Non esiste altro uomo se non quello che agisce nel mondo e nella storia. Parte da qui la riflessione sull'impatto della Rivelazione sull'individuo concreto, sull'individuo che sono io. L'esperienza dell'"unità duale" tra individuo e comunità
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:48
I recenti dibattiti sulla multiculturalità riflettono la difficoltà di relazionare in maniera soddisfacente l'aspetto individuale e l'aspetto comunitario della convivenza umana. Le discipline sociali a volte enfatizzano l'importanza della dimensione individuale del soggetto umano con i suoi diritti universali, ma altre volte sottolineano le dimensioni comunitarie (lingua, nazionalità, etnia) e frequentemente entrambi gli aspetti si contrappongono. Che tipo di uomo può dar origine a esperienze sociali nelle quali entrambe le dimensioni si reclamino vicendevolmente al fine di promuovere una vera interazione culturale?
Offriamo una riflessione antropologica, ispirata ad alcune correnti filosofiche contemporanee a partire dalla prospettiva propria dell'esperienza cristiana. Ci proponiamo due obiettivi: in primo luogo, esaminare la condizione umana per comprendere in che tipo di relazione si trovano l'individuo e la comunità, superando la contrapposizione di queste due dimensioni che spesso prevale nel dibattito multiculturale.
In secondo luogo, illustreremo in modo ragionato che questa relazione implica nella sua origine un riferimento "ultimo" alla trascendenza, senza il quale il soggetto personale e sociale si indebolisce fino a frammentarsi. Vedremo che secondo la rivelazione biblica, non solo è la persona individuale ma soprattutto la comunità umana ad essere considerata imago Dei.
Il primo problema antropologico che dobbiamo affrontare consiste nel mostrare che la polarità individuo-comunità è costitutiva dell'essere umano e che, quindi, la dialettica tra entrambi i termini, per cui questi tendono a respingersi mutuamente, è sterile al fine di costruire una società umana.
L'esperienza antropologica cristiana si può caratterizzare come un'esperienza di "unità duale" (identità-differenza) tra individuo e comunità. Ci addentreremo a seguire nella descrizione dei suoi fattori e della sua unità peculiare, ma prima dobbiamo illustrare la categoria della "esperienza antropologica". Utilizzeremo questa categoria per far riferimento alla struttura propria dell'uomo in quanto ha una radice metafisica e in quanto si manifesta in modo esistenziale nella storia.
Descriveremo sinteticamente ciò che è l'uomo e come giunge ad esserlo nel tempo e nello spazio. Se separassimo entrambi i punti di vista, da un lato potremmo imbatterci in una teoria antropologica capace di mostrare gli elementi fondamentali dell'umano come segni essenziali e atemporali, carenti della concretezza e drammaticità con cui ogni persona riconosce e vive la propria umanità. D'altro canto, potremmo imbatterci in una visione antropologica sensibile alla manifestazione fenomenologica del vivere umano in atto ma incapace di stabilire il suo fondamento ontologico, ed esposta allo psicologismo o al soggettivismo. Cercheremo di evitare entrambi i rischi e proporre una visione unitaria, in linea con ciò che si è chiamato "meta-antropologia", ovvero, la riflessione che partendo dalla descrizione esistenziale della realtà concreta dell'uomo in atto, giunge fino al livello metafisico.
Faremo ciò partendo dall'esperienza antropologica tale quale si manifesta nella rivelazione cristiana.
Affermiamo che è esperienza perché la concezione che descriveremo nei suoi elementi universali è accessibile a partire dalla fattualità e storicità tipiche del peculiare avvenimento di Gesù Cristo. Unicamente in Lui si scopre pienamente l'alterità e l'aspetto comunitario che caratterizza tutti gli uomini. Si tratta di una realtà effettivamente verificatasi e identificabile nella storia, che può essere pensata ed offerta in termini comunicabili a livello universale. Paolo VI usò l'espressione di "entità etnica sui generis" per alludere a questo popolo che da millenni vive e trasmette tale visione dell'uomo.
La storia del pensiero occidentale ci mostra lo sforzo che ha fatto la modernità per spiegare la vera consistenza dell'uomo, che passò ad occupare il centro della scena con la "svolta antropologica" e che in seguito ha corso il rischio di vedersi messo da parte, dissolto in strutture che lo sostituiscono come protagonista della storia. Il problema dell'identità e unità dell'essere umano non è, malgrado tutto, patrimonio esclusivo della modernità, e appare nella storia del pensiero fin dall'antichità classica. Tanto nell'ordine politico, quanto nel filosofico, i greci ci offrono molti esempi di discussione riguardo a questo problema. Non mancarono soluzioni parziali, che indicano che stiamo toccando domande perenni sulla natura della vita e della cultura umana.
Questa continua necessità di tornare sulla condizione umana testimonia, a mio giudizio, che la tensione polare individuo-comunità deve essere sempre approfondita, senza la possibilità di risolversi o sottomettersi ad alcuno schema aprioristico. In quanto tale, è segno della trascendenza in cui risiede la dignità di ogni persona. In effetti, ci vediamo attratti più volte a porci domande che ci collocano dinnanzi all'enigma dell'umano: esiste "l'uomo" come soggetto individuale e irriducibile, o esiste "l'uomo" come categoria universale? E se entrambe le dimensioni devono essere prese in considerazione, c'è una che sia principio dell'altra: la specie o l'individuo? Non possiamo tralasciare la domanda del salmista ricca di stupore e ammirazione: "Che cos'è l'uomo perché tu te ne curi, il figlio dell'uomo perché di lui ti ricordi?" [Sal 8, 5].
Un'antropologia è adeguata se affonda la proprie radici nell'evidenza che non esiste altro uomo se non quello che agisce nel mondo e nella storia. In questo modo non si deduce a priori ciò che è l'uomo, distaccandosi dall'esperienza, ma si riflette a partire dalla considerazione dell'uomo concreto in azione, dell'uomo che sono io, per raggiungere tutte le sue dimensioni.
Un'antropologia così impostata considera ogni uomo o donna individuale come membro perfetto della specie umana, per il fatto di contenere in sé tutto ciò che esprime il concetto di "essere umano"; in tal modo ogni individuo partecipa della specie umana, secondo una personale esclusività. Forma parte di quella nozione di "essere umano" ogni individuo che abbia autocoscienza e libertà, come un qualcosa di unico che non possa essere oggetto di una riduzione collettivista. Il concetto di "uomo" riunisce allo stesso tempo ciò che è comune e ciò che è esclusivo rispetto agli altri. Nel momento in cui si difende l'impossibilità di una ripetizione della singolarità dell'individuo, non si sta negando la comunicazione reciproca dei diversi soggetti spirituali e liberi.
Questa incomunicabilità ovvero la sua irriducibilità non intercambiabile costituisce il presupposto della comunicazione mediante la conoscenza e la libertà.
Nell'esperienza l'"essere-in-sé" incomunicabile comprende l'"essere-di e per-altro", o, secondo la definizione di José Ortega y Gasset: "l'uomo è a nativitate aperto all'altro da sé". L'uomo diviene soggetto cosciente e libero nel mondo, non in modo isolato da se stesso, ma attraverso l'altro. Nessuno risveglia da solo l'autocoscienza come nessuno impara da solo a parlare; deve essere destato, come il bambino con la madre. L'autocoscienza si vede, per così dire, chiamata in causa dall'attrazione che esercita su di lei un'altra cosa, un altro. Il cammino della scoperta di se stessi passa inevitabilmente per la chiamata di un altro, che ci tratta come un "tu", suscitando così la risposta di un "io" cosciente e libero. L'identità tra l'"essere-in-sé" e l'"essere-per-sé" consiste sempre nell'esperienza di un'identità data, provocata da un altro. Per questo la coscienza dell' "io" si riconosce come dipendente, partecipe di una misteriosa "alterità" nel più profondo di sé. Possiamo usare la categoria di "appartenenza" per esprimere questo aspetto antropologico, secondo il quale l'uomo ha consistenza propria ma non ha in sé la propria origine.
Se nel soggetto spirituale la relazione soggettiva è implicata intrinsecamente, possiamo parlare di una socialità costitutiva dell'uomo. Solamente così si ritrovano le ragioni per superare il paradosso per cui l'"essere-per-sé" stesso, con l'irriducibile esclusività che comporta, implica ciò che per definizione sembra essere estraneo: l'"altro". Tale vincolo intrinseco non riguarda solo la nozione di "uomo" come specie, ma è propria di ogni soggetto individuale.
In questa prospettiva, il punto di partenza per un dialogo maturo e responsabile deve essere un accoglimento critico della propria tradizione. Tale categoria di "tradizione" ha suscitato un rifiuto nella mentalità moderna, perché viene percepita come inconciliabile con la piena autonomia dell'individuo. Infatti sembrava che la tradizione (o le tradizioni) rinchiudessero la ragione e la libertà umana all'interno di forme troppo particolari e contingenti, privandole della loro universalità. Ecco perché molto spesso si registra nel dibattito multiculturale l'opposizione tra posizioni particolariste (tradizione, etnia, nazione, lingua) e universaliste (libertà, uguaglianza, giustizia per ogni individuo). Alla luce di quanto detto sulla socialità costitutiva dell'io, possiamo comprendere perché la "tradizione" è una categoria centrale al fine di capire la dimensione storica dell'uomo. Vediamo come si può intendere questa categoria riscattandola da accezioni riduttive, e per questo ci avvarremo della riflessione del filosofo Xavier Zubiri.
Questi ritiene che la tradizione sia innanzitutto una trasmissione di vita, ma non come mera "forza" della vita, bensì come trasmissione delle "forme" della vita, fondate nel "farsi carico" della realtà da parte di ogni uomo. Queste forme non sono specificate in anticipo e si trasmettono solo attraverso consegna diretta, attraverso un tradere (traditio). L'uomo non ha ricevuto unicamente la sua intelligenza naturale, con cui parte da zero, ma vengono conferite alla sua facoltà intellettiva forme di vita nella realtà: in questo consiste il carattere storico della realtà umana, il cui soggetto attivo non è ogni membro della società, ma una comunità. In questa cornice si includono le diverse dimensioni della trasmissione delle forme di vita: sicuramente la lingua, ma anche il pensiero, l'amore, il lavoro, che sono fenomeni di questa trasmissione viva che rende possibile che ognuno "si vada facendo".
Orbene, affermare che la storia è tradizione non vuol dire che la storia consiste nel conformarsi con ciò che si riceve, perché la tradizione non equivale a conformismo.
E' opportuno modificare completamente ciò che si riceve, ma ciò non altera il dato che senza tradizione non esiste storia, perché ciò che si trasmette radicalmente nella tradizione sono forme di autopossessione di ogni uomo, e così ognuno "si va facendo" nella propria realtà secondo una forma concreta, di cui la tradizione costituisce una della dimensioni. Sarà sempre necessario che l'assimilazione personale di ciò che si riceve, come accettazione o rifiuto critico, rispetti la complessa trama della polarità individuo-comunità, che si affida alla persona come dono e come compito, e che per tanto acquisisce un valore etico per la persona, tanto nella dimensione intersoggettiva "io-tu", quanto nella dimensione sociale, di bene comune.
Conviene insistere sulla necessità inevitabile di una "verifica storica" delle tradizioni, date come fatti nella storia. Tale verifica richiede il coraggio e l'intelligenza necessari per sapere cosa trattenere e cosa abbandonare, per amore della vitalità della tradizione. Per quanto concerne il nostro problema, possiamo suggerire di conservare gli aspetti della tradizione che più aiutano affinché l'uomo come unità duale di individuo e comunità si "vada facendo" nel presente. In particolare, quegli aspetti culturali della tradizione che favoriscono di più l'interpretazione "ultima" dell'uomo secondo la sua trascendenza. Se la categoria di traditio si relaziona geneticamente con quelle di cultura e di cultus, tutta la tradizione antropologica dovrà misurarsi ragionevolmente con questi criteri: che capacità ha di superare la dialettica tra particolarità e universalità, che capacità ha di strutturare un ideale pienamente rispettoso della trascendenza dell'uomo.
A partire da questa analisi della socialità costitutiva del soggetto umano possiamo addentrarci in una descrizione delle dimensioni proprie della comunità. Non si tratta solo di far riferimento al fatto materiale di coesistere e di operare nel mondo con molti uomini, quanto di spingersi fino all'unità propria di questa molteplicità.
L'apertura costitutiva della persona si manifesta come un "tendere a" gli altri in quanto altri, e può avere varie dimensioni: in primo luogo, può essere "comunità" se la propensione è verso gli altri uomini in quanto uomini, ma può essere anche una propensione verso gli altri non tanto come individui altri, quanto nel loro carattere di persone, e allora non si tratta più di comunità ma di "comunione" (famiglia, amicizia). L'unità intrinseca di queste due forme di "tendere a" gli altri, comunione e comunità è ciò che si può chiamare società umana, secondo l'espressione di Zubiri.
Secondo ciò che abbiamo esposto fino a questo punto, è decisivo ampliare questa riflessione riguardo l'"io-tu" e il "noi" allo scopo di includere il fatto che la relazione intersoggettiva originaria non è puramente binaria o dialogica, quanto ternaria. Nel "noi" non solo si presuppone sempre un "terzo" all'interno delle relazioni costitutive, ma più precisamente si rimette alla compresenza di un "Terzo", senza cui risulta inspiegabile il fenomeno della triade nell'ordine puramente interumano.
Attraverso l'inevitabile relazione con il "tu" finito si riconosce il dono del mondo e dell'essere, che non possono essere stati prodotti dall'altro "tu" limitato, ma che, per mezzo di questo, sono il dono di un "Tu" infinito e comunitario. Proprio quando l'uomo si riconosce vincolato a questo Infinito (tri)personale, è libero dinnanzi a qualsiasi imposizione di vincoli mondani di potere. Orbene, dato che questa libera donazione, che a sua volta libera, raggiunge ognuno attraverso altre relazioni finite, è necessario valorizzare al massimo le relazioni che comunicano il Mistero trascendente. In tal modo si comprenderà più facilmente che tutti i rapporti umani costitutivi (famiglia, cultura) compiono adeguatamente la loro missione nel momento in cui introducono il Mistero, non quando lo soppiantano erigendosi a falsi assoluti, ad idolatrie. Si comprende quindi perché sia così urgente che le relazioni culturali e sociali non censurino la relazione col Mistero all'interno dell'esperienza antropologica, e perché ci convenga straordinariamente che ci siano uomini e culture che la manifestino.
La rivelazione cristiana chiarisce questa dimensione di comunione dell'essere come nota costitutiva dell'"immagine di Dio". Lungo la Scrittura risuona continuamente la suddetta socialità originale dell'esistenza. L'uomo non è mai solo nella sua relazione con Dio, perché il Creatore gli dona la donna affinché non stia in solitudine e chiama entrambi ad essere una sola carne [Gn 1, 27; 2, 23-24]. Questo rapporto giocherà un ruolo decisivo fin dal principio nella comunicazione dell'uomo con Dio. Tuttavia la socialità non è solo un dato delle origini, ma persiste nelle tappe successive, perché, se prescindessimo da questa, non potremmo comprendere chiaramente le relazioni di Dio con l'uomo nella storia d'Israele. Non è affatto casuale che acquistino la forma di un'Alleanza in cui Dio chiama e sceglie l'uomo e il popolo [cfr. Gn 12, 1-3; 17, 1-8; Ex 19, 1-8].
Dio chiama l'uomo a vivere la comunione con Lui e con i suoi simili all'interno di un popolo, e non per questo si indebolisce il carattere personale e intrasferibile del rapporto di Dio con ognuno, fino al punto che i profeti dovranno ricorrere all'immagine della relazione coniugale per esprimerla adeguatamente [cfr. Is 62,5; Os 2,21-22]. Questo dinamismo verrà sottolineato ancora di più nella pienezza del Nuovo Testamento, quando Gesù porterà a compimento la Nuova Alleanza nella sua carne e nel suo sangue, realizzando l'intima unione tra Dio e l'uomo. In Lui si concede agli uomini allo stesso modo il dono di vivere la comunione tra loro [cfr. Ef 5, 25-32].
Gesù vive in modo paradigmatico la tensione tra l'"io" e l'"altro", e nel fatto storico della sua vita e della sua libertà è possibile riconoscere che entrambe le dimensioni si reclamano a vicenda. Da un lato Gesù stupisce amici e nemici per la sua consistenza personale, potremmo dire per il suo "essere-per-se-stesso", per il suo autocontrollo [cfr. Mc 1, 27; Mt 7, 29; Lc 19, 5-8; Gv 9, 32-33]. Allo stesso tempo Gesù rimanda a un Altro per dare la ragione di quella stessa consistenza della sua persona e delle sue azioni. Non si stanca di ripetere che la sua vita consiste nel fare la volontà di suo Padre [Mt 26, 39; Gv 7, 15; 12, 49], e si immedesima nel compito che gli affida [Gv 8, 38], fino al punto che Gesù è l'"inviato" per eccellenza [Eb 3, 1].
Chi vuole partecipare alla vita di Gesù è chiamato a condividere questo comportamento dinnanzi al Padre, e da lì nasce un nuovo modo di relazionarsi con se stessi, con i fratelli e con Dio, che si fonda nell'amore reciproco [Gv 13, 1-3; 17, 20-21; 2 Cor 5, 14-21].
Il gesto in cui culmina la sua vita di dedizione al Padre è il Mistero Pasquale (morte e resurrezione), in cui perfeziona la comunione dei discepoli con sé e con il Padre (communio eucharistica) e getta le basi dell'unità di vita dei discepoli tra loro e con Lui: communio sanctorum [cfr. 1 Cor 10,16; 12, 27]. All'interno di questa vita in comunione Dio attribuisce ad ogni persona una missione, un compito che cambia allo stesso tempo la persona e la comunità [Rom 12, 3; Ef 3, 8-11]. Come mostra l'esperienza vocazionale (nella vita consacrata o nel matrimonio), non c'è niente di così intrasferibile e che personalizza di più che la chiamata di Dio, in cui si delinea tutto il significato della vita, il proprio volto [cfr. Mt 16, 18], riscattando così colui che è chiamato da una catena meramente anonima di individui. Di fronte alla chiamata si desta l'"io" più intenso e vero che un uomo possa immaginare. Orbene questa stessa singolarità irripetibile è quella che contribuisce ad arricchire tutto il corpo ecclesiale con quella ricchezza che sarebbe stata solo sua: qualsiasi vocazione si sviluppa nella missione.
Nel momento in cui ci si immedesima con Cristo attraverso il dono della sua chiamata, il credente condivide la missione unica del Figlio, fino a consegnare tutto se stesso per il bene "dei molti" [Mc 14, 24], per edificare il Corpo della Chiesa.
Il fondamento ultimo di questa dinamica di comunione ecclesiale e cristologica è la stessa vita di comunione intradivina. L'avvenimento cristologico permette l'accesso alla misteriosa relazionalità che identifica Dio. Infatti le missioni del Figlio e dello Spirito a partire dal Padre manifestano nella storia la loro origine eterna e la loro relazione col Padre nella vita intradivina. Nella comunione trinitaria si svela la pienezza della comunione umana: per capire fino in fondo il significato della nostra natura che tende alla comunione dobbiamo contemplare questo avvenimento unico, non solo come un qualcosa di ammirevole, ma in quanto possibilità reale per la vita della persona e della società, partecipando della missione peculiare di Cristo.
Si comprende bene che un Dio, la cui essenza è l'amore [cfr. 1 Gv 4, 8], nella comunione delle tre Persone, e nel quale l'alterità non solo non è un limite, ma costituisce un elemento fondamentale della sua piena definizione trinitaria, non potrà mai essere invocato per legittimare l'esclusione dell'altro, l'assolutizzazione del proprio, e neppure per legittimare l'assolutizzazione dell'individuo autosufficiente.
Qual è la chiave per stabilire l'identità propria dell'umano? In che termini si può affermare la differenza tra uomo e cultura? Come si coniugano identità e differenza? Nel nostro percorso abbiamo posto l'attenzione su alcune questioni fondanti, di ordine antropologico-teologico, per contribuire a chiarire i termini del dibattito. Abbiamo quindi preso come punto di partenza l'esperienza antropologica che descrive l'uomo concreto in atto, e lo abbiamo identificato nella sua caratteristica peculiare e incomunicabile, e allo stesso tempo, nella sua costitutiva alterità.
Su queste premesse è stato possibile affrontare il valore antropologico della "tradizione" superando la contrapposizione dialettica con l'universalità della ragione. A continuazione abbiamo visto come le dimensioni proprie della comunità umana non siano delineate sufficientemente finché non si giunga a percepire il carattere costitutivo del "terzo", ovvero, il riconoscimento che l'alterità umana non è semplicemente dialogica tra un "io" e un "tu", bensì costituisce un "noi". Orbene questo "noi" implica originariamente un "Terzo" (Dio) che esprime la trascendenza religiosa costitutiva dell'essere umano, in quanto unità duale di individuo e comunità. La tradizione giudaico-cristiana ha affermato questa socialità umana fin dalle prime pagine della Genesi e l'ha considerata come espressione dell'immagine di Dio. La piena realizzazione di questa unità duale antropologica si è compiuta storicamente nella vita di Ges Cristo e si prolunga nell'esperienza della comunione ecclesiale.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Questo articolo presenta in forma riassuntiva e adattata materiali raccolti in J. Prades, Multiculturalidad, tradición y mestizaje en un mundo globalizado. Fundamentos antropológicos-teológicos, "Studium Veritas", Lima 2005.
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Javier Maria Prades López, Appunti di antropologia cristiana, «Oasis», anno II, n. 3, marzo 2006, pp. 109-113.
Riferimento al formato digitale:
Javier Maria Prades López, Appunti di antropologia cristiana, «Oasis» [online], pubblicato il 1 marzo 2006, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/appunti-di-antropologia-cristiana.