Nazionalismo, successo economico, un passato beduino idealizzato e un crescente militarismo sono alcuni degli ingredienti del processo di nation-building emiratino. E l’Islam?
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:27
All’indomani delle rivolte arabe iniziate nel 2011, le stabili monarchie del Golfo hanno accelerato nei percorsi di costruzione dell’identità nazionale, partendo da storie diverse. Con obiettivi condivisi e significative differenziazioni, in un Medio Oriente conflittuale e competitivo. Quali sono le cause profonde della “corsa alla nazione”? Quali strategie di nation-building, simboli e implicazioni per il rapporto fra stato, religione, sfera militare e società? Con una serie di articoli dedicati a Emirati Arabi Uniti, Qatar, Arabia Saudita e Oman, Fondazione Oasis prova a delineare i contorni di un fenomeno che è destinato a caratterizzare la politica mediorientale di domani. E che ha già cambiato il vocabolario politico, nonché l’immaginario socio-culturale, delle monarchie del Golfo.
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Per gli Emirati Arabi Uniti (EAU), il 2021 sarà l’anno del “giubileo d’oro”, ovvero i cinquant’anni dalla creazione della federazione emiratina, nata nel 1971. E saranno anche i dieci anni dall’inizio delle rivolte arabe: una rivoluzione politico-sociale “dal basso” che, pur non scuotendo i confini del Paese, ha contribuito ad accelerare il processo di costruzione “dall’alto” dell’identità nazionale emiratina. Tra le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), gli Emirati sono oggi l’esempio più saliente sia di nation-building che di nascente nazionalismo. Con una significativa connotazione militare che li contraddistingue dalle monarchie vicine.
Da Stato (federale) a Nazione. Fondamenti e obiettivi del progetto identitario
«Eravamo coloro che hanno scalato una montagna e raggiunto la vetta, quando guardammo giù volevamo ancora salire e realizzare i nostri obiettivi. Nonostante i traguardi, abbiamo sempre un’ambizione in più». Shaykh Zayed bin Sultan Al Nahyan
Nel 1971, mentre i britannici si ritiravano dalla Penisola arabica, fu il petrolio – oltre alla leadership carismatica di Shaykh Zayed bin Sultan Al Nahyan di Abu Dhabi – a consentire l’unificazione di sette emirati (Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, Ajman, Umm al Quwain, Fujairah – Ras al Khaimah aderì poi nel 1972), in uno Stato federale, gli Emirati Arabi Uniti, un unicum nel Medio Oriente. Quell’architettura federale partorì uno Stato sempre più prospero, “moderno” e dalle salde alleanze internazionali, ma non ancora una nazione capace di riconoscersi in un progetto comune.
Gli Emirati sono uno Stato giovane, seppur cresciuto in fretta. Nel 2011, le rivolte arabe coincidono temporalmente con il processo di diversificazione economica che gli emiratini hanno avviato prima dei loro vicini. Mohammed bin Zayed Al Nahyan, figlio del fondatore e oggi quasi sessantenne principe ereditario di Abu Dhabi e leader de facto degli EAU, intuisce che la dirompente dinamica transnazionale generata dalle rivolte può essere arginata, magari anche plasmata a proprio favore, da un’iniezione di identità nazionale: lo Stato-nazione “dall’alto” come primo antidoto, a livello interno e regionale, alla forza trasformatrice “dal basso” delle sollevazioni popolari.
Per Abu Dhabi, la costruzione di un’identità nazionale realizza due obiettivi complementari resi possibili, ancora una volta, dalla rendita petrolifera (il secondo oil boom è degli anni Duemila). Sul piano interno, la ricchezza derivante dagli idrocarburi permette agli Al Nahyan di consolidare il primato politico di Abu Dhabi sugli altri emirati, forgiando e propagando la propria versione dell’identità del Paese. Ciò depotenzia il ruolo di Dubai, la “capitale” commerciale degli EAU, che viene salvata finanziariamente nel 2009 proprio da Abu Dhabi. E, di riflesso, anche il ruolo degli emirati più piccoli è ridimensionato: sia Sharjah (fulcro culturale e artistico degli EAU) che Ras al Khaimah (in cui si concentra la maggior parte dei cittadini emiratini, a lungo riparo per la Fratellanza musulmana), emirati che erano soliti fare blocco con Dubai per mitigare lo strapotere degli Al Nahyan. Sola al timone della federazione, Abu Dhabi può inoltre costruire, sulla base di un’identità nazionale coesa, una politica estera sempre più assertiva.
Trasformare “dall’alto” il rapporto fra Stato e società permette di accompagnare, e meglio controllare, la diversificazione economica. Meno welfare, meno garanzie, ma più senso di appartenenza nazionale, dunque coesione. Ecco perché, agli occhi della leadership emiratina, i cittadini devono essere “formati” per risultare all’altezza della sfida: c’è molto di pedagogico nello sforzo di ingegneria identitaria che gli Emirati Arabi Uniti hanno abbracciato. Perché le nuove generazioni di cittadini, i figli e i nipoti di coloro che hanno vissuto l’unificazione del 1971 e conosciuto il carisma di Shaykh Zayed (scomparso nel 2004), mancano di esperienze nazionali condivise. E assistono, inoltre, alla crescita degli expatriates, i lavoratori stranieri – qualificati e non – che rappresentano circa l’85% degli abitanti degli EAU. Non è un caso che la Vision 2021 degli Emirati si soffermi sulla necessità di “preservare l’identità nazionale… rispetto al crescente multiculturalismo”. Per la federazione che è divenuta “casa” di mille culture valorizzare radici, esperienze e simboli condivisi è ora un’ineludibile tappa verso la costruzione della nazione.
Il Pantheon della Nazione. Strategie, valori e simboli
«Al di là delle appartenenze comunitarie, gli emiratini devono esprimere e rinforzare attivamente la solidarietà poiché parte di una nazione di cittadini».
Da “Vision 2021”
Nella costruzione odierna del mito fondativo emiratino, il singolo cittadino è protagonista: un cambiamento di prospettiva, dal noi all’io, per uno Stato abituato a ragionare, nonché governare, tramite genealogie e appartenenze tribali. Se il consenso dei principali gruppi tribali è stato fondamentale nell’istituzione della federazione, oggi la leadership degli EAU si rivolge direttamente agli emiratini (che continuano a esprimere appartenenze tribali e locali), per invitarli a contribuire al progetto comunitario, in nome della nazione. L’obiettivo è quindi plasmare un nuovo noi, stavolta unitario poiché nazionale. Qui, l’idea di nazione è fortemente top-down: istituti culturali e iniziative provenienti dalla società civile possono contribuire solo se patrocinati dal governo o da fondazioni collegate.
Tutto ciò che è patrimonio (turath, o heritage, termine inglese adottato anche dagli emiratini) è divenuto la nuova ossessione degli Emirati Arabi Uniti. Il fondatore del Paese Shaykh Zayed ne è l’icona, celebrato nel 2018 a cento anni dalla nascita. Anche Shaykh Rashid Al Maktoum di Dubai e gli altri emiri fondatori hanno un posto nell’immaginario pantheon della nazione: così, nel messaggio ufficiale, dinastie ed emirati sono un tutt’uno che genera la nazione. Anche la bandiera degli EAU è al centro degli sforzi di nation-building: The National, il principale quotidiano emiratino in lingua inglese, ha invitato i lettori a realizzare manufatti patriottici a casa per prepararsi al National Day (2 dicembre) anche in tempi di pandemia e distanziamento sociale.
Nell’identità nazionale elaborata da Abu Dhabi, il passato beduino e le sue tradizioni assumono un significato quasi mitologico, tra forzature, generalizzazioni e qualche falso storico. Per esempio, la corsa dei cammelli, oggi eretta a sport nazionale, non fu tradizione culturale degli Emirati[1], a differenza della falconeria. Soprattutto, non tutti gli emiratini provengono da un passato beduino (bedu), spesso idealizzato dalla leadership di Abu Dhabi per finalità di omogeneizzazione culturale, e dunque di potere interno. Molte comunità condividono invece una tradizione sedentaria e urbanizzata (hadar), attiva nel commercio marittimo (come la dinastia Al Qasimi e Ras al Khaimah, l’antica Julfar)[2]. In tal modo, la costruzione dell’identità nazionale degli Emirati appare innanzitutto un processo orientato allo scopo e fin qui scarsamente negoziato fra le diverse anime territoriali-culturali della federazione.
La scelta nazionalista. Sinergie fra topos militare e intento educativo
«Costruire il nostro esercito non significa solo acquistare armi fantastiche. Significa costruire una cultura, un’identità nazionale, un legame tra leadership e popolo, costruire quella società in cui un soldato sarebbe orgoglioso di morire per il suo paese»[3]
Yousef al Otaiba, ambasciatore emiratino negli Stati Uniti, 2020
Gran parte degli studi accademici sugli attuali processi di nation-building nelle monarchie del Golfo e negli EAU approfondisce il ruolo dei musei nazionali e, più in generale, di arte e architettura. In pochi ricercano il nesso tra patrimonio culturale e nazionalismo[4] e, ancor di meno, tra identità nazionale, sfera militare e nazionalismo. Eppure, il nazionalismo di matrice militarista è oggi al centro dell’identità nazionale degli Emirati[5]. Come per molte delle monarchie vicine, la formazione statuale degli EAU non è passata dall’esperienza bellica: ora gli Emirati stanno diventando una nazione anche attraverso l’esperienza militare e il suo universo simbolico, presentati e vissuti come luogo della responsabilità comunitaria e del patriottismo, nonché di costruzione dell’heritage di domani.
Per gli EAU, l’introduzione del servizio militare obbligatorio (2014) e l’esperienza della guerra in Yemen (2015-2019) sono state scelte politiche decisive affinché si avviasse, dal basso, l’elaborazione del senso di appartenenza nazionale. La leva militare è obbligatoria per i maschi emiratini tra i 18 e i 30 anni (facoltativa per le donne): 16 mesi di servizio per chi ha conseguito un diploma, 2 anni per chi ha un livello d’istruzione inferiore. I figli di madre emiratina e padre straniero – fin qui esclusi dall’accesso alla cittadinanza – possono fare domanda di naturalizzazione se partecipano alla leva. Spesso, sfera militare e sfera educativa mostrano interessanti sinergie a livello di nation-building. Lo dimostrano tre esempi: storia nazionale e patriottismo sono parte del curriculum di studio dei coscritti; si diffondono i corsi pre-servizio militare per adolescenti che socializzano i ragazzi alla cultura militare e all’identità nazionale, instillando valori come etica del lavoro e disciplina; molti bambini e ragazzi indossano l’uniforme militare per festeggiare il National Day, fra parate e concerti (per alcune scuole vi è l’obbligo di uniforme durante la festività).
L’abisso dello Yemen ha fatto il resto. Il ritorno delle bare dei soldati emiratini caduti in guerra, fra cui dei nazionali, è stato uno shock inedito per un Paese abituato all’agio e all’ottimismo della retorica dominante. Non vi sono cifre ufficiali, ma oltre 200 emiratini avrebbero perso la vita in Yemen e il 40% di essi proveniva dagli emirati del nord, soprattutto da Ras al Khaimah (dove si concentrano i cittadini, la disoccupazione e un welfare meno generoso di Abu Dhabi e Dubai). La leadership emiratina ha istituito il Commemoration day per il ricordo annuale dei “martiri”: in apparente contraddizione con le mancate stime ufficiali, i nomi dei caduti sono vergati sul monumento del Wahat al Karama (“oasi di dignità”). I principi emiratini, Mohammed bin Zayed per primo, visitano le famiglie dei caduti e celebrano il coraggio delle “madri dei martiri”, cui viene attribuito così un nuovo ruolo, stavolta al servizio della nazione. In tale contesto, anche la reazione alla pandemia da COVID-19 è divenuta strumento al servizio del nation-building. Il governo federale ha istituito un “Comitato nazionale per il volontariato durante le crisi”: la struttura sarà permanente e lavorerà in sinergia con governo, gruppi di volontari e business privato. Un “esercito di volontari” composto da medici, infermieri, paramedici, psicologi, ma anche semplici cittadini impegnati da remoto nell’assistenza alla comunità, ha aderito alla campagna nazionale: il volto civico del nazionalismo emiratino, che coniuga simbologia militare e responsabilità sociale.
Individui, individualismo e la (faticosa) corsa all’eccellenza
«La corsa verso l’eccellenza non ha un traguardo»
Mohammed bin Rashid Al Maktoum
Per servire la comunità nazionale, in tempo di trasformazione economica, interventi militari all’estero e pandemia, ognuno deve fare la sua parte. Il forte richiamo all’individuo è forse il più celato rovescio della medaglia del progetto identitario degli Emirati. Una dinamica nuova che irrompe nella consuetudine del tribalismo e delle reti di relazione (wasta), ancora assai rilevanti. In più, individuo fa spesso rima con individualismo in un Paese che sta costruendo la propria immagine di sé intorno a due concetti: ambizione e fiducia in sé. Dunque, contribuire alla comunità nazionale significa rincorrere l’eccellenza individuale: una “gara fra cittadini” a chi incarna meglio il modello positivo, in un Paese che da tempo ama definirsi un “role model” per altri stati. D’altronde, il cittadino emiratino immaginato da Mohammed bin Zayed deve possedere spirito d’iniziativa e d’adattamento, patriottismo, capacità d’innovare e di sacrificarsi per la collettività[6]. Poco a che vedere con la mentalità rentier fin qui conosciuta.
Il grande paradosso di questo progetto di nazione, che è innanzitutto un disegno educativo, è la sua natura intimamente selettiva, nonostante gli intenti inclusivi e comunitari. Un disegno che non esclude, a priori, i lavoratori stranieri (visibili per esempio nei festeggiamenti per il National Day), ma coloro che non aderiscono al modello proposto o che non riescono a farne parte. Gli Emirati hanno “istituzionalizzato” felicità, positività e benessere trasformandoli in obiettivi politici perché “sono parte del tessuto della nostra nazione”. In un Paese che autocelebra i propri primati nel mondo arabo (come la prima sonda verso Marte, la prima centrale nucleare, il possibile acquisto degli F-35), qual è lo spazio, anche individuale, per la delusione, l’errore, la sconfitta? È interessante come i media emiratini mainstream affrontino sempre più spesso il tema della fatica psicologica e della salute mentale: fin qui un tabù, anche per il resto del mondo arabo[7]. Di certo, le aspettative sono alte e la competizione è spinta al limite, a livello individuale e nazionale.
Il “modello westphaliano”. Quale ruolo per la religione?
«Insieme, proveremo al mondo che l’impossibile è possibile e che la nostra nazione merita i nostri sacrifici. Creeremo un modello di ottimismo che dia alla nostra patria il posto che le spetta»[8]
Mohammed bin Zayed Al Nahyan a Mohammed bin Rashid Al Maktoum, 2018.
«Lasciateci provare il modello westphaliano», ha recentemente affermato il ministro di stato agli affari esteri Anwar Gargash. Ma gli stati-nazione generati dalla pace di Westphalia del 1648 prevedevano, oltre al monopolio della forza legittima, anche «la progressiva emarginazione della religione e delle sue gerarchie dal campo della politica»[9]. In questo articolo sulla costruzione dell’identità nazionale emiratina non si è parlato di religione: non è un caso o una svista. Gli Emirati, infatti, stanno utilizzando l’Islam soprattutto come risorsa di legittimazione e proiezione internazionale: il ruolo della diplomazia culturale o l’appoggio a gruppi salafiti, anche armati, in chiave anti-Fratellanza Musulmana ne sono un esempio. Tuttavia, l’Islam non interferisce con le scelte interne della leadership federale, nel quadro dello stato-nazione, poiché chiamato, nella prospettiva degli EAU, a rafforzare la capacità di influenza dello stato, sia in politica interna che estera, nonché a legittimarne il percorso strategico. Come ogni identità, anche quella emiratina è più che mai dinamica, a volte in chiaroscuro. Soprattutto, deve ancora misurarsi con l’inevitabilità del limite.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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