nel 1926 in reazione al rafforzarsi della corrente modernista e al propagarsi nel mondo islamico del wahhabismo saudita. I kyai – ulema – guide delle antiche scuole religiose indonesiane, pesantren, seguono un Islam tradizionale, basato non sull’interpretazione individuale, ma su un bagaglio di scritti classici di ulema mediorientali e indonesiani. Il movimento, a differenza della Muhammadiya, abbraccia le tradizioni pre-islamiche e il sufismo nella forma propugnata dal teologo e giurista Abū Hāmid al-Ghazālī (m. 1111). Se in passato la Muhammadiya rappresentava l’élite intellettuale dei centri urbani, e NU la società più rurale dell’arcipelago, oggi questa dicotomia si è persa. NU sostiene di avere circa 50 milioni di affiliati.
«Bismillah», nel nome di Dio. La breve lezione della dottoressa Ruhaini Dzuhayatin, vicerettore degli affari studenteschi all’Università Islamica Statale di Yogyakarta, inizia così. Seduta sotto la foto del presidente indonesiano Joko “Jokowi” Widodo, spiega a un gruppo di studenti, in prevalenza ragazze dai veli colorati, le opportunità di studio all’estero: Italia, Canada, Egitto, Qatar... A pochi passi dall’aula, studenti e studentesse con i loro MacBook hanno abbandonato le infradito di gomma sui gradini della moderna moschea, che usano come sala studio, seduti per terra nella penombra. Ruhaini ha una spiegazione aneddotica ma efficace sulla differenza tra le due grandi organizzazioni che danno forma all’Islam indonesiano. «Una volta, era possibile riconoscere un membro della Muhammadiya da come si vestiva: abiti occidentali invece del sarong tradizionale adottato da NU», il largo taglio di cotone colorato che, allacciato attorno alla vita cade fino alle caviglie.
«I membri della Muhammadiya erano come i protestanti: il loro obiettivo era quello di individualizzare l’Islam e riportarlo all’elemento fondamentale della relazione tra l’individuo e Dio. La sostanza: preghi, e questo è abbastanza. Poi, vai avanti con la tua vita. Facevano parte di quella borghesia mercantile che non aveva tempo di stare in moschea: dopo la preghiera doveva velocemente riaprire la bottega, al contrario di una società agricola, con i tempi più dilatati, e più a contatto con le antiche tradizioni»
A differenza di movimenti del mondo arabo come i Fratelli musulmani, le due organizzazioni si considerano espressioni della società civile e non hanno mai trasformato la loro presenza capillare nell’arcipelago in velleità partitiche.
Alla ricerca di nuovi estremisti
Oggi, i vertici delle due organizzazioni sono preoccupati dal fenomeno del reclutamento da parte di gruppi estremisti come lo Stato Islamico, e sono interpellati dal governo per diventare parte di una soluzione che non può essere soltanto militare. Deve inventarsi anche una narrativa alternativa. Le immagini sono quelle ormai tristemente familiari: uomini incappucciati di nero, armati, con gli stendardi dello Stato Islamico, giustiziano i loro prigionieri. La colonna sonora non è però quella militaresca dei cori a cappella con cui l’Isis accompagna la sua propaganda di morte. Il ritmo di un inno giavanese introduce le parole di uno dei leader di NU, Mustofa Bisri:
«...Invitiamo gli altri a unirsi a noi nel lanciare una rivoluzione mentale per riformulare la nostra intera comprensione del mondo»
È il trailer di un film di 90 minuti uscito dopo l’attacco di Giacarta di gennaio, in cui diversi uomini di religione decostruiscono le interpretazioni ultra-letteraliste del Corano propagandate online dallo Stato Islamico. Lo fanno sottolineando il carattere “indonesiano” dell’Islam locale, ricordando gli insegnamenti dei Wali Songo, i “nove santi”, maestri sufi arrivati nell’isola di Giava all’inizio del XV secolo, cui i musulmani del Paese attribuiscono la diffusione dell’Islam nell’arcipelago, attraverso un approccio spirituale (e in parte sincretico) che non avrebbe sollevato la diffidenza degli altri culti preesistenti: dall’animismo all’Induismo e al Buddhismo.
«Dall’Indonesia, una sfida islamica all’ideologia dello Stato Islamico», ha titolato il New York Times dopo l’attentato di gennaio a Giacarta e la diffusione del film, intitolato La Grazia Divina dell’Islam delle Indie dell’Est. Il video, ha scritto il giornale, è la prima mossa globale – è stato tradotto in arabo e inglese – di una campagna di Nahdlatul Ulama. Indossa il peçi – il tradizionale copricapo di velluto nero a forma di cono tronco che portano gli uomini nell’arcipelago – e una camicia batik, Yahya Cholil Staquf, segretario generale del Consiglio Supremo di NU. All’entrata dell’edificio, un palazzone stretto tra i molti centri commerciali di Giacarta e circondato dai baracchini dei venditori ambulanti, una fila di cartelloni verdi con le immagini dei sorridenti leader dell’organizzazione accoglie il visitatore.
L’operazione di PR di Islam Nusantara
Staquf gestisce quella che non esita a chiamare una campagna di contro-informazione con obiettivi globali, che per ora ha portato alla creazione di un’organizzazione non profit, Bayt ar-Rahman, a Winston-Salem in Nord Carolina, e a un progetto con l’università di Vienna – il Vienna Observatory for Applied Research on Radicalism and Extremism – entrambi tesi a promuovere un’ideologia di Islam tollerante, non violento e molto indonesiano. Islam Nusantara, Islam dell’arcipelago, è il brand con cui è stata etichettata la campagna, cui è sensibile lo stesso governo.
«Seguiamo l’Islam sunnita – spiega Staquf – ma il termine sunnita è stato confiscato dal wahhabismo (movimento rigorista nato nel XVIII secolo nella penisola arabica, NdR). Il clero wahhabita pretende di rappresentare il vero sunnismo, cercando d’imporre la propria visione sul resto dei musulmani. Ma il sunnismo che seguiamo qui è quello che tiene in grande considerazione la dimensione culturale, locale, storica: il contesto»
NU è nato in risposta al propagarsi di un wahhabismo che oggi i leader della più vasta organizzazione islamica indonesiana mettono esplicitamente in correlazione con il terrorismo. Sostiene Staquf che la lotta contro il wahhabismo sia “tradizione” di NU sin dal 1926: «Finché abbiamo capito che non possiamo più soltanto combatterlo in Indonesia. Abbiamo imparato che la minaccia è globale e che per questo occorre un approccio globale. Questo è quello che abbiamo iniziato a fare oggi. Mi è stato assegnato il compito di creare contatti e cercare cooperazione all’estero. La contro-narrazione da noi esiste già: la insegniamo nella nostra tradizione. Quello di cui abbiamo bisogno è portarla fuori, in modo che il mondo ne prenda coscienza, che sappia che c’è altro all’infuori dello Stato Islamico e del wahhabismo».
Per uno come Staquf, i colleghi della Muhammadiya a causa del loro “purismo” sono più a rischio di contaminazione wahhabita, benché, spiega, anche loro siano sempre più preoccupati dalle influenze straniere sull’Islam locale. L’ex leader carismatico della Muhammadiya, Din Syamsuddin, sostiene che in Indonesia ci sia chi è sensibile a influenze wahhabite, e menziona gruppi come Hizb ut-Tahrir. «Ci sono alcuni musulmani interessati a diffondere un Islam “purificato” non soltanto nei campi della fede e del rito, ma anche della vita sociale, come nel modo di vestirsi, insomma più salafita, mentre per noi la vita sociale rimane area di creatività. Questo può creare un conflitto di idee, soprattutto se chi le propone sono fanatici che pensano di rappresentare la verità assoluta e hanno la tendenza a etichettare gli altri come infedeli. E a promuovere una lettura e comprensione dei testi più letterale possibile».
Il nemico comune
I leader religiosi temono che gli estremisti possano avere un influsso sulle giovani generazioni. Lo dicono anche pubblicamente, ci ha spiegato padre Magnis Suseno, studioso gesuita tedesco, da decenni nel Paese, a capo della Driyarkara School of Philosophy, un piccolo e ordinato campus universitario in un quartiere residenziale fuori dall’affollata concitazione del centro di Giacarta.
«Se in passato le relazioni tra le due maggiori organizzazioni islamiche non erano buone, ora hanno un nemico comune che le avvicina: gli estremisti. Puntano dunque su un Islam indonesiano che deve essere anche nazionalista. I veri fondamentalisti sono infatti puri ideologi, ecco perché sono pericolosi»
«Stiamo facendo un passo oltre la contro-narrazione: stiamo facendo “contro-identità”». Così racconta Yenny Wahid, seduta in un caffè di Giacarta che potresti essere a New York o Londra. Lei, la figlia di uno dei leader più riformatori di NU, presidente indonesiano dal 1999 al 2011, Abdurrahman Wahid, è ora a capo dell’istituto Wahid, centro di ricerca sull’Islam. Ha all’attivo programmi di deradicalizzazione che coinvolgono anche ex terroristi. Con un paio di jeans attillati gialli, il velo di pizzo lilla appena appoggiato sui capelli neri, in un perfetto inglese rifinito ad Harvard spiega perché Islam Nusantara è «una mossa geniale»:
«Non c’era un’etichetta prima. Fornisce una piattaforma per l’immaginazione. Il principio base è esportabile: mitigare i testi sacri attraverso l’istruzione»
«Sta diventando però difficile farlo - ammette - perché gli estremisti usano approcci diretti, o è bianco o è nero, soprattutto attraverso i social media. Ai moderati serve più spazio per contro-argomentare».
Secondo molti leader religiosi, la controinformazione in Indonesia nasce già sui banchi di scuola: nelle oltre 40.000 pesantren, i convitti religiosi per ragazze e ragazze tra i 12 e i 17 anni disseminati nel Paese, istituzione prevalentemente rurale e in genere gestita da Nahdlatul Ulama, o nelle scuole superiori di altre organizzazioni. I curricula religiosi si armonizzano con quelli del ministero degli Affari religiosi governativo e per l’istruzione generalista con quelli dello Stato. Nel tardo pomeriggio, nella pesantren Asshiddiqiyah del quartiere Kebon Jeruk di Giacarta, si alza l’esitante recitazione del Corano salmodiato da un gruppo di giovani studenti, zucchetto bianco sulla testa e seduti a terra nella moschea della scuola, nel mezzo di un vasto cortile circondato da quattro piani di aule e zone notte, separate tra uomini e donne. Un cartello spiega alle giovani quali sono i dress-code islamicamente corretti: niente bluse troppo scollate, niente t-shirt a maniche corte, un velo che copra il capo.
Qui, spiega Muhammaed Ridwan Shafi, responsabile del dipartimento di lingua inglese, la religione si studia sui cosiddetti Kitab Kuning, libri gialli in indonesiano, per il colore della carta su cui erano originalmente stampati: il sapere arrivato codificato dal mondo islamico arabo e mediorientale. Il kyai incaricato della scuola, dove gli studenti vivono, insegna il tafsīr, l’interpretazione del Corano, ed è durante queste lezioni che «cerchiamo di dare ai nostri studenti – 700 nella pesantren, per la maggior parte ragazze – un messaggio diverso, di un Islam che può fare pace al suo interno e con le altre religioni», dice Muhammed.
Il ruolo dell’insegnamento tradizionale
Se NU gestisce in prevalenza il sistema delle pesantren, la Muhammadiya è focalizzata sull’insegnamento superiore, con 14.000 scuole da elementari a università e 7.500 asili. A differenza di NU, non ha all’attivo campagne di controinformazione. «Non siamo d’accordo con il termine deradicalizzazione», spiega nella sua camicia batik Abdul Mukti, segretario generale, per anni incaricato del sistema educativo della Muhammadiya – una rete privata, come quella di NU.
«La nostra sfida è contro la violenza, non tutte le organizzazioni radicali sono violente»
Accusando l’infiltrazione in Indonesia di ideologie più radicali come il wahhabismo o dell’Islam politico dei Fratelli musulmani, Mukti spiega come la contro-narrazione «la facevamo anche prima dell’avvento delle bombe, attraverso un sistema educativo che propone un’interpretazione aperta del Corano». E di fatto, il capillare sistema educativo delle due maggiori organizzazioni islamiche, Muhammadiya e NU, è considerato da alcuni studiosi uno dei motivi centrali di un approccio più moderato alla religione rispetto al Medio Oriente.
«La caratteristica più sorprendente del sistema non è il radicalismo ma la volontà degli educatori musulmani di adattare i loro programmi di insegnamento all’ideale nazionale dell’Indonesia... – hanno scritto esperti di Islam indonesiano come Azyumardi Azra, Dina Afrinaty e Robert Hefner. Pochi sistemi educativi islamici nel mondo mostrano una profondità paragonabile di coinvolgimento da parte degli educatori musulmani... Il risultato è un sistema d’istruzione islamico tra i più aperti e innovativi al mondo»[1].
È vero però che, come ricordano gli stessi autori, questi programmi non sono stati sufficienti a prevenire l’emergere di realtà radicali e il reclutamento da parte di gruppi estremisti nel Paese. Per Sidney Jones, direttore dell’Institute for Policy Analysis of Conflict di Giacarta, le ragioni principali del basso numero di partenze per la Siria sono altre: «L’Indonesia, nonostante l’enorme popolazione islamica, è ancora sotto controllo dal punto di vista del reclutamento perché non c’è un governo repressivo, non ci sono molti conflitti interni, i musulmani non rappresentano una minoranza perseguitata e il governo si affida a un buon apparato di sicurezza». L’approccio indonesiano alla minaccia non è “isterico”, spiega: «I leader dell’esercito e delle forze speciali e diverse parti della polizia sono consci della gravità della minaccia e sanno bene che ci sono diverse attività sospette in Indonesia oggi». La questione, con una popolazione musulmana così vasta, è molto sensibile a livello politico.
«Dove sta il confine tra un comportamento accettabile e un comportamento pericoloso? È interessante vedere come Nahdlatul Ulama faccia il legame esplicito tra wahhabismo e terrorismo, ma sia disposta ad accettare che i salafiti in Indonesia e altrove non siano per forza terroristi», dice Jones. Non si può non ricordare, spiega, come sia NU sia la Muhammadiya abbiano al loro interno ali più radicali, che negli anni hanno fomentato atti di intolleranza contro altri musulmani – sciiti e sette come l’Ahmadiya – e inasprito il discorso interreligioso.
Il brand del dialogo interreligioso
Secondo il Wahid Institute, gli episodi di intolleranza religiosa sono cresciuti del 23 per cento nel 2015 rispetto all’anno precedente. E non è un caso che “il dialogo interreligioso” sia diventato in alcuni settori della società uno sforzo quasi brandizzato, sia tra diverse religioni sia all’interno delle diverse denominazioni islamiche.
A Ungaran, nella regione di Semarang, isola di Giava, padre Aloysius Budi Purnomo della parrocchia Cristo Re ha organizzato a marzo un incontro tra donne musulmane, con i loro veli colorati, cristiane, con il capo coperto da un leggero foulard di pizzo, e le suore delle scuole del circondario. L’evento ha attirato almeno duecento persone, l’attenzione dei mass media nazionali e anche la protezione della polizia. Tra il suono del suo saxofono e gli inni giavanesi cantati dal sorridente Budi Harjono, kyai sufi della vicina città di Tembalang, che ha anche ceduto momentaneamente al prete il suo turbante, l’incontro è stato una prima assoluta nella zona: proprio davanti alla moderna chiesa di padre Budi c’è una grande moschea verde e quel giorno l’imam, in sarong e camicia batik, ha accolto per la prima volta i dirimpettai cristiani.
Zuhairi Misrawi è considerato uno dei giovani intellettuali “liberal” del campo di NU. Una domenica mattina di marzo ha passato ore a Bogor, villaggio a una sessantina di chilometri a sud di Giacarta, tra le risaie e la strada statale, al quartier generale dell’Ahmadiya – setta islamica nata in India alla fine dell’Ottocento e minoranza discriminata in Indonesia, come accade anche a sciiti e cristiani – a spiegare ai giovani fedeli come l’unico antidoto all’odio settario sia farsi conoscere: una lezione di scrittura, dunque, di utilizzo dei social media, dei blog, dei giornali.
«Il nostro problema è quello di mantenere al nostro interno i moderati», spiega Misrawi
La sede dell’Ahmadiya di Bogor è stata più volte attaccata nel 2005.
Nel palazzo del “Califfo di Dio”
Nella città di Yogyakarta, ricca di un passato che racconta a perfezione il sincretismo indonesiano, tra antiche moschee, templi induisti, reliquie buddhiste, segni di un’era coloniale olandese e biondi turisti australiani, il sultano Hamengkubuwono X porta il titolo di Kalifatullah, il califfo di Dio, ma gli abiti dell’amministratore delegato: ci riceve in giacca e cravatta rossa nel palazzo del governatore, dove lampadari di cristallo e servizi di porcellana sono immutati testimoni di un’epoca coloniale ancora palpabile.
Il sultano è anche il governatore della città, in un anacronistico retaggio di unione tra potere spirituale e temporale. Il suo racconto è la quintessenza dell’Islam sincretico in versione indonesiana – armonia, tolleranza, pluralismo –, eppure negli ultimi mesi è stato accusato sia da cristiani sia da musulmani di aver chiuso troppo spesso un occhio davanti al crescere degli atti di intolleranza nella cittadina di Yogyakarta. Sulla radicalizzazione che spaventa le organizzazioni islamiche del Paese ha parole che mischiano il bagaglio tradizionale giavanese con la più moderna politica nazionale, e che spiegano bene le sinergie tra religione, tradizioni e Stato: «È importante che ulema e leader religiosi cambino approccio. La loro debolezza è non sottolineare il senso di appartenenza alla comunità. Il modo in cui insegnano la religione si concentra sull’eroismo, la verità e la superiorità della loro religione, invece che sull’appartenenza nazionale».
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Azyumardi Azra, Dina Afrianty, Robert W. Hefner, Pesantren and Madrasa: Muslim Schools and National Ideals in Indonesia, in Robert W. Hefner, Muhammad Qasim Zaman (a cura di), Schooling Islam. The Culture and Politics of Modern Muslim Education, Princeton University Press, Princeton & Oxford 2007, pp172-198.