Sia Riyad che Mascate stanno portando avanti strategie di costruzione nazionale. Il progetto di MbS fa leva anche sulla dimensione militare, mentre il nuovo Sultano Haitham punta a superare l’identificazione esclusiva tra il suo Paese e Qaboos
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:32
[Questo è il secondo appuntamento con la miniserie dedicata ai processi di nation-building sviluppati dagli Stati del Golfo. Qui potete trovare il primo, dedicato agli Emirati Arabi Uniti]
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Nel tempo, Arabia Saudita e Oman hanno costruito identità nazionali strutturate e riconoscibili. Alle spalle, Riyad e soprattutto Mascate hanno infatti una lunga storia di unità e indipendenza, iniziata rispettivamente nel 1932 (data di costituzione del terzo regno Saudita) e tra le due date chiave del 1650 (cacciata dai portoghesi da Mascate nel 1650) e 1749 (fine dell’invasione persiana in Oman): ciò le differenzia, per formazione statuale, dai “giovani” Stati arabi del Golfo, come gli Emirati Arabi Uniti (EAU) o il Qatar. Ma adesso anche sauditi e omaniti sperimentano processi di evoluzione identitaria “dall’alto” come conseguenza indiretta delle rivolte arabe del 2011. È interessante allora tracciare e comparare i percorsi identitari che questi due Stati hanno intrapreso, soppesando il diverso ruolo che il fattore militare gioca nelle dinamiche contemporanee di nation-building.
In Arabia Saudita una nuova classe dirigente, formata da principi, tecnocrati, businessmen e capeggiata dal principe ereditario Mohammed bin Salman, ha scommesso tutto sulla “Vision 2030” come strumento di sostenibilità socio-economica, e anche politica, del sistema di potere del Regno. Un progetto così ambizioso richiede un supporto identitario-culturale altrettanto forte, rivolto soprattutto a chi dovrebbe trasformare il sogno post-idrocarburi in realtà: ovvero i giovani sauditi dei grandi centri urbani, molto istruiti, tecnologicamente connessi e dai gusti globalizzati, risiedenti in primis a Riyad. In Oman, la ridefinizione dell’identità nazionale è frutto delle proteste economico-sociali che si diffusero nelle principali città costiere (Sohar, Sur e Salalah), quando i manifestanti – chiedendo la riforma, non la caduta, del regime – “scoprirono” che anche il Sultano Qaboos, “padre della Nazione”, non era infallibile e poteva essere contestato. Da quel momento, la graduale distinzione tra l’immagine di Qaboos e la nazione è iniziata, dal basso, per poi accelerare, stavolta dall’alto, dopo la morte del Sultano, avvenuta nel gennaio 2020. Il concetto di rinascimento o risorgimento (nahda), identificato con la storia omanita post-1970, si rinnova per accompagnare il programma di diversificazione economica post-idrocarburi (“Vision 2040”).
In questi due teatri della Penisola Arabica, il fattore militare gioca un ruolo diverso a seconda della fase storico-culturale. E ora che il potere di Riyad strizza inusualmente l’occhio al mito della nazione forte e militarmente assertiva, il tempo delle forze militari come strumento di nation-building potrebbe affievolirsi a Mascate. Segno che la Nazione è un processo in costante divenire.
Geografie e dialettiche dell’identità nazionale in Arabia Saudita e Oman
«Educheremo i nostri figli e le nostre figlie persino all’ombra di un albero»
Arabia Saudita e Oman hanno in comune territori vasti e compositi per morfologia (entroterra vs aree costiere), varietà etnico-confessionali e specificità locali. Nel regno degli Al Saud, il paradigma islamico-tribale ha rappresentato – e continua a rappresentare – il fulcro degli equilibri statuali. L’idea di Arabia Saudita, nata nel centrale Najd e poi progressivamente allargata fino a comprendere l’entità statuale che oggi conosciamo (1932, con l’incorporazione dell’Asir nel 1934), è il prodotto dell’alleanza stretta nel 1744 fra il predicatore Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (padre del wahhabismo) e la dinastia tribale degli Al Saud, originari del Najd: ovvero din wa dawla, religione e Stato, come nell’essenza dello Stato islamico. Un’identità culturale che dal centrale Najd si è progressivamente estesa al resto del Paese vincendo, per ultime, le resistenze dei grandi rivali degli Al Saud, gli Hashemiti del Hijaz, portatori di una cultura più inclusiva e cosmopolita.
Nel Sultanato dell’Oman, una doppia dicotomia politico-culturale ha contraddistinto la storia nazionale, trovando una faticosa sintesi dal 1970 in poi: sultanato costiero e imamato ibadita nell’entroterra. Da un lato, le coste a vocazione marittimo-commerciale puntellate di grandi centri urbani – compresa la capitale Mascate – da cui l’élite mercantile, prima alleata del Sultanato ereditario, muove affari e memorie con il sostegno delle tante diaspore[1]. Dall’altro, l’entroterra di tradizione ibadita – con epicentro Nizwa, l’antica capitale del governo dell’imam – più povero ma legato a economie locali nonché alla tradizione consensuale, non ereditaria, dell’imamato; una terra che ha vivo il ricordo della guerra, quando l’imamato fu sconfitto dalle Forze armate del Sultano con l’appoggio dei britannici (i conflitti del Jabal Akdhar degli anni ’50)[2]. Non è un caso che le proteste del 2011 si siano sprigionate nelle città costiere, soprattutto Sohar, non nelle aree interne. In quei centri urbani “laboratori” di globalizzazione, giovani perlopiù disoccupati ed esclusi dalla redistribuzione della rendita hanno messo in discussione, per la prima volta, l’approccio distributivo, talvolta paternalistico, di Qaboos aprendo – indirettamente – il discorso sull’essenza della comunità nazionale[3]. Come osserva J.E. Peterson, l’Oman che fu un florido Sultanato marittimo-commerciale, esteso tra Mascate, Zanzibar (attuale Tanzania) e Gwadar (nel Makran-Balochistan, attuale Pakistan), fu una nazione prima di essere uno Stato. Al contrario, l’Oman è oggi uno Stato – corrispondente ai suoi soli confini – che sta elaborando il proprio essere nazione dentro i confini statuali omaniti[4].
Identità nazionali in divenire. La centralizzazione nazionalista saudita e la nuova nahda omanita
«Nel nostro giorno nazionale, noi ricordiamo la gloria del nostro padre fondatore Re Abdelaziz…e l’eroismo dei credenti che hanno sacrificato la loro vita per la nostra Patria»
Khalid bin Salman Al Saud, 2019
In Arabia Saudita e in Oman, nuove leadership stanno rimodulando, dall’alto, l’approccio all’identità nazionale. Tale sforzo, dagli esiti ancora aperti, intende tracciare orizzonti inediti (il nazionalismo saudita) o rinnovare i simboli della tradizione (il rinascimento omanita, fin qui identificato con il governo di Qaboos). In ogni caso, l’identità nazionale è sempre funzionale a un progetto politico più ampio. Mohammed bin Salman sta provando a ridisegnare l’identità culturale del regno: l’Arabia Saudita di domani si presenta come un Paese meno religiosamente connotato e più nazionalista[5]. Tale direzione permette di stemperare la pervasività del wahhabismo nella percezione pubblica (vedi il ruolo della muttawa, la polizia religiosa, ridimensionato nel 2016 con un decreto reale) e, al contempo, di diluire ulteriormente le differenze confessionali (minoranze sciite duodecimane e ismailite) e locali (periferie del Sud e dell’Ovest), in nome della leadership centralizzante di MbS. L’effetto indiretto della “Vision 2030” potrebbe essere la de-settarizzazione[6], poiché in un’epoca di mega-progetti e di enfasi nazionale, a Riyad non conviene inasprire i rapporti interni con gli sciiti. Ciò non equivale, però, ad abbracciare il pluralismo culturale-identitario, anzi: la rinuncia alle “identità altre”, di tipo confessionale o locale, potrebbe essere la precondizione affinché la centralizzazione nazionale targata MbS si realizzi anche in ambito identitario e culturale. Ne risulterebbe, quindi, un ulteriore colpo al pluralismo. Infatti, nel solco dei predecessori Fahd (1982-2005) e Abdullah (2005-2015), Mohammed bin Salman identifica la cultura del Najd, la regione centrale di provenienza della dinastia degli Al Saud, con quella dell’intera Arabia Saudita[7]. Ciò mette in ombra la pluralità culturale del Paese: per esempio, il crocevia di popoli dell’Hijaz, la regione orientale sciita di Qatif e Al-Ahsa, il Sud a presenza ismailita di Jizan, Asir e Najran.
Ma a differenza dei precedenti sovrani, la dinastia degli Al Saud e l’Islam, seppur fondamentali, fanno da sfondo alla leadership proposta, e imposta, da MbS. La rivalutazione del periodo anteriore alla nascita dell’Islam, per esempio con l’apertura turistica di luoghi simbolici della civiltà nabatea come al-Ula, nonché l’introduzione nei libri di testo della storia dell’Arabia preislamica, mostrano un passato in cui l’Arabia deserta era crocevia di mondi, permettendo quel “discorso della tolleranza” (che MbS ha importato dagli Emirati Arabi) rispetto alle altre fedi. Un discorso che può svolgersi, però, dentro il perimetro identitario-culturale disegnato dal principe ereditario, non parallelamente o in contraddizione allo stesso. La dinastia degli Al Saud è custode dei luoghi santi dell’Islam, Mecca e Medina e la religione è stata, e continua a essere, la prima fonte di legittimità familiare e di stabilità interna: ma a differenza del recente passato, adesso Riyad coltiva anche il senso di Nazione. Infatti, identità e appartenenza nazionale rafforzano la coesione sociale, necessaria in una fase di trasformazione economica che richiede adattamento, senso del dovere e del sacrificio. L’orgoglio nazionale diventa così manifestazione dell’obbedienza alla leadership. Infatti, l’esito della modernizzazione post-oil dell’Arabia Saudita dipende anche da un cambio di mentalità e di auto-percezione: i sauditi sono chiamati a uscire dall’agio garantito dalla rendita (rentier state), rimanendo però fedeli allo stesso modello politico autoritario. Nelle scuole saudite, i nuovi libri di testo descrivono le caratteristiche del “buon cittadino saudita”: egli è – o meglio dovrebbe essere nei desideri della leadership – «una persona che si comporta bene e segue gli insegnamenti dell’Islam moderato, ha un forte senso di appartenenza, lavora duro e gioca un ruolo attivo nella promozione degli obiettivi di prosperità del paese»[8]. Un profilo che riecheggia, anche in questo caso, il modello proposto nei vicini Emirati Arabi da Mohammed bin Zayed Al Nahyan.
Dunque, Mohammed bin Salman aspira a essere l’icona del nazionalismo saudita per ridurre i rischi che l’operazione “cambiamento economico-sociale per continuità politica” comporta. L’intento pedagogico, declinato in senso nazionalista da MbS, si intravede allora negli echi militaristi (esercitazioni e parate militari), negli investimenti nell’industria della difesa saudita, nei futuristici progetti architettonici (le nuove città come NEOM o i villaggi a vocazione turistica nelle isole del Mar Rosso), nell’apertura di musei nazionali, nonché nei richiami alla tradizione popolare (festival, poesie e canzoni patriottiche, dedicate anche ai soldati caduti in Yemen). Per esempio, la Festa nazionale del 2016 è stata celebrata con lo slogan, «i nostri eroi sono nel nostro cuore», con riferimento ai soldati sauditi dispiegati al confine yemenita. O ancora: nel 2018, il principe Khalid bin Faisal Al Saud, governatore di Mecca, ha scritto un popolare poema intitolato “Vorrei essere con voi” per sostenere e ringraziare le truppe saudite di confine. La centralizzazione personalistica perseguita dal principe ereditario, che è anche ministro della Difesa, passa per una graduale convergenza tra esercito e Guardia Nazionale, finora forze di contro-bilanciamento influenzate da diversi network della famiglia reale. C’è un evento della tradizione saudita in cui sfera militare e simboli nazionali si fondono: è il Festival di Janadriya, nato nel 1985 e organizzato dalla Guardia Nazionale, precursore del “nazionalismo militarizzato”. Infatti, il festival coniuga esibizioni militari, esposizioni d’armi, folklore nazionale (arte, letteratura, poesia, sport, musica) e padiglioni dedicati alle regioni saudite perché, sfruttando le parole del responsabile del Dipartimento educazione della Guardia Nazionale in occasione della prima edizione, Janadriya è stato inventato per «raccontare […] alla nuova generazione cosa fece la vecchia». In un appuntamento in cui valori militari e cultura popolare si rafforzano a vicenda, è significativa la mossa di MbS: dal 2020 il festival, organizzato dal ministero della Guardia Nazionale (le forze militari d’élite del regno), è passato sotto la responsabilità del ministero della cultura – più direttamente influenzabile dal principe ereditario. L’anno scorso avrebbe dovuto svolgersi nei giorni finali del G20 presieduto da Riyad, ma non si è tenuto a causa del Covid. Ma Janadriya punta in ogni caso a diventare la vetrina mondiale della nazione saudita.
In Oman comunicati ufficiali e media enfatizzano il rinascimento (nahda) del Paese sotto la guida del nuovo Sultano, Haitham bin Tariq Al Said, in carica dal gennaio 2020. Per gli omaniti, rinascimento è un termine molto evocativo, poiché direttamente legato all’inizio dell’era Qaboos nel 1970: ovvero alla costruzione dello Stato omanita contemporaneo – nonché all’identità della nazione Oman – dopo la pacificazione nazionale (il conflitto in Dhofar si concluse solo nel 1975). È qui che la figura carismatica di Qaboos e l’idea di nazione si sovrapposero: Qaboos divenne il “padre della Nazione”, inaugurando una fase di apertura economica, coesione sociale e prestigio regionale. Poi, la rivolta omanita del 2011 iniziò a minare, dal basso, la formula “Oman uguale Qaboos”. Adesso, il nuovo Sultano – e la comunicazione ufficiale – ridefiniscono il significato interno di nahda: l’obiettivo è de-personalizzare il concetto – non più identificato con il solo Qaboos ma con il Sultano come guida – e renderlo olistico, quindi applicabile all’intero percorso di trasformazione omanita, economia e società incluse.
In tale prospettiva, Haitham bin Tariq è rappresentato come «colui che ha promesso di portare avanti la marcia di costruzione della nazione» e i cittadini diventano parte del percorso di rinascimento poiché chiamati, in prima persona, a interpretarlo nelle scelte di ogni giorno: il quotidiano Times of Oman sottolinea «l’entusiasmo degli omaniti per un rinascimento ambizioso che include tutti gli ambiti della vita». Ecco che l’Oman conia le prime monete con il nome del nuovo Sultano nonché edizioni commemorative per i cinquant’anni dalla loro nahda, evocando «l’attuale marcia del rinascimento». Un mese dopo la scomparsa di Qaboos, il nome di quest’ultimo è stato tolto dall’inno nazionale, senza includere quello di Haitham: perché la Nazione non dovrà più essere identificata con un solo volto.
Analogie, differenze e rischi. I “cittadini ideali”, le periferie del potere e il ruolo cangiante del fattore militare
«La costruzione della nazione è una responsabilità che vincola tutti. Nessuno è escluso»
Haitham bin Tariq Al Said, 2020
In Arabia Saudita e in Oman, la proposizione dall’alto di un modello di “cittadino ideale” da parte delle classi dirigenti (come avviene anche negli Emirati Arabi e in Qatar), è un aspetto fondamentale dei progetti di nation-(re)building. Secondo i dati del Saudi Youth Development Survey pubblicato nel 2019, il 67 percento della popolazione saudita ha meno di 34 anni: il sondaggio vuole restituire l’immagine di una gioventù saudita fortemente concorde con gli ideali di patriottismo, responsabilità, tolleranza e senso del dovere proposti dalla nuova leadership di Mohammed bin Salman[9]. Al di là degli aspetti propagandistici, il progetto narrativo di MbS è chiaro: i giovani sauditi sono il target della rivoluzione identitaria in corso. Tuttavia, il nazionalismo del principe ereditario non è inclusivo, dal punto di vista confessionale e geografico, e si rivela, inoltre, selettivo. Il messaggio di trasformazione identitaria, che si riflette nelle scelte economiche, sociali, geopolitiche e culturali del Regno, si rivolge alla gioventù urbana, istruita e più aperta nei confronti delle implicazioni sociali, comunicative e di costume della globalizzazione. Di conseguenza, esso esclude implicitamente le fasce più periferiche, rurali, conservatrici e religiose della società saudita[10]: ovvero l’architrave del patto religioso-dinastico sul quale lo Stato dell’Arabia Saudita si è sviluppato finora. La rivoluzione identitaria che Mohammed bin Salman sta tentando presenta dunque una connotazione elitaria e, in caso di esiti deludenti, potrebbe accentuare le differenze sociali interne, generando fenomeni di rigetto tra i segmenti più conservatori della società.
In Oman, il Sultano e suo figlio maggiore (classe 1990), l’appena designato principe ereditario Theyazin bin Haitham Al Said, pongono l’accento sulla partecipazione degli omaniti al processo di rinascimento, che si coniuga stavolta a “Vision 2040” e allo sforzo di diversificazione post-petrolifera[11]. Secondo il Sultano «la costruzione della nazione è una responsabilità che vincola tutti. Nessuno è escluso. Ognuno dovrebbe contribuire per quanto gli è possibile». Il messaggio è rivolto ai giovani, alcuni dei quali, di provenienza urbana, scesero in piazza nel 2011, e si lega al concetto di responsabilità: «la gioventù omanita» ha detto il principe ereditario quando era “solo” ministro della gioventù, cultura e sport, «ha dimostrato di essere molto capace di farsi carico delle proprie responsabilità nazionali». Tale sicurezza, prosegue Theyazin bin Haitham, viene «dalla consapevolezza della causa [omanita]», nonché «dalla ferma volontà di partecipare al rinnovamento dell’Oman». Anche l’istituzionalizzazione della figura del principe ereditario, inserita nella nuova Legge Fondamentale promulgata dal Sultano nel gennaio 2021, è di per sé una svolta culturale per l’Oman. Infatti, allontanandosi dalla tradizione elettiva consensuale degli ibaditi, il potere di Mascate ha scelto di formalizzare, per legge, l’ereditarietà del Sultanato, finora informale. E di specificare la preminenza della linea diretta, di padre in figlio, anche se il defunto sultano dovesse avere fratelli.
Il rinnovato approccio alla nazione passa anche per una ricalibrazione del peso del fattore militare nell’identità nazionale. In Arabia Saudita, la centralizzazione personalistica di Mohammed bin Salman si nutre anche di un accento militare fin qui inedito per Riyad: un portato della politica estera assertiva inaugurata dopo il 2011 (culminata nella fallimentare esperienza in Yemen) e che coltiva l’immagine di nazione forte. Al contrario, l’Oman pare ora depotenziare la dimensione militare nel processo di nation-(re)building. Nella storia nazionale, le Forze armate hanno rappresentato non solo un pilastro del Sultanato (Qaboos era diplomato all’Accademia militare di Sandhurst ed era solito affermare «sono prima di tutto un soldato»), ma anche un attore di socializzazione nazionale nel post-1970. Infatti, il reclutamento di volontari del nord, di omaniti baloci nonché di baloci del Balochistan, nell’esercito e nella Guardia Reale, contribuì a forgiare il senso di nazione dello stato Oman: per questo, Mascate è stata la pioniera del nazionalismo militarizzato nel Golfo. Ma l’attuale Sultano e il principe ereditario hanno una formazione civile, fra diplomazia e beni culturali. E dunque, la nazione potrebbe dare visibilità ad altri simboli e modelli (come dialogo, educazione di qualità e impegno individuale), fra continuità e cambiamento.
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