Dopo la morte di Muhammad l’autorità si è frammentata tra diverse persone e diverse discipline. Si è così aperta la strada a un pluralismo interpretativo dei testi rivelati

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Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 16:57:56

Nel Sunnismo, la distanza abissale tra Dio e l’uomo ha impedito l’emergere di figure che potessero presentarsi come interpreti infallibili della rivelazione. Dopo la morte di Muhammad, ultimo tramite tra il Creatore e le creature, nessun individuo ha potuto ereditarne l’autorità, che si è frammentata tra diverse persone e diverse discipline. Si è così aperta la strada a un pluralismo interpretativo dei testi rivelati che gli ulema hanno tentato di arginare, senza mai eliminarlo del tutto.

 

Sempre più spesso, studiosi, opinionisti, i musulmani stessi e molti altri si chiedono se l’Islam sia in crisi. Chi risponde affermativamente postula che l’assenza di un’autorità unica abbia portato alla proliferazione di autorità in concorrenza tra loro. Uno degli argomenti più stringenti in questo senso è stato avanzato nel 2002 da Richard Bulliet, il celebre storico dell’Islam:

La crisi odierna scaturisce in parte dalla struttura stessa dell’Islam – una fede priva di confessioni definite, gerarchie e istituzioni centralizzate. L’assenza di queste strutture è stata un elemento di forza che ha consentito a questa fede di adattarsi alle condizioni locali e diffondersi in tutto il mondo. Ma è anche una debolezza che rende difficile per i musulmani parlare con una voce sola su questioni importanti, per stabilire cos’è e cosa non è vero Islam. La debolezza strutturale dell’Islam è stata enormemente amplificata da una serie di forze storiche che hanno progressivamente compromesso l’autorità delle sue guide tradizionali, in Medio Oriente e altrove. Gli imam e i mufti, che in passato avevano plasmato le visioni del mondo dei musulmani comuni, sono stati messi in ombra da figure più innovative e spesso radicali, con radici molto meno profonde nella tradizione. La crisi ha tre cause storiche correlate: la marginalizzazione delle autorità musulmane tradizionali nel corso dell’ultimo secolo e mezzo; l’ascesa di nuove autorità con credenziali inferiori ma più abili a usare la stampa e, più recentemente, i media digitali; infine la diffusione dell’alfabetizzazione di massa nel mondo musulmano, che ha messo gli scritti di queste nuove autorità a disposizione di nuovi e vasti pubblici[1].

Per Bulliet la crisi dell’autorità è un risultato della struttura politica dell’Islam che, a suo dire, rifiuta «confessioni definite, gerarchie e istituzioni centralizzate». Questa struttura, che storicamente ha saputo gestire la diversità, non sarebbe in grado di far fronte alle grandi differenze provocate dall’ascesa di nuove autorità, dell’informazione a stampa, e dall’alfabetizzazione di massa.

 

Pur concordando parzialmente con la valutazione di Bulliet circa la proliferazione delle autorità in epoca moderna, non condivido la prospettiva dalla quale egli analizza la questione. Bulliet inizia infatti affermando che l’odierna crisi dell’autorità nell’Islam è la conseguenza naturale di una mancanza strutturale (sebbene non utilizzi termini così secchi), che fatica ad armonizzare prospettive e ideologie concorrenti. Ciò presuppone che l’Islam abbia sempre sofferto di una mancanza o fragilità nella nozione di autorità e che le condizioni della modernità non abbiano fatto altro che esacerbare ulteriormente questo «problema strutturale». Direi invece che, benché l’autorità religiosa non fosse centralizzata allo stesso modo in cui lo era nella Chiesa cattolica, esisteva nell’Islam classico un robusto concetto di autorità e, accanto a questo, diversi meccanismi per gestire la pluralità. 

 

Nel suo Whose Justice, Which Rationality? Alasdair MacIntyre afferma in modo convincente che concetti quali ragione e giustizia vanno analizzati all’interno di specifiche tradizioni intellettuali. A tal fine MacIntyre parla della necessità di recuperare «una concezione dell’indagine razionale incarnata in una tradizione e secondo la quale i criteri di giustificazione razionale emergono da una storia e ne sono parte»[2].

Se estendiamo questo principio alla questione dell’autorità, qualsiasi indagine su questo tema andrà collocata all’interno della tradizione che ne è portatrice. Solo allora potrà essere pienamente compresa e comparata in maniera rigorosa e metodologicamente corretta con altre nozioni di autorità. Tuttavia, immergersi in una “tradizione” religiosa non è un compito facile. Come ha notato Talal Asad a riguardo dell’Islam, quest’ultimo è una “tradizione discorsiva” che produce degli Islam anziché un Islam monolitico[3].

 

Per capire l’autorità nell’Islam classico, le ragioni della sua pluralità e i metodi per orientarsi al suo interno è necessario porsi una serie di domande:

  1. Come veniva compresa l’autorità al tempo del Profeta e dopo di lui?
  2. In che modo si sono conservati nell’Islam classico i molteplici modi dell’autorità?
  3. Ci sono stati tentativi di accentramento dell’autorità? Se sì, hanno avuto successo?

Nell’Islam classico l’autorità si fondava su tre pilastri: i testi, il contesto e gli individui. Con questo intendo dire che in qualsiasi momento, chi o che cosa era autorevole era stabilito sulla base degli individui che erano presenti, dei testi disponibili e dell’ambiente socioeconomico. Ai fini della nostra indagine vorrei concentrarmi su tre periodi principali: l’era profetica, l’era post-profetica e preclassica (dal VII al IX secolo) e l’epoca classica (dal IX al XV secolo).

 

L’epoca del Profeta

Al tempo del Profeta, è superfluo dirlo, l’autorità si concentrava esclusivamente nella sua persona. Se il Corano trasmesso oralmente forniva l’orientamento fondamentale per la nascente comunità musulmana, il Profeta ne era l’esegeta e il tramite ed era considerato l’unico legame infallibile tra la comunità e il Divino. Le questioni che non erano trattate nel Corano venivano sottoposte al Profeta. In quest’epoca, dunque, la comunità musulmana conobbe un’unica fonte di autorità, ma visse in due ambienti socioeconomici opposti. Alla Mecca, nelle prime fasi storiche della comunità, i musulmani occupavano le classi socioeconomiche più basse ed erano costantemente minacciati da tribù arabe e meccane più potenti, che vedevano nel messaggio dell’Islam una sfida lanciata al loro stile di vita. La situazione cambiò notevolmente con l’emigrazione della comunità musulmana a Medina, dove il Profeta poté assumere un ruolo pubblico di maggior rilievo, non soltanto come guida religiosa, ma anche come capo sociale e politico. Nonostante un potere più pronunciato, né la comunità né il Profeta stesso affrontarono la questione della continuità dopo la sua morte: non c’era dunque nessun piano su come gestire nell’avvenire le questioni politiche, sociali e religiose e questo avrebbe aperto le porte a un grande dibattito.

 

Dopo la morte del Profeta, nei due secoli che ho definito come “epoca post-profetica preclassica”, si affermarono due visioni contrastanti di autorità. La prima, che sarebbe diventata la visione sciita, si fondava sulla parentela. Essa riconosceva lo status eminente dei membri della Casa del Profeta e riteneva che la sua autorità infallibile continuasse a trasmettersi all’interno della sua famiglia. La seconda visione, adottata dai sunniti, si fondava invece sull’eccellenza religiosa e morale[4]. Essa riconosceva che la morte del Profeta aveva decretato la fine di un’unica guida infallibile per la comunità musulmana, ma ammetteva la necessità di criteri per stabilire chi potesse essere considerato una guida legittima.

 

Le due vicende che illustrano la visione dell’autorità in questo momento cruciale sono l’incidente della Saqīfa, nel quale ‘Umar espresse il suo sostegno ad Abū Bakr come successore del Profeta in quanto guida (califfo) della comunità musulmana[5], e il primo discorso di Abū Bakr come califfo. Alla Saqīfa furono stabiliti due punti importanti per la leadership degli albori: quello di un unico leader politico, anche se fallibile, e quello della consultazione. Nel discorso di Abū Bakr invece, conservato dallo storico al-Tabarī (m. 923), il primo califfo tenta di mediare tra i Muhājirūn, i Compagni del Profeta che si erano trasferiti con lui a Medina dopo la sua espulsione dalla Mecca, e gli Ansār, gli abitanti di Medina che avevano accolto il Profeta e i Muhājirūn in fuga dalla Mecca. In questo senso Abū Bakr dice:

Essi [i Muhājirūn] sono stati i primi ad adorare Dio sulla terra e riporre la loro fede in Lui e nel Suo Inviato. Sono i suoi [dell’Inviato] compagni più stretti e la sua famiglia e a loro più che a chiunque altro spetta questo ufficio [il califfato] dopo di lui. Soltanto un empio può opporvisi. O Ansār, [voi siete] coloro la cui eccellenza nella religione non può essere negata e la cui grande precedenza nell’Islam non può essere negata. Piacque a Dio di fare di voi gli aiutanti della Sua religione e del Suo Inviato. Lo [l’Inviato] fece emigrare verso di voi e tra voi vivono la maggior parte delle sue mogli e dei suoi Compagni. Dopo i primi emigrati, nessuno più di voi gode della nostra stima. Perciò noi siamo i governanti (al-umarā’) e voi siete i ministri (al-wuzarā’). Noi non manchiamo di consultarvi in merito alle questioni politiche e non decidiamo alcuna questione senza di voi[6].

Analizzando questo proclama, Asma Afsaruddin nota come i due elementi più importanti del discorso di Abū Bakr siano la precedenza e la priorità, la cui congiunzione colma gli individui di eccellenza morale[7]. Se si combinano le riflessioni sull’incidente della Saqīfa con quelle circa il discorso di Abū Bakr, emerge come la nozione primitiva di autorità dopo la morte del Profeta sia stata fondata sull’istituzione di un’unica autorità politica, basata sulla precedenza religiosa e sull’eccellenza morale, a cui si associava la consultazione tra le figure di spicco della comunità.

 

Questa concezione ampia dell’autorità, nei termini in cui si sviluppò subito dopo la morte del Profeta, trova conferma nella modalità di selezione dei tre califfi successivi e nei loro metodi di governo. Essa si applicava inoltre all’autorità religiosa in altri ambiti. Per esempio, dopo la morte del Profeta, c’era il desiderio di preservare la sua consuetudine, ma ciò non avvenne primariamente attraverso lo strumento testuale. L’attenzione si concentrò piuttosto sulla preservazione della pratica comunitaria dei Compagni, considerata emblematica della pratica e della tradizione del Profeta.

 

Scott Lucas, per esempio, ha compiuto un’analisi quantitativa dei temi presenti nel Musannaf di Ibn Abī Shayba, una delle più antiche raccolte di tradizioni esistenti, risalente alla fine del II/VIII secolo, dimostrando che soltanto l’8,7% delle 3628 narrazioni riportate dall’autore è effettivamente attribuito al Profeta[8]. Gli argomenti trattati nel testo comprendono la preghiera, la zakāt (elemosina rituale), il divorzio, i crimini hadd (particolari fattispecie penali previste dal Corano) e altre questioni legate alla devozione quotidiana e alla comunità. La maggior parte dei detti è attribuita ai Compagni del Profeta, e anche quando il Profeta è citato quale autorità, in suo supporto viene riportata anche l’opinione di un Compagno. Secondo Lucas, il testo è esemplificativo della mentalità diffusa nel II-III/VIII-IX secolo, secondo la quale la consuetudine dei Compagni del Profeta era effettivamente la consuetudine del Profeta e se si voleva sapere che cosa avesse fatto quest’ultimo bastava guardare a quello che facevano i Compagni. Pertanto, le parole del Profeta passavano per la consuetudine dei Compagni. Ciò significa che la precedenza e l’eccellenza morale erano il metro per misurare l’idoneità di chi era chiamato ad assumere l’autorità politica o religiosa.

 

Questo modo d’intendere l’autorità ebbe tuttavia vita breve. All’epoca dei primi quattro califfi seguì infatti il potere dinastico, segnatamente il regno dei Banū Umayya o omayyadi. Le guide non furono più scelte sulla base della precedenza religiosa e dell’eccellenza morale, ma in virtù della loro appartenenza tribale. Il primo califfo ad assumere il potere sotto la bandiera degli omayyadi, nel 661, fu Mu‘āwiya, cugino del terzo califfo ‘Uthmān Ibn ‘Affān. Mu‘āwiya fu criticato quasi subito per aver introdotto l’idea della regalità (mulk), avendo giustificato la sua posizione su base tribale. Egli nominò poi il figlio Yazīd come suo successore e da quel momento fino alla deposizione degli omayyadi per mano degli abbasidi nel 750 la successione ereditaria divenne il modello di governo per eccellenza. Di conseguenza quasi tutti i primi califfi omayyadi, ad eccezione di ‘Umar Ibn ‘Abd al-‘Azīz, sono dipinti nei testi storici come «tiranni empi che si sono fatti beffa degli ideali più nobili dell’Islam e hanno causato la frammentazione irrevocabile della città islamica»[9]. Emblematico della loro sfrontatezza è il titolo da loro adottato, Khalīfat Allāh (“vicario di Dio”), laddove i primi quattro califfi si erano definiti Khalīfat Rasūl Allāh (“successore del Messaggero di Dio”).

 

È in questo contesto di leadership tribale ed empia che i proto-sciiti avanzarono la pretesa di guidare la comunità, sostenendo che il legame di sangue che univa ‘Alī, il quarto Califfo e cugino del Profeta, a Muhammad era più stretto rispetto a quello degli omayyadi. Gli scontri tra gli omayyadi e i proto-sciiti raggiunsero l’apice con Husayn, il cui tragico massacro a Kerbala nel 680 macchiò ulteriormente l’immagine degli omayyadi, «detentori senza scrupoli del potere politico»[10]. Nonostante l’immagine negativa degli omayyadi, il loro regno durò quasi un secolo, durante il quale assolsero il compito vitale di portare stabilità politica e spaziale alle terre islamiche di recente conquista. Tuttavia, nel momento in cui la successione divenne la modalità prevalente di accesso alla leadership politica, rendendo irrilevante la concezione iniziale, si produsse una biforcazione nella concettualizzazione dell’autorità. Dato che i califfi omayyadi erano scelti sulla base del lignaggio, essi non assumevano l’autorità religiosa, anche perché spesso mancavano di quell’eccellenza morale che il popolo desiderava. Perciò, se per ragioni pragmatiche l’ereditarietà dinastica dell’autorità politica venne accettata per buona parte della storia islamica, la comunità ha dovuto fare i conti con la questione dell’autorità religiosa.

 

L’autorità religiosa

Il pensiero intellettuale islamico è dominato da diverse discipline, ciascuna delle quali possiede una storia unica e una serie propria di testi, tutti degni di essere presi in considerazione. Tuttavia, indagare tutte queste discipline e le strutture di autorità che esse contengono esula dall’ambito di questo articolo. Mi dedicherò perciò a un compito più abbordabile. In primo luogo, vorrei capire la ragione dell’esistenza di tante discipline distinte e il ruolo che queste hanno svolto nello sviluppo del pensiero intellettuale islamico. In secondo luogo, indagherò che cosa legasse queste discipline. In terzo luogo, analizzerà l’evoluzione della legge islamica e la sua struttura di autorità. In tal modo vorrei dimostrare come essa sia emblematica di tendenze più ampie emerse nella storia intellettuale islamica.

 

Partiamo dalla prima domanda: perché tante discipline? Come detto, al tempo del profeta, quest’ultimo era depositario di tutto il sapere religioso ed era considerato infallibile per il suo rapporto immediato con Dio. Con la sua scomparsa la figura dell’intermediario infallibile cessò di esistere e la comunità comprese che nessuno avrebbe potuto prendere il suo posto. Ciò significava che se occorreva preservare, studiare e trasmettere tutte le forme discrete di conoscenza possedute dal Profeta, questo compito non poteva essere assunto da un singolo individuo. Nell’ambito della legge, per esempio, tutti i Compagni possedevano un sapere giuridico di base che derivava dalla loro partecipazione alla comunità musulmana. Ma, dopo la morte del Profeta, soltanto sette di loro furono considerati qualificati a emettere decisioni giuridiche su questioni specifiche.

 

Lo stesso vale per il Corano: decine di Compagni lo avevano imparato a memoria, ma solo alcuni furono selezionati per partecipare al processo di compilazione del testo ufficiale. Notiamo così che, quasi subito dopo la morte del Profeta, emergono vari specialisti, ciascuno per elementi diversi del pensiero islamico, sulla base del loro sapere in materia. Sia la segmentazione che la specializzazione della conoscenza sono dunque stati una conseguenza diretta della morte del Profeta. Questi due elementi hanno percorso tutta la storia islamica, dando vita a un sistema in cui un individuo poteva avere un’autorità giuridica ma non un’autorità teologica, e viceversa. La segmentazione delle discipline diventò perciò una delle prime modalità con cui la pluralità si introdusse nel mondo intellettuale islamico. Se qualcuno avesse accampato la pretesa di essere un’autorità in tutte le discipline, avrebbe di fatto rivendicato una prerogativa profetica; il massimo a cui si poteva aspirare era la competenza in un ambito specifico. Sorge però una domanda: perché ogni ambito ha più fonti di autorità? La segmentazione e la specializzazione non erano sufficienti a impedire a un individuo di avanzare pretese profetiche? La risposta a questa domanda risiede nella teologia e nell’epistemologia dell’Islam, che passiamo ora a esaminare.

 

L’Islam è stato spesso descritto come un monoteismo radicale. L’elemento “radicale” di questo monoteismo deriva dall’affermazione teologica di una distinzione esasperata tra Dio, quale creatore, e gli esseri umani, quali creature. Stabilire una somiglianza tra Dio e l’uomo è una forma di eresia e, sebbene gli attributi di Dio possano ritrovarsi negli esseri umani, essi devono essere intesi come completamente diversi gli uni dagli altri. Anche i profeti, considerati esseri perfetti, non partecipano della divinità. L’enfasi posta sulla sovranità divina e sulla natura infinita di Dio è considerata nella sua contrapposizione con l’esistenza temporale degli esseri umani e con la loro finitezza. Secondo la maggior parte dei teologi musulmani, la rivelazione occupa un posto tanto fondamentale nelle vite degli individui perché consente agli esseri umani di accedere alla conoscenza divina e, per estensione, ricevere un orientamento. Data la centralità della rivelazione e del messaggio di Dio, i musulmani hanno abbracciato quello che Bernard Weiss ha definito un approccio testuale e intenzionalista al testo[11]. Con questa formula Weiss sottolinea che l’obiettivo principale dei musulmani era capire l’“intenzione” divina attraverso il “testo” rivelato. In questo senso, la ragione umana era uno strumento importante per comprendere la conoscenza divina, ma non poteva funzionare in maniera indipendente, bensì doveva seguire parametri fissati dalla rivelazione stessa.

 

Sebbene questa tendenza testuale e intenzionalista fosse teoricamente conforme al monoteismo radicale tipico dell’Islam, interpretare il Corano non era un compito facile. La complessità linguistica del testo, la sua struttura non lineare, la natura frammentaria della rivelazione, i suoi diversi contesti e i molteplici dialetti usati nella sua trasmissione resero molto difficile la convergenza su un’interpretazione unitaria. Inoltre, per quanto l’intelletto umano fosse considerato uno strumento di interpretazione adeguato, in ultima analisi esso era ritenuto fallibile. Di conseguenza, i tentativi umani di decifrare l’intenzione divina erano considerati alla stregua di interpretazioni possibili. Questo probabilismo[12] significava che mentre agli studiosi era affidato il compito di comprendere l’intenzione divina sulla base delle fonti scritturali, essi dovevano accettare l’esistenza di più opinioni legittime. La legittimità del probabilismo era una conseguenza naturale di un approccio testuale e intenzionalista al Corano che affermava la sovranità divina. Essa era inoltre la naturale conseguenza di un approccio segmentato e specializzato al sapere, che riconosceva come determinati temi trattati nel Corano richiedessero degli esperti, vista l’assenza di un’unica guida infallibile. Nel loro insieme, segmentazione, specializzazione, testualismo, intenzionalismo e probabilismo preclusero, in linea teorica, l’esistenza di un’unica fonte di autorità religiosa.

 

L’autorità nel diritto islamico

Quando si parla di autorità, molte discipline meriterebbero un approfondimento specifico, ma il caso del diritto islamico è particolarmente istruttivo. Se la teologia è sempre stata considerata “la più elevata delle scienze”, le persone comuni sono spesso all’oscuro delle complesse questioni teologiche che vanno oltre i fondamenti della fede. Il diritto invece è un elemento pervasivo della vita quotidiana per via del culto. Peraltro, molte delle fratture che attraversano il campo dell’autorità nell’Islam contemporaneo riguardano proprio il diritto.

 

Innanzitutto, come ho rilevato analizzando il periodo post-profetico, l’autorità dopo l’epoca dei primi quattro califfi fu molto segmentata e il capo politico non fu più considerato come detentore di un sapere religioso elevato o di un’autorità religiosa. Come ha notato Scott Lucas, in questo periodo, curiosamente, l’autorità del Profeta in quanto legislatore non si era ancora completamente affermata. Per quanto nella mente dei musulmani il Profeta continuasse a essere il tramite dell’orientamento divino, le persone si concentravano piuttosto sui detti e sulla pratica dei suoi Compagni. Nel testo analizzato da Lucas, ciò si vede dal fatto che le norme e le giustificazioni giuridiche relative agli atti di culto si fondano sulla pratica dei Compagni anziché su precetti espliciti del Profeta. Questo incise profondamente sul diritto islamico.

A differenza di quanto avvenne con la formalizzazione del testo coranico subito dopo la morte del Profeta, nel campo del diritto non si procedette subito alla compilazione di raccolte canoniche dei suoi detti. A emergere nel II/VIII secolo furono invece autorità giuridiche locali. Queste prime comunità giuridiche sono state definite in vari modi. Joseph Schacht, orientalista “classico”, le chiama «scuole antiche», George Makdisi le designa come «scuole locali» e più recentemente Wael Hallaq ha parlato di «scuole personali»[13]. Pur divergendo sulla terminologia più adatta a indicare queste prime scuole, tutti e tre gli studiosi concordano sul fatto che esse fossero prive della teoria giuridica, delle strutture interne e delle teorie dell’autorità tipiche di un madhhab o scuola giuridica in senso pieno. Ciò di cui queste scuole disponevano erano studiosi con una raffinata conoscenza del sapere islamico, derivata il più delle volte dai legami, diretti o tramite terzi, con i Compagni. Pertanto, esse erano considerate molto autorevoli e legittime sulla base del modello di autorità che riconosceva la precedenza e l’eccellenza morale dei Compagni. Sebbene inizialmente ci fossero molte scuole, le due più antiche sopravvissute fino a oggi sono la scuola hanafita, fondata da Abū Hanīfa (m. 767) e la scuola malikita, fondata da Mālik Ibn Anas (m. 795).

 

Mālik Ibn Anas emerse rapidamente come un giurista meticoloso dedito a preservare la pratica della gente di Medina, che riteneva emblematica della pratica del Profeta. La scuola di Abū Hanīfa invece si sviluppò nella città guarnigione di Kufa, dove l’accesso ai Successori (coloro che avevano conosciuto i Compagni del Profeta e studiato con loro) e alla consuetudine dei Compagni era molto più limitato. Di conseguenza Abū Hanīfa si affidava alle poche autorità disponibili e cercava di derivare precedenti e principi da norme antecedenti per poi applicarli ad altri casi. Sebbene Mālik e Abū Hanīfa adottassero metodologie differenti, entrambi compresero la necessità di un orientamento giuridico permanente e di autorità in determinate località. Le loro differenze metodologiche si possono cogliere nei testi. Per esempio, se si confronta il Kitāb al-Athār di Abū Hanīfa, raccolto dal suo allievo Muhammad al-Shaybanī, e il Muwatta’ di Mālik, a colpire è soprattutto il fatto che, nonostante trattino di questioni pressoché identiche, le tradizioni che riportano non coincidono quasi mai. L’assenza di autorità condivise, a parte il Profeta, e di narrazioni condivise, dimostra che nella fase formativa del diritto islamico l’autorità non era affatto unitaria. Tornando alle considerazioni precedenti sull’imperativo teologico di fonti molteplici di autorità, vediamo ora che il modo in cui il diritto islamico si è sviluppato in località diverse, sulla base di individui e metodologie diversi, ha fatto sì che, per ragioni molto pratiche, vi fosse una certa resistenza all’accentramento dell’autorità.

 

Sarebbe stato praticamente impossibile cercare di imporre a un piccolo gruppo di musulmani che vivevano in una lontana città guarnigione le conclusioni a cui era arrivato Mālik derivandole dalle fonti giuridiche che aveva a disposizione a Medina. Sebbene fossero entrambe città importanti per la comunità musulmana, Medina e Kufa erano molto diverse tra loro. Una era al centro del mondo musulmano, l’altra alla sua periferia. Una traboccava di memoria profetica, l’altra ospitava un piccolo gruppo di musulmani, spesso convertiti. Una era fonte di stabilità per tutto l’impero musulmano, l’altra era una città guarnigione che proteggeva le terre musulmane. Se il diritto è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui viene prodotto, non soltanto i giuristi avevano personalità proprie e fonti di autorità diverse, ma erano diversi anche i loro contesti. Perciò, nonostante sul piano teologico fossero uniti sotto la bandiera dell’Islam, essi presentavano differenze a livello di prescrizioni giuridiche, differenze che erano considerate legittime e necessarie.

 

In genere gli studiosi hanno definito quest’epoca come la prima fase dello sviluppo del diritto islamico. Anche se in quest’epoca i fondamenti del diritto islamico erano già stati concettualizzati, la teoria giuridica era perlopiù inesistente e per quanto la diversità nell’autorità fosse accettata, alla fine i giuristi si resero conto che tale diversità doveva essere contenuta o avrebbe aperto le porte a un relativismo interno al diritto che ne avrebbe minato il fine religioso.

 

La seconda fase dello sviluppo del diritto islamico è spesso ricondotta a Muhammad Ibn Idrīs al-Shāfi‘ī (m. 820). Gli studiosi sono spesso discordi su come classificare il suo ruolo nello sviluppo del pensiero giuridico islamico. Ciononostante, vi è un consenso generale sul fatto che il contributo più duraturo di al-Shāfi‘ī sia stato l’affermazione dell’autorità del Profeta nell’ambito del diritto. Prima di al-Shāfi‘ī, il Profeta era considerato indubbiamente una figura importante, ma non la fonte preminente per la derivazione delle norme giuridiche. All’epoca si poneva un accento maggiore sul consenso, sulle opinioni e sulla pratica dei Compagni. Al-Shāfi‘ī affermò invece che l’orientamento giuridico offerto dal Profeta stava sullo stesso piano di quello offerto dal Corano e per questo, nell’ambito del diritto positivo, il giurista doveva considerare il Corano e gli hadīth prima di rivolgersi alla pratica dei Compagni, al consenso dei giuristi (ijmā‘) o al ragionamento giuridico indipendente (ijtihād). Inizialmente il nuovo paradigma di Shāfi‘ī incentrato sugli hadīth incontrò alcune resistenze, ma poi il sistema si consolidò nell’immaginario giuridico. Il lavoro di compilazione e convalida degli hadīth rappresentò il passo successivo. I giuristi facevano già riferimento ai detti del Profeta ed esistevano dei testi che li raccoglievano, ma per utilizzarli come fonte primaria del diritto era necessario raccoglierli tutti e sottoporli a critica e verifica. Questo processo iniziò durante l’epoca di Shāfi‘ī, ma si consolidò con Muhammad al-Bukhārī (m. 870), che redasse quella che sarebbe diventata una delle raccolte più autorevoli di hadīth, il Sahīh al-Bukhārī. La raccolta era pensata in modo da contenere soltanto hadīth rigorosamente convalidati, così da poter essere relativamente sicuri che i detti fossero effettivamente parole del Profeta. Con il Corano, il Sahīh al-Bukhārī e alcuni altri testi simili andarono così a completare il canone delle scritture islamiche[14].

 

Accanto a questo processo, le scuole giuridiche continuarono a sviluppare e sistematizzare la loro teoria giurisprudenziale. Il fondamento di tale teoria era, ovviamente, l’accordo sulle fonti del diritto. Una volta canonizzati gli hadīth e accettato il paradigma “hadītho-centrico” di Shāfi‘ī, emerse la cosiddetta “Grande Sintesi”. L’espressione, coniata da Wael Hallaq, fa riferimento all’accordo delle scuole giuridiche sulle quattro principali fonti da utilizzare per la derivazione del diritto: Corano, hadīth, consenso giuridico (ijmā‘) e ragionamento giuridico indipendente (ijtihād). A questo accordo sulla metodologia giuridica si aggiunsero tre altri fenomeni, che contribuirono all’ascesa e all’affermazione di quattro scuole giuridiche. Tali fenomeni furono la creazione di un’identità di gruppo, di una letteratura comune che rifletteva una comune metodologia, e di un discorso intellettuale condiviso. Come ha sostenuto recentemente Ahmad El Shamsy, questi tre elementi trasformarono le scuole locali, personali e religiose delle prime generazioni in scuole giuridiche a tutti gli effetti, riconosciute come tali tra la fine del IX e l’inizio del X secolo. In breve, Shamsy sostiene che al di là della metodologia, a consolidare le scuole giuridiche in via di formazione fu l’identità di gruppo, o il fatto che i seguaci della scuola, pur riconoscendo la legittimità di altre scuole, restavano fedeli all’eponimo della loro scuola e alla metodologia giuridica da questi adottata. In seguito, questa fedeltà si sarebbe tradotta in testi scritti, che fossero commenti ai testi originali o nuovi testi. Le scuole svilupparono così un corpus di testi che rifletteva una particolare metodologia[15]. L’accumulo di questi testi nel tempo creò ciò che Shamsy definisce un discorso intellettuale condiviso, o una comunità d’interpretazione, dall’autorità consolidata a livello sia teorico che pratico. La legittimità di una scuola passava per un insieme di fonti condivise, mentre le differenze tra le varie scuole derivavano dal disaccordo su come queste fonti dovessero essere utilizzate o sulla metodologia con cui derivare il diritto da questo insieme di fonti condivise.

 

Il riconoscimento teologico della fallibilità, unitamente a metodologie e sviluppi storici differenti, diede così origine a molteplici poli di autorità giuridica, che si riconoscevano come reciprocamente legittimi. Gli sviluppi storici furono particolarmente importanti in quanto lasciarono un segno indelebile sulla metodologia. La scuola malikita fondata a Medina, per esempio, riconosce la consuetudine e la pratica di Medina quale fonte del diritto, mentre la scuola shafiita, che si è sviluppata in Egitto, non riconosce la consuetudine di Medina, ma attribuisce una grande importanza allo hadīth e adotta una complessa e sofisticata teoria ermeneutica nell’accostarsi alle fonti scritturali.

 

Sebbene le quattro scuole che avrebbero dominato la scena giuridica abbiano riconosciuto la loro reciproca legittimità, sia per ragioni pratiche che per ragioni teologiche, tra di esse e tra alcune altre scuole giuridiche che non sono sopravvissute, si aprì un dibattito sulla molteplicità ontologica della verità (ta‘addud al-haqq). Tre erano i quesiti che i giuristi si ponevano: se tutti i giuristi (mujtahid) avessero ragione in materia giuridica; se, nel caso in cui un solo mujtahid avesse ragione, gli altri avessero torto e fossero per questo meritevoli di riprovazione; e se fosse possibile sapere quale mujtahid avesse ragione.

 

In generale si concordò sul fatto che, per le questioni dotate di prove dirimenti o apodittiche, solo un mujtahid potesse avere ragione. Questo caso si applicava alle questioni giuridiche definite così chiaramente nel Corano e negli hadīth che negarle sarebbe stato logicamente impossibile, equivalendo a negare le stesse fonti scritturali. La divergenza sorse attorno alla domanda se tutti i mujtahid avessero ragione quando si trattava di questioni prive di prove apodittiche. Un gruppo, i musawwiba, sostenne che tutti i mujtahid avessero ragione e che i decreti di Dio corrispondessero all’opinione di ciascuno di essi. In realtà, secondo loro tutti i mujtahid avevano ragione perché per le questioni prive di prove apodittiche non esiste un decreto divino. I detrattori dei musawwiba, noti come mukhatti’a, sostenevano invece che, indipendentemente dalle prove, esiste un decreto divino per ogni circostanza, e che un solo giurista ha ragione mentre gli altri hanno torto. Alcuni giuristi assunsero una posizione mediana, affermando che esiste una sola verità ma che questa è imperscrutabile. Perciò, in caso di divergenza giuridica, la questione andava delegata al giudice. A loro avviso, poiché la verità è imperscrutabile non si può sapere quale mujtahid abbia ragione e quale torto.

 

Ora, la posizione che finì per prevalere è quella dei musawwiba, secondo la quale di fronte a una questione solo probabile, la verità del caso giuridico, o la risposta corretta, è presente nella mente di Dio ma rimane sconosciuta ai giuristi. I giuristi che giungono alla risposta errata non vanno biasimati, purché cerchino la risposta giusta attraverso una metodologia precisa[16].

 

Ridurre la pluralità

Per quanto la pluralità fosse accettata, i giuristi desideravano comunque limitarla, sia all’interno delle singole scuole, sia tra i madhhab. Molti furono i meccanismi messi in atto per conseguire questo obiettivo, ma mi concentrerò in particolare su quattro di essi: la dottrina del consenso, la coppia ijtihād/taqlīd, la nozione di tarjīh e la dialettica (jadal).

 

Il consenso giuridico (ijmā‘) era una delle quattro fonti principali del diritto, sulla quale concordavano tutte le scuole giuridiche. La dottrina del consenso era relativamente semplice per le questioni prive di indicazioni scritturali chiare e perciò considerate epistemicamente probabili: se i giuristi di una data epoca avevano concordato su una norma giuridica, tale questione cessava di essere epistemicamente probabile, diventando epistemicamente certa. Ciò significa che diventava vincolante per tutti i musulmani, indipendentemente dalle loro diverse affiliazioni giuridiche. Benché i casi di consenso non siano molti nella storia giuridica islamica, l’esistenza di questa dottrina dimostra che i giuristi cercavano di limitare le differenze sorte nel diritto. Probabilmente, l’aspetto più significativo di questa dottrina è il desiderio implicito dei giuristi di trovare un accordo su questioni che avrebbero potuto incidere su ampie fasce della popolazione musulmana. Se teoricamente la dottrina del consenso potrebbe essere applicata a qualsiasi questione giuridica epistemicamente probabile, di fatto i giuristi convergeranno soltanto su questioni dal forte rilievo sociale. Possiamo pertanto osservare che, storicamente, quando si produsse il consenso, esso divenne significativo. Nel prenderne atto, al-Ghazālī offre una spiegazione razionale della legittimità del consenso sulla base della sua natura miracolosa. Egli sostiene che se giuristi di orientamenti diversi e società diverse giungono a concordare su una singola questione è certamente per effetto di un aiuto divino.

 

Il secondo meccanismo di mitigazione della pluralità è stato il taqlīd. Esso è stato inteso dall’accademia occidentale come “imitazione cieca” e gli studiosi lo hanno considerato emblematico della pochezza del pensiero giuridico dopo il XIII secolo. Tuttavia, più recentemente, l’accademia ha riconosciuto che il taqlīd non marca il declino del pensiero giuridico islamico, ma costituisce un segno della sua maturità. Sia Wael Hallaq che Sherman Jackson sostengono che il taqlīd sia indicativo della stabilità conseguita dal diritto islamico grazie all’accordo raggiunto su un insieme di parametri metodologici per la derivazione del diritto[17]. Se infatti l’“imitazione cieca” era incoraggiata per le persone comuni, il pensiero giuridico continuò a prosperare attraverso i dibattiti interni alle scuole. La derivazione giuridica perciò non si arrestò, seppur entro i limiti posti dalla metodologia e dalla competenza giuridica. Ciò significa che soltanto i giuristi di un certo livello potevano intraprendere un ragionamento indipendente all’interno della struttura del madhhab, adottando un determinato apparato metodologico.

 

Il terzo meccanismo di attenuazione della pluralità giuridica e della differenza è il processo del tarjīh, o preponderanza. Benché all’interno di un singolo madhhab si seguisse una metodologia comune, giungere a opinioni divergenti era non solo possibile, ma probabile. In effetti, gli studenti dei capi scuola erano famosi sia per trasmettere le opinioni del maestro sia per il fatto di dissentire gli uni dagli altri. Se da un lato questa diversità interna al madhhab segnalava la vitalità della scuola, dall’altro crebbe nel tempo il bisogno di stabilire il primato di una singola dottrina sulle altre. Secondo Mohammad Fadel, questa necessità si fece più forte nel XIII secolo, quando i giudici nei tribunali non furono più qualificati a esercitare l’ijtihād e le pressioni politiche andavano nel senso di una replicabilità delle sentenze all’interno del tribunale. Il risultato fu l’affermazione di un genere specifico di scritti giuridici, noto come mukhtasar. Questi manuali erano spesso compendi di testi di diritto positivo più lunghi e complessi, ma anziché fornire i vari pareri giuridici su una singola questione offrivano solo la norma preponderante nel madhhab[18]. Tali testi divennero centrali nella legiferazione e nell’insegnamento del diritto islamico. Sebbene non abbiano limitato lo sviluppo giuridico e le divergenze, tanto che gli stessi giudici dei tribunali continuarono a ricorrere a pareri giuridici non presenti nei testi, questi compendi sono stati una fonte importante di autorità e stabilità.

 

L’ultimo metodo di contenimento della pluralità del diritto è il jadal, o disputa dialettica. Da lungo tempo i testi di jadal sono riconosciuti come genere letterario specifico all’interno del diritto islamico, ma solo recentemente ne sono state intraprese analisi più complete. La funzione di questi trattati dialettici era informare e formare i giuristi su come eliminare i pareri giuridici molteplici su una singola questione al fine di restringere il campo delle norme giuridiche probabili (zannī). Il jadal pertanto non era impiegato come meccanismo per derivare ulteriori pareri giuridici, ma per restringere il campo delle norme probabili che i giuristi avevano già derivato. Le dispute dialettiche avevano luogo sia tra giuristi di scuole giuridiche diverse sia all’interno di una singola scuola. L’obiettivo delle dispute interne a una scuola era individuare il parere più solido. Da questo punto di vista, il jadal può anche essere considerato un meccanismo per determinare l’opinione preponderante di una scuola[19].

 

Oltre a questi quattro meccanismi per ridurre il grado di pluralità giuridica all’interno del madhhab, ce n’erano altri che consentivano persino di sospendere le norme preponderanti di una scuola giuridica. I giuristi potevano invocare la dottrina della necessità (darūra), ricorrere alla dottrina della ragione pubblica (maslaha), abbandonare l’opinione preponderante a favore di un’altra più vantaggiosa per l’individuo (istihsān) e prendersi delle licenze giuridiche, ciò che spesso significava seguire le opinioni di altre scuole (tattabu‘ al-rukhas), solo per citarne alcuni. Per ciascun meccanismo di riduzione della pluralità del diritto, c’era un meccanismo di sospensione della norma predominante e una metodologia per la derivazione giuridica. La giustificazione teologica e, di fatto, la necessità di avere molteplici poli di autorità fecero sì che, per quanto i giuristi sentissero il bisogno di limitare la pluralità giuridica, non manifestarono il desiderio di eliminarla del tutto.

 

Un difficile equilibrio

Per comprendere la questione dell’autorità occorre pertanto capire la teologia dell’Islam, che aderisce a un monoteismo radicale. Questo monoteismo radicale, unito alla credenza nella definitività della profezia di Muhammad, significava, almeno per i sunniti, che nessun individuo potesse assumere l’autorità dopo la morte del Profeta. Impedire l’autorità di un singolo individuo significava accettare la pluralità e, per estensione, la probabilità. Con il progresso del pensiero intellettuale islamico, ciò condusse alla segmentazione delle discipline e alla specializzazione degli studiosi. Questi ricevevano legittimità e autorità sulla base del loro sapere, delle metodologie adottate, dell’attenzione per l’intenzione divina, e della dedizione al testualismo nei loro sforzi intellettuali. In questo modo, sebbene non esistesse una sola fonte di autorità, nell’Islam divenne possibile affermare con un certo grado di certezza se una persona era autorevole e se il suo pensiero era legittimo o normativo. E tuttavia, anche se i vari poli di autorità esistenti in epoca classica furono in grado di dare struttura e coerenza, avere una struttura polivalente dell’autorità non è esente da pericoli. Da un lato essa può diventare troppo informe per essere efficace, dall’altro può essere spinta al punto da rendere l’autorità autoritaria. A questo proposito, e nonostante vi sia stata anche nel mondo classico una resistenza alla pluralità, la contestazione più marcata ha avuto luogo in epoca moderna.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

 
1 Richard Bulliet, The Crisis Within Islam, «The Wilson Quarterly» 26 (2002), n. 1, pp. 11-12.
2 Alasdair MacIntyre, Whose Justice? Which Rationality?, Notre Dame University Press, Notre Dame 1989, p. 6.
3 Talal Asad, The Idea of an Anthropology of Islam, «Qui Parle» 17 (2009), n. 2, pp. 1-30.
4L’idea di eccellenza religiosa e morale come visione di un governo legittimo è mutuata da Asma Afsaruddin. Si veda Asma Afsaruddin, The First Muslims: History and Memory, OneWorld Publications, Oxford 2007, cap. 2.
5 Nella Saqīfa (lett. “porticato”) dei Banū Sā‘ida si svolse una concitata riunione subito dopo la morte di Muhammad, al termine della quale fu eletto come suo successore il Compagno Abū Bakr (NdR).
6 Si veda ibidem, p. 21.
7 Ibid., pp. 19-25.
8 Scott Lucas, Where are the Legal Hadīth? A Study of the Musannaf of Ibn Abī Shayba, «Islamic Law and Society» 15 (2008), pp. 283-314.
9 Asma Afsaruddin, The First Muslims, p. 78.
10 Ibidem, p. 79
11 Bernard Weiss, The Spirit of Islamic Law, Georgia University Press, Atlanta 2006, capitolo 3.
12 Questo tema quale fondamento del diritto islamico è trattato anche da Bernard Weiss. Si veda ibidem, capitolo 5.
13 Per un approfondimento sullo sviluppo delle scuole giuridiche si veda George Makdisi, The Guilds of Law in Medieval Legal History: An Inquiry into the Origins of the Inns of Court, «Cleveland State Law Review» 34 (1986), n. 3, pp. 3-18; Wael Hallaq, The Origins and Evolution of Islamic Law, Cambridge University Press, Cambridge 2001; Id., From Regional to Personal Schools of law? A Reevaluation, «Islamic Law and Society» 8 (2001), n. 1, pp. 1-26; Nimrod Hurvitz, Schools of Law and Historical Context: Re-Examining the Formation of the Hanbalī Madhhab, «Islamic Law and Society» 7 (2000), n. 1, pp. 37-64; Christopher Melchert, The Formation of the Sunni Schools of Law: 9th-10th Centuries, Brill, Leiden 1997; Norman Calder, Studies in Early Islamic Jurisprudence, Clarendon Press, Oxford 1993; Bernard Weiss, The Maddhab in Islamic Legal Theory in P.J Bearman, Rudolph Peters and Frank Vogel (a cura di), The Islamic School of Law: Evolution, Devolution and Progress, Islamic Legal Studies Program, Harvard Law School, Cambridge (MA) 2005, pp. 1-9.
14 Per la compilazione degli hadīth e la creazione di un canone si veda Jonathan Brown, The Canonization of al-Bukharī and Muslim, Brill, Leiden 2007; Id., Ḥadīth: Muhammad’s Legacy in the Medieval and Modern World, OneWorld Press, New York 2009.
15 Ahmed El Shamsy, The Canonization of Islamic Law: A Social and Intellectual History, Cambridge University Press, Cambridge 2015.
16 Per una breve panoramica di questo dibattito si veda Ahmed Fekry, Pragmatism in Islamic Law: A Social Intellectual History, Syracuse University Press, Syracuse 2015, pp. 49-60.
17 Wael Hallaq, Was the Gate of Ijtihad Closed?, «International Journal of Middle East Studies» 16 (1984), pp. 3-41 e Sherman Jackson, Islamic Law and the State: The Constitutional Jurisprudence of Shihāb al-Dīn al-Qarāfī, Brill, Leiden 1996, pp. 73-102.
18 Mohammad Fadel, The Social Logic of Taqlīd and the Rise of the Mukhtaṣar, «Islamic Law and Society» 3 (1996), n. 2, pp. 193-233.
19 Wael Hallaq afferma: «Nel contesto islamico, la dialettica giuridica era considerata un mezzo efficace per giungere alla verità su una particolare questione […]. Ridurre al minimo le divergenze di opinione su una questione giuridica specifica era della massima importanza dato che la verità è una, e per ogni caso c’è una sola soluzione giusta. Almeno sul piano teorico – e presumibilmente anche nella pratica – la dialettica serviva a ridurre al minimo il pluralismo giuridico nell’Islam». Gli studiosi più recenti di jadal concordano con Hallaq sulla natura di “ricerca della verità” del jadal, ma non ritengono che fosse pensato per ridurre al minimo il pluralismo giuridico. Larry Miller nota che il jadal era un «metodo valido per raggiungere la verità» e Walter Young lo definisce un processo di «ricerca della verità». Si veda Wael Hallaq, A Tenth-Eleventh Century Treatise on Juridical Dialectic, «The Muslim World» n. 3-4 (1987), pp. 197-206; Larry Miller, Islamic Disputation Theory: A Study of the Development of Dialectic in Islam from the Tenth through Fourteenth Centuries, tesi non pubblicata, University Microfilms International, Michigan 1985, p. 9; e Walter Young, The Dialectical Forge: Juridical Disputation and the Evolution of Islamic Law, Springer, Switzerland 2016, p.1.