L’equilibrio mediorientale è messo alla prova dalle dinamiche del Golfo, caratterizzate da alleanze di convenienza, conflitti, frizioni interne e ingerenze esterne
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:45
L'intervista è stata registrata nell'ottobre e pubblicata nel novembre 2018. Pertanto è da considerarsi aggiornata a tale data.
Intervista a Kristian Coates Ulrichsen a cura di Francesco Teruggi
Francesco Teruggi - Il Principe ereditario saudita Muhammad Bin Salman ha dato una massiccia dimostrazione di forza, dall’imprigionamento e condanna di Salman al-‘Awda fino al caso di Jamal Khashoggi. Quali sono gli effetti di questi eventi?
Kristian Coates Ulrichsen - L’omicidio di Jamal Khashoggi è parte di uno schema. L’anno appena trascorso è stato caratterizzato da una repressione sistematica di molti scrittori, giornalisti, esponenti del mondo religioso, attivisti dei diritti umani e dei diritti delle donne. La repressione si è attuata a ondate sistematiche dal settembre 2017, appena dopo la nomina di Muhammad Bin Salman a Principe ereditario. L’assassinio deve essere visto come parte di quello schema di repressione o soppressione di ogni voce dissidente in Arabia Saudita, ma anche oltre i confini nazionali. E il fatto che l’incidente sia accaduto fuori dall’Arabia Saudita ha sconvolto molte persone. La narrazione che i sauditi stanno provando a costruire non sembra sostenuta da alcuna prova. Forse non sapremo mai ciò che è accaduto a Khashoggi.
FT - Non è la prima volta che regimi mediorientali si liberano di attivisti e oppositori politici…
KCU - Il Medio Oriente è costellato da storie di persone scomparse. Un esempio è il caso di Musa al-Sadr, il dignitario religioso sciita scomparso in Libia nel 1978 e mai più ritrovato: la sua morte, o scomparsa, non è mai stata spiegata e rimane un mistero a 40 anni di distanza. Anche con Jamal Khashoggi potrebbe finire allo stesso modo. Eppure, il livello di interesse dei media internazionali e i progressi tecnologici fanno sì che il giornalismo investigativo finirà probabilmente per portare alla luce molte più informazioni di quante vorrebbero i sauditi, e forse anche più di quante vorrebbero i turchi. Come abbiamo visto con l’assassinio di una figura operativa affiliata a Hamas da parte di un team israeliano a Dubai nel 2010, anche di fronte a un crimine apparentemente perfetto un giornalismo investigativo paziente può ricostruire un pezzo alla volta che cosa è accaduto. Non sarei sorpreso se qualcosa di simile succedesse anche per Jamal.
FT - MBS sta cercando di affermare la propria egemonia sul Medio Oriente. Quant’è fondato il suo tentativo di costruire un nuovo ordine regionale?
KCU - Dopo la Primavera Araba, l’Arabia Saudita si è resa conto di dover assumere un atteggiamento proattivo per proteggere i propri interessi nella regione. I sauditi da molto tempo si erano fatti l’idea di poter contare sugli Stati Uniti per la loro protezione, e questo è ancora vero. Ma credo che la decisione dell’amministrazione Obama di accettare la caduta di Mubarak in Egitto e riconoscere l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani sia stata uno shock per Riyadh. La famiglia reale ne ha concluso che, come gli Stati Uniti avevano ritirato il supporto a un alleato di lunga data come Mubarak, così avrebbero potuto fare anche con loro. Di conseguenza, hanno individuato nella sicurezza un interesse chiave per il Paese, e a partire dal 2011 hanno iniziato a esercitare regionalmente influenze politiche, finanziarie e religiose per provare a indirizzare la transizione in Nord Africa e Medio Oriente secondo la propria agenda. Dopo la caduta di molti leader di lungo corso, Riyadh e Abu Dhabi si sono mostrati molto preoccupati in merito all’ascesa dell’Islam politico e hanno risposto in maniera decisa, addirittura intervenendo direttamente. Comunque la si voglia vedere, hanno riaffermato (e penso con successo) un controllo autoritario in Egitto, le Primavere Arabe sono state fermate, non ci sono state più rivolte, la maggior parte del Medio Oriente è ora tormentato da conflitti o guerre civili e lotte intestine e non vi è alcun desiderio di scendere nuovamente in piazza. In questo senso, un risultato di questo tipo è un successo per gli interessi sauditi ed emiratini. Essi hanno efficacemente rispedito al mittente le richieste di partecipazione politica che si erano manifestate nel 2011.
FT - Quali sono le cause di questo atteggiamento così assertivo?
KCU - Il cambiamento per i sauditi e gli emiratini è iniziato nel 2012-2013, quando si sono resi conto che i loro vicini, e in particolar modo il Qatar, stavano aiutando alcune delle nuove élite al potere in Nord Africa. Il solo fatto che il Qatar stesse sostenendo la transizione significava che gli Emirati e l’Arabia Saudita erano in dovere di reagire. E hanno reagito, in Egitto soprattutto, e molto velocemente dopo il golpe nel 2013. In altre parole, il loro atteggiamento interventista è iniziato ben prima della fine dell’amministrazione Obama. In seguito, nel 2015, le negoziazioni sul nucleare tra i P5+1 e l’Iran hanno accresciuto ulteriormente la loro determinazione a non delegare ad altri i propri interessi nazionali. Entrambi gli eventi, le conseguenze delle Primavere Arabe e la negoziazione sul programma nucleare iraniano, sono avvenuti prima di Trump.
FT - Sta suggerendo che la presidenza di Trump non abbia giocato un ruolo in questo cambiamento?
KCU - No. Nel 2016 e all’inizio del 2017, quando Trump è diventato Presidente, vi era, io penso, la sensazione di un allineamento fra Abu Dhabi, Riyadh e la Casa Bianca sulle due maggiori questioni del Medio Oriente: Iran e Islamismo. Riyadh e Abu Dhabi hanno agito in modo molto deciso. Hanno percepito che le figure chiave nella Casa Bianca condividessero la loro visione. Hanno pensato forse che le circostanze uniche con cui l’amministrazione Trump era salita al potere giocassero a loro favore. Il fatto che l’amministrazione americana si fosse insediata sottolineando fortemente la propria natura eccezionale ha incoraggiato i sauditi e gli emiratini a pensare che qualcosa potesse realmente cambiare. Hanno ovviamente sperato di poter influenzare quel cambiamento. L’amministrazione Trump non ha una dottrina in politica estera degna di questo nome, credo non possegga una politica estera coerente. Gli Emirati e l’Arabia Saudita hanno intravisto un’opportunità e hanno provato a coglierla. Hanno compreso che se fossero riusciti ad assicurarsi il supporto della Casa Bianca per le loro ambizioni regionali finalizzate a un ripiegamento dell’Iran e dell’islamismo, avrebbero potuto ridisegnare il Golfo e il moderno Medio Oriente.
Muhammad Bin Salman in visita alla Casa Bianca nel marzo 2017
FT - Come si è materializzato questo cambiamento?
KCU - Quando l’amministrazione Trump è salita in carica, ha inizialmente fatto molti proclami sul fatto che non avrebbe seguito politiche convenzionali. Per esempio, il divieto di ingresso ai danni di sei importanti Paesi musulmani ha mostrato come non si sentisse legata da vincoli politici o addirittura giuridici. Non va neppure dimenticato che nei primi mesi dell’Amministrazione Steve Bannon era fra i più influente consiglieri di Trump. Una delle sue tesi principali riguardava la de-costruzione dell’apparato amministrativo statale e delle istituzioni. A mio modo di vedere, in alcune capitali del Golfo si diffuse la sensazione che la situazione fosse unica e senza precedenti: la politica era personalizzata e le istituzioni quasi superate. Questo è il motivo per cui si sono sforzati di creare relazioni strette con le figure chiave nella cerchia ristretta del Presidente, per assicurarsi un canale diretto con lui. Probabilmente ciò ha raggiunto l’apice quando Trump si è recato al summit di Riyadh nel maggio 2017. E credo che da allora abbiamo assistito alle conseguenze, in termini di politica regionale nel Golfo, ma anche relativamente alle indagini sulle interferenze straniere nella politica statunitense.
FT - Un altro nemico comune per Stati Uniti e Arabia Saudita è l’Iran. Ali Khamenei è al potere dal 1989, ha 79 anni e molto probabilmente verrà sostituito nel giro di pochi anni. La scelta di una nuova Guida Suprema rifletterà probabilmente l’equilibrio di potere all’interno della Repubblica Islamica. Come alcuni commentatori hanno evidenziato, la narrativa saudita di un nemico esterno rischia di diventare una profezia che si auto-avvera, dal momento che potrebbe provocare l’ascesa di una Guida più conservatrice a Teheran. Ritiene possibile un risultato diverso?
KCU - Molto dipenderà dal tipo di governo americano che sarà in carica quando avverrà il passaggio di consegne in Iran. Se accadrà con l’attuale amministrazione, si potrebbe materializzare un approccio più duro, addirittura aggressivo, mentre se accadesse con un’amministrazione più simile a quella di Obama, ci sarebbe più pragmatismo, almeno nel provare a capire, e magare a dialogare, con chiunque si insedi nella nuova struttura di potere. Quando si guarda all’Iran, le persone parlano di “moderati” e “estremisti”, ma non dovremmo dimenticare che esistono “moderati” e “non-così-moderati” anche negli Stati Uniti. Inoltre, le coalizioni in Iran cambiano nel tempo. Uno che oggi fa figura di moderato potrebbe non esserlo più di qui a dieci anni, quando le condizioni domestiche ed esterne saranno cambiate. Una relazione bilaterale lineare tra Iran e Stati Uniti è comunque davvero difficile da immaginare, almeno nel breve periodo, fino a quando la generazione di funzionari anziani sarà ancora al potere. La scelta della nuova Guida Suprema sarà solo una parte dell’equazione. Molto dipenderà anche da cosa starà succedendo negli Stati Uniti.
FT - Si aspetta che la partnership fra Russia e Iran continui?
KCU - Russia e Iran non hanno una vera e propria alleanza o un trattato formalizzato, ma condividono alcuni interessi in certe zone, come la Siria. Allo stesso tempo, la Russia nei prossimi anni potrebbe aver bisogno di investimenti e sostegno da parte del Golfo, più che dall’Iran. I sauditi e gli emiratini hanno già provato a esporsi in modo chiaro con i russi: «Se vi schierate con noi, possiamo offrirvi benefici più tangibili di quanto farebbe l’Iran, in termini di investimenti e joint venture». Nel lungo periodo, Arabia Saudita e Emirati proveranno a distanziare la Russia dall’Iran. Ma i russi non prenderanno la decisione in base a ciò che è meglio per l’Iran o per l’Arabia Saudita. Agiranno in base a ciò che pensano sia meglio per la Russia. Lo stesso vale per Cina o India, che stanno cercando di trovare a loro volta un equilibrio nelle loro relazioni con Arabia Saudita e Iran. Ad ogni modo, se questi Paesi fossero costretti a scegliere fra Arabia Saudita e Emirati o Iran, sceglierebbero l’alleato che garantisca gli investimenti finanziari più consistenti.
FT - Lei ha menzionato la Cina. Il Qatar ha recentemente rafforzato i suoi legami con questo Paese. Crede che una politica di non-intervento, il “Beijing Consensus”, possa essere attraente per i Paesi più piccoli all’interno del GCC?
KCU - Il cosiddetto “Beijing Consensus” è sempre stato attraente a causa della sua natura pragmatica e della sua attenzione alle relazioni economiche, escludendo le questioni politiche. Molta della frustrazione che i Paesi del Golfo hanno provato per esempio con gli Stati Uniti, l’Unione Europea o alcuni interlocutori europei dipende dal fatto che un accordo commerciale viene spesso vincolato ad alcune garanzie politiche o sui diritti umani, in particolar modo quando si tratta con l’Unione Europea. Questo è uno dei motivi per cui 20 anni di negoziati su un accordo commerciale fra UE e GCC sono naufragati, mentre con la Cina vi è solo una relazione commerciale e transazionale. Sono d’accordo: dal punto di vista di uno stato piccolo, il “Beijing Consensus” è attrattivo, ma lo è anche dalla prospettiva dell’Arabia Saudita, perché fa piazza pulita dell’enfasi sulle modalità di esercizio dell’autorità e sui diritti umani, questioni che vengono percepite come completamente irrilevanti per gli affari. D’altra parte, niente e nessuno può ancora rimpiazzare gli Stati Uniti come garanzia di sicurezza per alcuni piccoli stati come il Kuwait e l’Oman; non solo per la presenza fisica di basi militari, ma anche per i contratti sugli armamenti e per le migliaia di posti di lavoro che dipendono da una relazione continuativa con i partner del Golfo. Ha senso diversificare le relazioni economiche in modo da avere più opzioni, ma tutti gli stati del Golfo sanno molto bene che non è ancora comparso sulla scena nulla che possa sfidare il ruolo degli Stati Uniti come garante di sicurezza.
FT - Kuwait e Oman hanno tradizionalmente adottato una politica di mediazione sotto l’ombrello americano. La crisi del Qatar li spingerà a cambiare politica estera?
KCU - Sia il Kuwait sia l’Oman resisterebbero a un tentativo da parte di Riyadh e Abu Dhabi di forzarli all’interno di un “approccio regionale” che non rifletta i loro interessi. Questo è dovuto anche al fatto che essi stessi hanno vissuto periodi di guerra. Il Kuwait ovviamente con l’invasione da parte dell’Iraq nel 1990; e l’Oman a causa della rivolta del Dhofar negli anni ’60 e ’70, sostenuta dallo Yemen del Sud. In tempi recenti, hanno sempre cercato di evitare di essere risucchiati all’interno di conflitti e di essere forzati a prendere una posizione.
FT - Esiste un futuro per lo Yemen?
KCU - A un certo punto, inevitabilmente, il conflitto militare finirà. Potrebbero volerci anni, ma anche la guerra civile libanese alla fine è terminata, dopo 15 anni di massacri. Oman e Kuwait potrebbero facilitare un accordo politico, dal momento che sono molto più credibili come terze parti imparziali. Perché ciò avvenga, però, devono coinvolgere tutte le parti coinvolte come finora non è accaduto. Il Kuwait ha ospitato alcune negoziazioni nel 2016, che però sono fallite, e l’Oman sta sondando un canale di negoziazione secondario con gli Houthi e diversi attori, che si è rivelato solo moderatamente di successo e di portata limitata.
FT - Come descriverebbe la relazione fra Arabia Saudita e Emirati in Yemen?
KCU - La difficoltà in Yemen è che il Paese è stato effettivamente suddiviso in sfere di influenza regionali. Gli Emirati nel sud dello Yemen hanno creato una base di potere che ricalca in un certo modo il Movimento Separatista del Sud, mentre l’Arabia Saudita insiste nella sua politica di lungo corso di mantenere relazioni molto strette con alcune figure chiave nel nord. Questo potrebbe istituzionalizzarsi, dando vita a una divisione fra il nord e il sud dello Yemen. In qualunque accordo politico sul lungo periodo, lo Yemen dovrà accettare un’infrastruttura federale molto lasca, con una forte influenza di attori regionali o sub-regionali. A questo punto del conflitto è difficile pensare a uno stato centralizzato in possesso del grado di legittimità richiesto da tutti gli attori.
FT - Pensa a uno stato federale unito o a una situazione antecedente al 1990, con una Repubblica del sud e una del nord?
KCU - Quelli erano formalmente due stati diversi. Mi aspetterei piuttosto una separazione de facto delle diverse province in entità più o meno autonome, ma all’interno di una sovra-struttura federale. In un certo modo, era ciò che la National Dialogue Conference stava provando a ottenere, benché non sia mai stata possibile attuarla, in parte perché gli Houthi si sentivano confinati nel nord e in parte perché ‘Ali ‘Abdallah Saleh stava ancora cercando di architettare qualcosa per sé, per i suoi interessi o per la sua famiglia. Ora però Saleh non è più della partita. Dunque, se ci dovesse essere nel futuro un accordo politico, sarà una specie di ritorno a una struttura federale elusiva, dove vi sarà almeno il riconoscimento de facto di interessi concorrenti, ma che consenta un certo grado di cooperazione e coesistenza.
L'effige dell'emiro Tamim su un palazzo di Doha [© Oasis]
FT - Come può realizzarsi un accordo omnicomprensivo con la crisi del Qatar ancora in corso?
KCU - La questione del Qatar è complicata dal fatto che gli Emirati e l’Arabia Saudita hanno preso l’iniziativa nel 2017, aspettandosi, a mio modo di vedere, che il Qatar avrebbe capitolato, o accettando un cambio di regime o conformandosi a ciò che gli veniva imposto. Benché gli Stati Uniti abbiano sostenuto brevemente i sauditi e gli emiratini, niente di ciò che Arabia Saudita e Emirati si prefiguravano si è realizzato. I qatarioti sono riusciti a riguadagnare una posizione di forza lavorando a stretto contatto con l’amministrazione americana. Al contrario, vi sono sempre più prove che gli Emirati e l’Arabia Saudita non fossero davvero interessati a soluzioni diplomatiche o negoziate. Le richieste avanzate al Qatar erano così esagerate che sembravano quasi un ultimatum alla resa. Sono state giustamente paragonate alle richieste che l’Impero Austro-ungarico notificò alla Serbia nel luglio 1914. Non poteva essere un dialogo serio, un punto di partenza per le negoziazioni. Non c’era spazio per il compromesso. E penso che questa postura abbia danneggiato parecchio la posizione saudo-emiratina, soprattutto negli Stati Uniti, nel momento in cui Washington ha realizzato che l’Arabia Saudita e gli Emirati semplicemente non volevano entrare in dialogo con il Qatar, direttamente o politicamente. Nella primavera del 2018 Washington si è data da fare per ospitare una serie di incontri: Muhammad Bin Salman, l’emiro Tamim e Muhammad Bin Zayed si sarebbero recati separatamente alla Casa Bianca per convenire sulle linee guida di un accordo, che sarebbe poi stato negoziato in un incontro del GCC e infine siglato a Camp David. Ebbene, nulla di ciò è accaduto, in parte perché i sauditi hanno informato gli Stati Uniti del loro rigetto di ogni mediazione esterna, in parte perché gli emiratini si sono semplicemente rifiutati di presentarsi. Il governo degli Stati Uniti ha lentamente compreso che non c’è alcuna volontà da parte di Arabia Saudita e Emirati di una soluzione negoziata.
FT - Lei crede possibile un riavvicinamento del Qatar con l’Arabia Saudita e gli Emirati?
KCU - La crisi continuerà e gli attori coinvolti si sono adattati adottando soluzioni pragmatiche, per cui si continua a lavorare come un gruppo di sei Paesi del Golfo, con altri nella stanza, su questioni specifiche. Possiamo immaginarci i Paesi del Golfo, insieme a Egitto, Giordania e Stati Uniti, convergere su problemi particolari, per esempio cooperazione nell’ambito della sicurezza, difesa, intelligence o contrasto dell’Iran, ma ignorando il convitato di pietra, ovvero non dibattendo della crisi del Golfo. Le discussioni rimarrebbero così a un livello tecnico, senza coinvolgere i capi di stato e aspetti politici. Penso che questa sarà la soluzione, almeno per un certo periodo. Il GCC, il gruppo dei sei capi di stato che si incontra ogni anno, farà probabilmente un passo indietro per un certo lasso di tempo, mentre si manterranno incontri su questioni specifiche.