Il teologo Ibn ‘Abd al-Wahhāb garantì ai regnanti sauditi la legittimità religiosa. I sovrani, a loro volta, concessero al chierico e ai suoi seguaci il monopolio dell’interpretazione dell’Islam
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 10:08:20
Il teologo Ibn ‘Abd al-Wahhāb garantì ai regnanti sauditi la legittimità religiosa. I sovrani, a loro volta, concessero al chierico e ai suoi seguaci il monopolio dell’interpretazione dell’Islam. Anche questa controversa dottrina ultraconservatrice ha dovuto misurarsi con la modernizzazione, che ha messo in crisi il patto fondativo e generato contrasti all’interno dell’establishment religioso.
Gli ulema o chierici sunniti dell’Arabia Saudita hanno dovuto fare i conti con la modernizzazione del Paese e i cambiamenti socio-politici che hanno interessato le tradizioni religiose sviluppate da Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb nel XVIII secolo. Se alcuni ulema oppongono oggi resistenza al cambiamento, altri hanno accolto con cautela il progresso della società saudita, modificando anche le proprie posizioni religiose per adeguarsi alle circostanze. Negli ambienti religiosi sauditi, ciò ha portato a contestazioni e negoziazioni, a volte con forti dibattiti sull’autenticità dell’identità religiosa saudita.
Il fondatore del pensiero religioso saudita[1], Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb, predicò la purificazione religiosa attraverso l’eliminazione di quelle che riteneva pratiche corrotte. Lo scopo di tale purificazione era la promozione di un monoteismo assoluto, che contrastava in particolare con alcune pratiche sciite e sufi. La sua missione trovò un sostegno politico in Muhammad Ibn Sa‘ūd, che nel 1744 fondò lo Stato saudita. Ibn ‘Abd al-Wahhāb garantì a Muhammad Ibn Sa‘ūd la legittimità religiosa per governare, mentre quest’ultimo, a sua volta, concesse al chierico e ai suoi seguaci il monopolio degli affari religiosi. I nemici di ‘Abd al-Wahhāb e Ibn Sa‘ūd furono eliminati e le interpretazioni dell’Islam formulate da ‘Abd al-Wahhāb divennero una costante teologica utilizzata dalle generazioni successive degli Āl-Sa‘ūd e dei chierici wahhabiti per unificare l’Arabia e creare nel 1932 il moderno Stato dell’Arabia Saudita.
Il principio dello scontro
La modernizzazione dello Stato saudita sotto la leadership di ‘Abd al-‘Azīz Ibn ‘Abd al-Rahmān (1875-1953), noto anch’egli come Ibn Sa‘ūd, modificò i rapporti tra famiglia regnante e ulema. L’approccio pragmatico di Ibn Sa‘ūd al governo e i suoi sforzi per trasformare lo Stato saudita lo portarono allo scontro con gli ulema conservatori[2]. Ciò non significa peraltro che in precedenza gli ulema e i regnanti avessero sempre intrattenuto buone relazioni: si potrebbero ricordare ad esempio le dispute tra gli ulema e la famiglia regnante durante il secondo Stato saudita (1824-1891). Ibn Sa‘ūd però era un governante diverso da quanti lo avevano preceduto e si spinse oltre i limiti, arrivando a lavorare con dignitari stranieri non-musulmani. In sostanza, man mano che lo Stato saudita traeva beneficio dal petrolio e dalla rapida modernizzazione, gli ulema furono costretti ad accettare il declino della loro influenza negli affari politici dello Stato. Ciononostante gli aspetti religiosi del patto tra il sovrano e gli ulema rimasero sacrosanti. Gli ulema conservavano il monopolio degli affari socio-religiosi e il loro ideale religioso dell’Arabia Saudita era salvaguardato. Gli ulema di Stato in particolare restavano fondamentali nel fornire una legittimità religiosa ai sovrani e continuavano a operare come loro consulenti.
L’approccio condiscendente di questi ulema nei confronti della trasformazione socio-politica dell’Arabia Saudita non fu accolto con favore da quanti si consideravano più fedeli agli insegnamenti di Ibn ‘Abd al-Wahhāb. In particolare, sono state due le grandi preoccupazioni degli ulema sauditi, che hanno condotto alla frammentazione del potere clericale e hanno destabilizzato l’uniformità del pensiero religioso in Arabia Saudita: l’attivismo politico clericale e il cambiamento sociale.
L’attivismo politico
Mentre lo Stato saudita andava sempre più modernizzandosi, in particolare con l’introduzione di riforme economiche, politiche e sociali, emergeva un divario intellettuale tra «persone con un’istruzione di tipo europeo e persone con un’istruzione islamica tradizionale»[3]. L’introduzione di istituzioni statali burocratizzate di tipo occidentale fu fonte di grande preoccupazione per gli ulema. Negli anni ’60, questo portò alla nascita di un movimento intellettuale clericale, la Sahwa islāmiyya (Risveglio islamico), che puntava a contrastare la liberalizzazione della società saudita[4]. In seguito, dopo la Guerra del Golfo del 1990-1991, il movimento abbracciò l’attivismo politico. I membri del movimento criticavano la famiglia saudita per la decisione di re Fahd di permettere alle truppe degli Stati Uniti di usare il suolo saudita come base per combattere le forze di Saddam Hussein. Per questi ulema collaborare con non-musulmani era inammissibile. La loro contestazione si fondava sulla dottrina “della lealtà e del disconoscimento” (al-walā’ wa-l-barā’), in base alla quale il musulmano deve osservare una fedeltà assoluta a Dio, dissociandosi da tutti gli atti che contrastano con questa fedeltà[5]. Si trattava di una dottrina ridefinita durante il primo Stato saudita da Sulaymān Ibn ‘Abdallah, nipote di Ibn ‘Abd al-Wahhāb, per legittimare la lotta contro gli ottomani. La modernizzazione dello Stato saudita sotto la leadership di Ibn Sa‘ūd, modificò i rapporti tra famiglia regnante e ulema Ciò aveva portato a una scomunica esplicita degli ottomani da parte degli ulema wahhabiti. Durante il secondo Stato saudita, questa dottrina era stata utilizzata da un altro dotto wahhabita, Hamad Ibn ‘Atīq, critico nei confronti della decisione di ‘Abdullah Ibn Turkī di chiedere aiuto agli ottomani in Iraq nella sua lotta contro il fratello per l’egemonia sugli Āl-Sa‘ūd. Hamad Ibn ‘Atīq era stato particolarmente critico verso Muhammad Ibn Ibrāhīm ‘Ajlān, un ‘ālim che aveva legittimato con una fatwa la decisione di ‘Abdullāh Ibn Turkī, e si era spinto fino a scomunicarlo. È interessante notare come molti ulema sauditi, in particolare quelli di Stato, abbiano gradualmente tentato di depoliticizzare il concetto di “al-walā’ wa-l-barā’”, accentuandone esclusivamente la funzione sociale, come dottrina che impone ai musulmani di distinguersi dai non-musulmani, per esempio vietando loro di celebrare feste non-musulmane[6]. Quando lo Stato decise di respingere Saddam Hussein collaborando con la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, gli ulema dell’establishment lo sostennero. Il Gran Mufti ‘Abd al-‘Azīz Ibn Bāz fornì una legittimità religiosa alla famiglia regnante emettendo una fatwa che dichiarava pragmaticamente come la decisione dello Stato trovasse una giustificazione nel principio “del male minore” (akhaff al-dararayn)[7].
La prima Guerra del Golfo ha contribuito in diversi modi a frammentare il campo religioso saudita. Non si è trattato di uno sviluppo del tutto inedito: in precedenza gli ulema si erano già scontrati su questioni religiose e politiche riguardanti l’orientamento dello Stato. Tuttavia le divisioni tra gli ulema non erano mai state tanto evidenti come dopo la prima Guerra del Golfo. Chi si opponeva allo Stato criticava esplicitamente la famiglia regnante. Ciò portò all’arresto di due popolari ulema della Sahwa, Salmān al-‘Awda e Safar al-Hawālī, che furono rilasciati alla fine degli anni ’90 e poi cooptati dallo Stato. Il vuoto che si era creato fu riempito da ulema tutt’altro che restii a diffondere il jihad violento contro lo Stato, come Nāsir al-Fahd, ‘Alī al-Khudayr e Sulaymān al-‘Alwān. Questi ulema facevano parte della scuola shu‘aybī, così chiamata da Hamūd al-Shu‘aybī e, dopo la cooptazione dei membri della Sahwa, sono diventati il nuovo volto degli ulema che si oppongono allo Stato e al suo establishment religioso.
Man mano che lo Stato saudita traeva beneficio dal petrolio, gli ulema furono costretti ad accettare il declino della loro influenza negli affari politici dello Stato La maggior parte di essi si è concentrata su ciò che riteneva moralmente deprecabile nella società saudita, arrivando a includere nelle loro critiche singoli membri della famiglia regnante e le alleanze sacrileghe stabilite dallo Stato con le potenze occidentali[8]. Gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno visto ancora una volta lo Stato alle prese con l’estremismo violento e le autorità saudite hanno arrestato e imprigionato Nāsir al-Fahd e ‘Alī al-Khudayr nel 2003 e Sulaymān al-‘Alwān nel 2004. La fiammata di violenza jihadista sul suolo saudita tra il 2003 e il 2006 ha innescato un dibattito tra gli ulema sul tema del jihad. Questi fatti inoltre hanno esposto gli ulema della Sahwa alle accuse, soprattutto da parte dei chierici di Stato, di aver ispirato i militanti jihadisti. Salmān al-‘Awda e i suoi compagni della Sahwa sono diventati allora più espliciti nel condannare l’attivismo violento e non hanno esitato a mostrarsi solidali con lo Stato contro l’estremismo[9]. Una volta diminuita la minaccia estremista, in particolare dopo il 2006, al-‘Awda e ‘Awad al-Qarnī, già molto popolari, hanno continuato a esprimersi pubblicamente, seppure con cautela, sulle condizioni socio-politiche in Arabia Saudita.
Le rivolte arabe del secondo decennio del XXI secolo hanno sconvolto l’ordine politico esistente nella regione. La famiglia regnante saudita è stata senza dubbio preoccupata dalle rivolte popolari, così come gli ulema dell’establishment. In Arabia Saudita i movimenti popolari sono stati limitati, pur investendo la popolazione sciita del Paese, le famiglie dei detenuti agli arresti perché sospettati di essere membri di al-Qaida e le donne che sfidavano il “divieto di guida”. Gli ulema di Stato, tra cui il Gran Mufti ‘Abd al-‘Azīz Āl al-Shaykh, si sono profusi in solenni condanne lanciate ai manifestanti. Gli ulema che simpatizzavano per i rivoluzionari arabi fuori dal regno e i manifestanti dentro il regno sono stati arrestati; è il caso di Yūsuf al-Ahmad, noto ‘ālim che contestava la detenzione illimitata di quanti erano sospettati di far parte di al-Qaida[10]. Le rivolte arabe hanno quindi riacceso le divisioni tra gli ulema di Stato e gli ulema attivisti, dando inizio a battaglie retoriche pubbliche tra i due gruppi. Sono state due le grandi preoccupazioni che hanno destabilizzato l’uniformità del pensiero religioso nel regno: l’attivismo politico clericale e il cambiamento sociale Ben presto gli eventi siriani hanno soppiantato gli altri temi nel dibattito religioso saudita. Sebbene gli ulema di Stato abbiano inizialmente sostenuto l’opposizione siriana senza riserve, in seguito essi hanno circoscritto il loro sostegno in modo da escludere Jabhat al-Nusra (poi Jabhat Fath al-Shām) a causa del suo estremismo, rivolgendo le loro accuse agli ulema attivisti che incitavano al jihad in Siria. Da parte loro, gli ulema attivisti si sono autoassolti da qualsiasi responsabilità sostenendo che, per quanto avessero sostenuto il jihad in Siria, erano sempre stati attenti a dissuadere i giovani sauditi dal parteciparvi. Questo è vero per alcuni ulema attivisti come Salmān al-‘Awda e ‘Awad al-Qarnī, ma altri si sono mostrati ferventi sostenitori della lotta in Siria. I loro sermoni e i loro discorsi pubblici erano infarciti di retorica sulla legittimità del jihad e sul dovere di difendere i sunniti in Siria. Muhammad al-‘Arīfī rientra senz’altro in questa categoria. Nonostante fosse una celebrità più che un attivista impegnato – può vantare 17 milioni di follower su Twitter – nel 2013 al-‘Arīfī ha pronunciato un sermone nella moschea di ‘Amr Ibn al-‘Ās al Cairo invitando a partecipare al jihad in Siria. Il suo incendiario appello alle armi ha allarmato le autorità saudite e gli è costato un breve periodo di detenzione al ritorno dall’Egitto[11]. Hātim al-‘Awnī ha coraggiosamente accusato le tradizioni religiose saudite di offrire un fondamento all’estremismo, sfruttato da gruppi come l’Isis La minaccia dello Stato Islamico ha suscitato ulteriori dibattiti tra ulema lealisti e attivisti. Questi scambi accessi, spesso pubblici e di ampia circolazione sui social media, hanno ulteriormente evidenziato la frammentazione dell’autorità religiosa in Arabia Saudita. Hātim al-‘Awnī, ‘ālim saudita di primo piano, ha coraggiosamente accusato le tradizioni religiose saudite di offrire un fondamento all’estremismo, sfruttato da gruppi come Isis. Il religioso si è spinto ancora oltre, contestando l’interpretazione di Ibn ‘Abd al-Wahhāb circa alcuni aspetti relativi all’Islam, pur avendo cura di non contestare la legittimità del patto che lega il wahhabismo alla famiglia reale[12]. Il fenomeno Isis ha diviso perfino gli ulema jihadisti in Arabia Saudita: alcuni, tra cui Nāsir al-Fahd, hanno giurato fedeltà ad Abū Bakr al-Baghdādī, mentre altri come Sulaymān al-‘Alwān ne hanno energicamente rifiutato la legittimità[13].
L’evoluzione sociale
Da un lato, la burocratizzazione delle istituzioni religiose saudite sotto il governo di re Faysāl Ibn Sa‘ūd (1964-1975) ha relegato gli ulema in una posizione subalterna rispetto allo Stato. Dall’altro lato, essa si è rivelata un fattore significativo nel consentire agli ulema di mantenere una posizione rilevante di fronte alla modernizzazione[14]. Ad ogni modo, sia l’opinione pubblica sia le istituzioni governative hanno continuato a vedere negli ulema le guide della società saudita. L’evoluzione sociale avviene infatti entro i limiti stabiliti dagli ulema. Questo fa sì che il cambiamento sia lento e graduale, dal momento che gli ulema sono spesso restii ai mutamenti sociali.
La Legge Fondamentale dell’Arabia Saudita (al-Nizām al-asāsī li-l-hukm bi-l-Mamlaka al-‘Arabiyya al-Sa‘ūdiyya) conferisce alla sharī‘a lo status di legge del regno. All’establishment religioso saudita è affidato l’incarico di interpretare la sharī‘a, ciò che, in diversi casi, ha generato tensioni con le autorità governative saudite nel momento in cui il Paese ha intrapreso la modernizzazione. Secondo lo studioso di diritto islamico Frank Vogel, gli ulema sono in disaccordo con lo Stato sulle questioni di diritto civile, ma sono maggiormente in sintonia per quanto attiene alla sfera penale[15]. E la famiglia regnante aggirerebbe spesso le decisioni degli ulema attraverso l’emissione di decreti reali[16].
La burocratizzazione degli ulema ha portato alla nascita di varie istituzioni tra cui, al livello più alto, il Consiglio superiore degli ulema. Nonostante la polizia religiosa saudita (il Comitato per la promozione della virtù e la proibizione del vizio) non faccia parte dei gradi più alti della gerarchia religiosa del Regno, essa è il volto pubblico dell’autorità religiosa, a cui è affidato il compito di pattugliare le strade per far rispettare la moralità. Spesso la polizia religiosa molesta uomini e donne che infrangono i codici di abbigliamento e l’etichetta che prevede la separazione dei sessi, provocando a volte morti e feriti. Nel 2016 il governo saudita ha ridimensionato l’autorità della polizia religiosa privandola dei poteri di arresto, dando probabilmente avvio a una nuova fase nella subordinazione degli ulema alle strutture burocratiche del regno[17].
Spesso, per consentire la realizzazione delle riforme nella società saudita, la famiglia regnante ha accettato compromessi e offerto contropartite. Nel 1960 re Faysal introdusse l’istruzione per le ragazze nonostante le resistenze del clero, ma in cambio affidò agli ulema di Stato il compito di sovrintendere alla realizzazione del nuovo curriculum. Questo gioco di potere tra lo Stato e gli ulema di Stato, soprattutto attraverso le istituzioni religiose burocratizzate, ha caratterizzato per molto tempo le interazioni e l’evoluzione sociale della società saudita, anche per quanto riguarda la separazione dei sessi, le donne nel mondo del lavoro e la loro partecipazione alle Olimpiadi.
Secondo lo storico David Commins, le fatwe delle organizzazioni preposte alla loro produzione possono essere suddivise in due categorie. La prima riguarda le questioni sulle quali gli ulema sono determinati a preservare la natura conservatrice della tradizione saudita (tra cui la separazione dei sessi e l’ordine morale); la seconda comprende le questioni sulle quali i chierici sono disposti a concedere maggiore flessibilità, tra cui i media e le innovazioni della medicina[18]. Inoltre, nonostante il Consiglio superiore degli ulema e il Comitato permanente per la ricerca e le fatwe (secondo nella gerarchia, dopo il Consiglio superiore degli ulema) abbiano l’autorità di emettere fatwe, non si può certo negare che, di tanto in tanto, alcuni ulema abbiano ignorato e addirittura contraddetto le fatwe ufficiali con le proprie opinioni personali.
Gli ulema sono tutt’altro che unanimi quando si tratta di definire ciò che è socialmente accettabile. Rispetto alle questioni sociali, le categorie politiche in cui di solito sono incasellati i chierici (establishment o attivista) non sono d’aiuto: c’è tanto disaccordo all’interno del singolo gruppo quanto tra un gruppo e l’altro. Per le questioni sociali è meglio dividere i chierici secondo le categorie di riformisti, tradizionalisti e ultra-tradizionalisti. E anche queste classificazioni comunque non sono in alcun modo rigide: alcuni possono assumere una posizione liberale su determinate questioni e una conservatrice su altre.
L’attivista Salmān al-‘Awda, per esempio, è noto per i suoi atteggiamenti di compromesso rispetto al cambiamento sociale in Arabia Saudita; il suo collega Yūsuf al-Ahmad potrebbe situarsi sulla sua stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda le questioni politiche, ma è estremamente conservatore nelle questioni sociali, addirittura più conservatore della maggior parte gli ulema di Stato. È infatti noto per aver chiesto alle autorità saudite di costruire ingressi separati per uomini e donne alla Grande Moschea di Mecca, attualmente misti: una preoccupazione che non ha entusiasmato né il Consiglio superiore degli ulema né il Comitato permanente per la ricerca e le fatwe. Al-‘Awda fluttua tra gli ambienti clericali e i modernisti sauditi, alcuni dei quali hanno visioni liberali sulla religione e sullo Stato[19].
Nessuna questione quanto il divieto per le donne di guidare l’automobile ha messo in evidenza le spaccature tra le tradizioni salafite e i liberali sauditi. Al-‘Awda, per esempio, è attento a non prendere posizione su questo tema, sostenendo di rispettare i pareri altrui pur avendo le sue personali opinioni[20]. Altri ulema sono più espliciti. Tra questi ‘Ā’id al-Qarnī (un attivista come al-‘Awda) che è contrario al divieto per le donne di guidare perché ne deriverebbero altri gravi problemi, tra cui la loro eccessiva dipendenza da autisti uomini con cui non sono imparentate. Per di più, a suo parere, il divieto di guida non è fondato su fonti religiose credibili[21]. È una visione che lo ha esposto a pesanti critiche da parte di altri religiosi[22].
Non è affatto raro che gli ulema siano oggetto di critiche severe da parte di altri ulema per aver spinto in avanti i confini interpretativi in alcune questioni socio-religiose. Nel 2014, Ahmad al-Ghāmidī, ex capo della polizia religiosa della Mecca, è apparso sull’emittente televisiva al-‘Arabiyya sostenendo che il niqāb (velo integrale), ritenuto dai salafiti un obbligo religioso, non dovrebbe essere obbligatorio, e che le donne possono truccarsi perché il trucco non è una pratica che contraddice l’Islam. Al suo fianco si trovava la moglie senza velo e truccata[23]. Il fatto che al-Ghāmidī fosse l’ex capo della polizia religiosa della Mecca ha reso la sua originalità intellettuale ancora più notevole, motivo per cui è stato criticato da alcuni membri del Consiglio superiore degli ulema, tra cui il Gran Mufti[24]. Un altro esempio di eccentricità è ‘Ādil al-Kalbānī, ex imam della Grande Moschea della Mecca, che ha rilasciato una dichiarazione secondo la quale ascoltare musica non dovrebbe essere considerato anti-islamico[25], ciò che ha suscitato le ire tanto degli attivisti quanto dei lealisti[26]. Da tutto ciò si nota come gli ulema sauditi non siano un’entità monolitica, come non lo sono le loro correnti politiche. Essi sono diversi tra loro e le loro posizioni sulle questioni socio-religiose e socio-politiche sono in evoluzione. La frammentazione dell’autorità religiosa ha aumentato notevolmente il volume e la frequenza delle contestazioni e delle negoziazioni tra gli ulema. Questo genera uno spazio di dibattito su questioni religiose e politiche più ampio rispetto all’idea comunemente diffusa.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Gli oppositori dei seguaci di Ibn ‘Abd al-Wahhāb identificavano questi ultimi come “wahhabiti”. Storicamente, i suoi seguaci si autodefinivano Ahl al-tawhīd (“La gente dell’unicità divina”). Dagli anni ’70 gli ulema sauditi definiscono le loro tradizioni religiose con il termine “salafita”, che è maggiormente accettato dalla maggioranza dei musulmani.
[2] Nonostante fossero in disaccordo con Ibn Sa‘ūd, gli ulema non predicavano la disobbedienza. Si veda David Commins, The Wahhabi Mission and Saudi Arabia, I.B Tauris, London 2006, pp. 90-95.
[3] Ivi, p. 105.
[4] Stéphane Lacroix, Awakening Islam: The Politics of Religious Dissent in Contemporary Saudi Arabia, Harvard University Press, Cambridge 2011, pp. 155-158.
[5] Shiraz Maher, Salafi-Jihadism: The History of an Idea, Hurst & Company, London 2016, p. 111.
[6] Joas Wagemakers, The Enduring Legacy of the Second Saudi State: Quietist and Radical Wahhabi Contestations of Al-Wala’ wa-l-Bara’, «International Journal of Middle East Studies» 44 (2012), pp. 99-110.
[7] Ibid.
[8] Thomas Hegghammer, Jihad in Saudi Arabia: Violence and Pan-Islamism Since 1979, Cambridge University Press, Cambridge 2010, p. 83.
[9] Ibid, p. 83.
[10] Saudi Arabia: Free Islamic Scholar who Criticized Ministry, «Human Rights Watch», 2011, disponibile su http://bit.ly/2nOe2pu.
[11] Raihan Ismail, The Saudi ‘Ulama and the Syrian Civil War, in Amin Saikal (a cura di), The Arab World and Iran: A Turbulent Region in Transition, Palgrave Macmillan, New York 2016, pp. 83-99.
[12] Al-Shaykh Hātim al-‘Awnī Dayf Barnāmij Liqā’ al-Jum‘a ma‘ ‘Abd Allāh al-Mudayfir, consultato su http://bit.ly/2moYCuM il 29 gennaio 2017.
[13] Shaykh Sulaymān al-‘Alwān: wāqi‘ al-dawla al-islāmiyya, consultato su http://bit.ly/2n9Puct il 25 gennaio 2017.
[14] Muhammad al-Atawneh, Is Saudi Arabia a Theocracy? Religion and Governance in Contemporary Saudi Arabia, «Middle Eastern Studies» 45 (gennaio 2009), n. 5, pp. 728-729.
[15] Frank Vogel, Islamic Law and Legal System: Studies of Saudi Arabia, Brill, Leiden 2000, pp. 2-5.
[16] Dale Eickelman e James Piscatori, Muslim Politics, Princeton University Press, Princeton 1996, p. 60.
[17] Lauren Said-Moorehouse, Saudi Arabia strips religious police of arrest powers, «CNN», aprile 2016, consultato su http://cnn.it/23zx7hk il 28 febbraio 2017.
[18] David Commins, Islam in Saudi Arabia, I.B. Tauris, London 2015, pp. 51-60.
[19] Madawi al-Rasheed, Muted Modernists: The Struggle over Divine Politics over Saudi Arabia, Oxford University Press, New York 2015.
[20] Salmān al-‘Awda, Mawdū‘ qiyādat al-mar’a, consultato su http://bit.ly/2nOamEt il 2 marzo 2017.
[21] ‘Ā’id al-Qarnī: tahrīm qiyādat al-mar’a li-l-sayyāra fī al-Sa‘ūdiyya la yastanid ilā dalīl, «Al-‘Arabiyya», 30 maggio 2011, consultato su http://bit.ly/2n9JUXx il 2 marzo 2017.
[22] Ibid.
[23] Don’t Wear the Veil, Saudi Cleric reiterates on TV, «Al-‘Arabiyya», 15 dicembre 2014, consultato su http://bit.ly/2mLFoLl il 2 marzo 2017.
[24] Al-Muftī al-‘Āmm: As’āl Allāh an yaftah ‘alā qalb al-Shaykh al-Ghāmidī wa yarshida-hu li-l-sawāb, «Sabq», 15 dicembre 2014, consultato su https://sabq.org/kitgde il 17 febbraio 2017.
[25] Al-Kalbānī yusirr ‘alā ibāhat al-ghinā’ bi-mūsīqā wa-l-istimtā‘ bi-l-sawt al-hasan, «Al-‘Arabiyya», 20 giugno 2010, consultato su http://bit.ly/2nwJmvQ il 2 marzo 2017.
[26] Ibid.