Farabi, Avicenna, Averroè. Sono alcuni tra i grandi nomi del pensiero speculativo fiorito in ambito musulmano soprattutto a cavallo di tre secoli. E poi? Cosa è successo nel rapporto tra l'Islam e l'antica disciplina nata dai Greci, fondamento stesso dell'intera cultura occidentale? Perché questo dialogo si è interrotto e cosa potrebbe accadere se i due mondi tornassero a incontrarsi?
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:48
E' evidente, ed è diventato una banalità, affermare che l'Islam si trova di fronte alla modernità con il compito di rinnovarsi, di aggiornarsi. La tentazione è di fare un confronto con il modo in cui la Chiesa Cattolica, con il Concilio Vaticano II, ha effettuato il suo "aggiornamento" (la parola è passata dall'italiano a tutte le lingue europee). Essa l'ha compiuto dando ad alcuni articoli della fede una nuova formulazione e continua tuttora attraverso un esame critico del proprio passato. Si sente allo stesso modo dire, a volte, che l'Islam dovrebbe "riformarsi"; si concepisce questo progetto sul modello della Riforma del XVI secolo, che ha portato allo scisma tra la Chiesa Cattolica e il Protestantesimo. I cronisti sono sempre pronti a definire questo o quell'autore come un "Lutero dell'Islam". Simili paralleli mi sembrano falsi per molte ragioni. Sarebbe necessario evidenziare, in primo luogo, una falsa immagine della natura e del funzionamento dell'Islam da una parte, e della Chiesa Cattolica dall'altra. In seguito una falsa immagine di ciò che la Riforma voleva e di ciò che ha compiuto. Qui non ho lo spazio per smontare tutte queste leggende. Il problema è dunque sapere se il tanto sperato rinnovamento dell'Islam potrebbe realizzarsi prendendo a prestito fonti esterne ad esso o attingendo a fonti interne. Si tratterebbe in questo secondo caso di rivitalizzare delle tendenze culturali passate che sarebbero state soffocate o dimenticate. Possiamo trovare a questo proposito dei paralleli, nella storia passata dell'Islam? La filosofia può essere uno di questi paralleli? Questo pone innanzitutto un problema di metodo. Mettersi alla ricerca di anticipazioni per un compito prefissato serve a provare che questo compito è possibile. In effetti, a rigor di logica, se tutto ciò che è possibile non si realizza, ciò che è reale è necessariamente anche possibile. Ma la logica e la storia sono due cose diverse. Rimane, beninteso, da sapere se ciò che è stato possibile nel passato lo sia anche in seguito, e se ciò che è stato fatto possa essere trasposto, adattato, o come si voglia dire, alla situazione presente. L'esempio della filosofia è allettante. Si tratta in effetti di una disciplina che ha origini esterne all'Islam. La filosofia è nata in Grecia, più di un millennio prima dell'Egira; ha conosciuto un brillante percorso nel mondo romano pagano. I Padri della Chiesa Cristiana hanno integrato molti elementi provenienti dalla filosofia e hanno loro stessi fatto progredire l'indagine filosofica su molti punti, basti pensare a Sant'Agostino. L'Islam ha generato, come è noto, molti filosofi di primo piano. Le loro opere, come anche quelle di famosi ebrei come Maimonide, lo si sta comprendendo sempre meglio hanno rappresentato per il pensiero dei filosofi del Medio Evo in Occidente una sfida e una fonte di ispirazione: S. Tommaso d'Aquino (morto nel 1274) lesse Averroè (morto nel 1198), Duns Scoto (morto nel 1308) si considerava in campo filosofico un discepolo di Avicenna (morto nel 1037). Così, si può dunque sperare in una ripresa del dialogo tra Islam e filosofia? E nel Medio Evo la sintesi si è davvero operata? Per vederci più chiaro, sarebbe necessario innanzitutto mettersi d'accordo su ciò che si intende con il termine "filosofia" (1). Dalla risposta data a questa domanda dipende il modo con cui si tracceranno i limiti cronologici. Le storie classiche della filosofia islamica la fanno iniziare nella maggior parte dei casi con al-Kindi o al-Farabi. Il primo sarebbe morto nel periodo in cui il secondo nasceva, verso l'anno 870. La difficoltà concerne innanzitutto la datazione della fine di questa filosofia. Gli storici tradizionali la collocano con la morte di Averroè nell'anno 1198. Verso la metà del XX secolo il filosofo e orientalista francese Henry Corbin, esperto del pensiero iraniano, propose un altro modello cronologico: certamente, la filosofia islamica avrebbe trovato un perfezionamento in quella forma determinata di cui Averroè rappresenta il coronamento. In compenso, un'altra tradizione, generata da Avicenna, si sarebbe diffusa nell'Islam sciita, nel mondo di cultura persiana. Si sarebbe mescolata con tradizioni locali della Persia pre-islamica. La sintesi ottenuta sarebbe stata attiva almeno fino al XVIII secolo. Il problema è sapere se questa sintesi, velata di misticismo, può ancora essere definita con il nome di "filosofia". In ogni caso non è il nome che le attribuivano gli adepti. In effetti il nome falsafa non suonava arabo. Non era nient'altro che una traslitterazione del termine greco philosophia che è rimasto all'incirca tale e quale anche nelle lingue occidentali. Per altro, l'origine greca di questo sapere non preoccupava solo gli amanti del bel parlare. Essa implicava uno sviluppo esterno all'Islam. I discepoli di queste scuole di pensiero preferivano quindi il termine più autenticamente semitico di hikma (saggezza) al quale conferivano l'epiteto ilhiyya (divina). Corbin stesso non parlava molto volentieri di "filosofia" per definirla. Aveva creato un calco dell'espressione araba nella parola francese théosophie, più esatta, ma che presenta l'inconveniente di designare abitualmente una corrente di pensiero occidentale molto più recente e contaminata dall'occultismo. Per quanto mi riguarda, mi sembra più prudente non battezzare, per così dire, le persone contro la loro volontà, e quindi riservare il nome di "filosofia" a ciò che i suoi stessi rappresentanti designavano con questo nome. Sarebbe poi necessario chiedersi cosa s'intende precisamente per "islamico". Questa questione non è puramente lessicale. Riguarda il centro del nostro problema, sapere se un rinnovamento per l'Islam può avvenire dall'interno o dall'esterno e se la ricezione della filosofia potrebbe fornire un modello. Ci occorre quindi sapere se la filosofia nasce dall'interno o dall'esterno dell'Islam. Quanto alla sua origine la risposta è chiara. La filosofia è una "scienza esterna". Si distingue dalle "scienze islamiche", incentrate sullo studio del Libro, di ciò che è necessario sapere per comprenderlo (grammatica, retorica, conoscenza della lingua dei poeti primitivi, ecc) e di ciò che è necessario sapere per applicare le disposizioni giuridiche contenute in esso e nei racconti su Maometto (Hadith, fiqh, ecc) La distinzione tra queste due categorie di discipline e l'assegnazione della filosofia al primo gruppo è nota e classica presso i dotti musulmani. Questi ultimi hanno sempre saputo che la filosofia giungeva dai greci (2). Il primo ad essersi occupato di filosofia, il ricco mecenate al-Kind, proponeva già la nobile massima secondo cui bisogna accogliere ogni verità, qualsiasi sia la sua origine (3). Se la filosofia è "venuta", senza ombra di dubbio, dal di fuori, rimane da scoprire se è potuta "entrare" all'interno dell'Islam. Si potrebbe azzardare una risposta paradossale. Da una parte, la filosofia non è riuscita ad innestarsi in modo profondo e duraturo sull'albero della cultura islamica. Dall'altra, cosa che può sembrare contraddittoria, è stata in un certo senso troppo assimilata a questa cultura. Il principale fattore che ha impedito alla filosofia di penetrare profondamente nel mondo islamico è che essa è rimasta un fenomeno d'élite. Certo, i grandi filosofi islamici sono a tutti gli effetti allo stesso livello di raffinatezza, di finezza, di profondità intellettuale dei loro equivalenti europei. Questo vale anche per gli ebrei. Tommaso d'Aquino, Maimonide, Avicenna sono dei geni perfettamente equivalenti. Ma un esercito non è composto solo da generali. In terra islamica e nelle comunità ebraiche nessuno svolgeva la professione di insegnare o imparare la filosofia. Certamente niente impediva ad un imm o a un rabbino di occuparsi di filosofia e di dare prova di grandi capacità in questo ambito. Ma tutto questo restava a livello di dilettantismo. Come esempio si può prendere al-Ghazali (morto nel 1111): di professione era giurista e insegnava presso la scuola giuridica shafi'ita, che era ben vista dai sultani selgiuchidi. Si è dedicato ad una critica molto penetrante nei confronti dei filosofi che conosceva, primo tra tutti Avicenna. Racconta, non senza vantarsene implicitamente, come abbia studiato le opere di coloro che criticava: in due anni, senza maestro e nel poco tempo libero che gli lasciava l'insegnamento molto impegnativo che garantiva alla Madrasa Nizamiyya a Bagdad (4). Non erano soltanto gli avversari della filosofia ad essere dei dilettanti. I filosofi stessi, ebrei o musulmani, lo erano tutti. Dovevano avere un mezzo di sostentamento e dedicarsi alla filosofia durante il tempo libero che l'occupazione a volte pesante lasciava loro. Farabi era un musicista virtuoso. Avicenna era medico e ministro. La sua biografia racconta che faceva della filosofia dopo una giornata di lavoro, la notte, circondato dai suoi discepoli, senza disdegnare a volte l'aiuto di un bicchiere di vino (5). Averroè era giurista, gran qadi di Cordoba. Presso gli ebrei Maimonide era al tempo stesso medico di corte e rabbino della sua comunità. Una lettera ci dà un'idea abbastanza sconvolgente del suo impiego del tempo (6). Questa situazione ebbe come conseguenza due modi di recepire la filosofia molto diverse. In terra d'Islam essa non è mai stata istituzionalizzata. Nell'occidente latino l'insegnamento della filosofia costituiva la base degli studi superiori. Erano necessari molti anni di filosofia prima di specializzarsi in medicina, diritto o teologia. Il quarto Concilio Lateranense (1215) sancì che era obbligatorio un corso di filosofia nella formazione dei teologi. Niente di tutto questo è mai esistito al di fuori dell'ambito cristiano, e neppure al di fuori dell'ambito cristiano latino. Di conseguenza, un medico, un giurista, un teologo dell'occidente latino, sono prima di tutto filosofi. In compenso un uomo di religione pienamente competente, nell'Islam, come d'altra parte nel giudaismo, non ha alcun bisogno di aver studiato filosofia. Questa situazione ebbe delle conseguenze sul percorso storico di questa disciplina. In Europa la filosofia non cessò di essere praticata fino ai nostri giorni. Fu praticata al più alto livello: pensiamo al Cardinale Niccolò Cusano, fino all'ultimo dei nostri Papi che ha iniziato la sua carriera come professore di filosofia. Nell'Islam, il percorso della filosofia fu abbastanza breve: dalla metà del IX secolo all'inizio del XIII secolo. Dopo questa data, la filosofia, praticata da persone come Farabi o Averroè, scomparve "fatta eccezione per qualche retaggio che si può ancora ritrovare in un ristretto numero di persone isolate, sottostanti al controllo della Sunna". è così, in ogni modo, che Ibn Khaldun, nel XIV secolo la presenta (7). La riscoperta del pensiero dei filosofi medioevali è avvenuta per tramite dell'Occidente. Il (troppo) celebre Trattato decisivo di Averroè fu stampato per la prima volta a Monaco nel 1862. è questo testo che fu ripreso nel mondo arabo in una serie di edizioni pirata a partire dalla fine del XIX secolo. Il mondo arabo, da allora, ha generato molteplici studiosi che si occupano di filosofia medioevale e che pubblicano, secondo le regole della filologia europea, i grandi testi di questo pensiero. Si può menzionare l'americano d'origine irachena Muhsin S. Mahdi (nato nel 1926) che, tra l'altro, riscoprì molti testi capitali di Farabi, oppure un marocchino, il rimpianto Jamal el-Dine Alaoui, editore di Averroè, morto prematuramente nel 1922. Ho promesso una seconda risposta a contrappunto della prima. La filosofia è stata ho affermato in un certo senso troppo profondamente assimilata alla cultura islamica. Voglio dire con ciò che essa è stata considerata dalla cultura islamica allo stesso modo di altri campi del sapere, come il diritto e la scienze. Ho caratterizzato altrove lo stile islamico di appropriazione del sapere come una "digestione", distinguendolo dal modo europeo, che ho definito "inclusione" (8). Questo concetto si può esemplificare nella persona di Avicenna (morto nel 1037). Questi rappresenta uno spartiacque nella storia del pensiero islamico. Prolunga il lavoro di Farabi di cui riconosce l'influsso determinante (9). Ma non lo prolunga allo stesso modo dei pensatori andalusi. Costoro o non conoscevano Avicenna, come Ibn Bjja (morto nel 1138), o lo criticavano, come Averroè. Gli andalusi, ispirati da Farabi, si sforzavano di rimanere in una fedeltà assoluta ad Aristotele. Se necessario gli attribuivano delle scoperte successive o cercavano di correggere l'astronomia di Tolemeo affinché fosse in accordo con la fisica aristotelica. E innanzitutto, come fece Averroè, commentavano Aristotele. Avicenna tenta al contrario di integrare l'insieme del sapere aristotelico in una sintesi originale. è il primo a non aver scritto dei commenti sulle opere di Aristotele, fatta eccezione per alcune note su qualche opera del filosofo greco, che del resto non sembravano destinate alla pubblicazione. Le redazioni successive del suo sistema filosofico ben contengono tutto ciò che è in Aristotele. Ma esse non consistono in citazioni della lettera del Maestro. Inoltre Avicenna fu il primo filosofo dell'Islam che stabilì ponti tra la filosofia e le altre dimensioni del pensiero islamico. Al centro stesso della sua dottrina dell'essere integra elementi che sembrano derivare dall'apologetica del Kalm (la teologia apologetica musulmana, N.d.T.). è il caso della sua distinzione fondamentale tra essenza ed esistenza. Peraltro è il primo pensatore che, in testi probabilmente d'intenzione esoterica, volle accordare un valore filosofico alle esperienze dei mistici sufi. Così facendo, poneva le basi per una concezione della filosofia certamente più vasta, ma allo stesso tempo meno rigorosa. Con Avicenna la filosofia in lingua araba non coincide più con l'aristotelismo, ma, propriamente diventa avicennismo; fatta salva l'eccezione andalusa, che durò poco, non si commentò più Aristotele e si iniziò a commentare Avicenna in persona. I pensatori successivi elaborarono le sintesi che in Avicenna non era presente, se non virtualmente. Il Kalm tardivo integrò ingenti parti della filosofia di Avicenna. Il sufismo si diede come base metafisica il neoplatonismo volgarizzato, a cui Avicenna stesso aveva attinto. Il mondo musulmano, come si presenta oggi, potrebbe di nuovo mettersi in ascolto della filosofia? Ciò significa: sia prestare attenzione alla propria tradizione filosofica medioevale, sia alla filosofia che si è sviluppata in Occidente a partire dalla fine del Medio Evo. Le prove di questo interesse non sono inesistenti, ma sono rare. In Europa, gli studenti che hanno come lingua madre un dialetto arabo, si interessano ai testi filosofici medioevali scritti in arabo classico. Sono essi che costituiscono, per esempio, la maggior parte dei miei studenti alla Sorbona. Nelle università del mondo arabo, la filosofia viene insegnata nella maggior parte dei casi in dipartimenti dove si insegna anche il misticismo (in particolare il sufismo) e l'apologetica (il Kalm). Così facendo, la filosofia si trova accostata alle discipline che sono state, nel passato dell'Islam, le sue rivali, addirittura le nemiche più accanite. La tipologia di rapporto con il sapere, che è alla base della filosofia islamica, è altrettanto difficile da conciliare con la filosofia moderna. I filosofi islamici consideravano in effetti la filosofia come una materia suscettibile di insegnamento poiché conteneva delle verità oggettive già scoperte. Un'opera di Farabi, ritrovata negli anni sessanta, contiene un passaggio che suona incredibile per noi: dopo Aristotele non si ha più necessità di cercare! Ci si può quindi mettere a insegnare e a imparare la filosofia (10). I moderni, senza rinunciare necessariamente all'idea di una verità oggettiva, hanno invece messo l'accento sulla filosofia come ricerca, come metodo di indagine, eventualmente come interrogativo socratico. "Man kann keine Philosophie lernen; denn, wo ist sie, wer hat sie im Besitz, und woran lt sie sich erkennen? Man kann nur philosophieren lernen" (11). Per noi la filosofia non è un insieme di risultati, ma piuttosto un'attitudine dello spirito. Peraltro si potrebbe dire la stessa cosa delle scienze, riguardino esse la natura fisica o il passato storico. L'Islam fa fatica ad addentrarsi in questo tipo di ricerca incompiuta. Una mentalità di questo genere si trova soltanto a margine, presso alcuni liberi pensatori, come Razi, nella discussione con il suo compatriota e omonimo propagandista ismailita (12). Il modello di sapere ('ilm) che è proposto dalla religione musulmana invita piuttosto a poggiarsi su conoscenze già presenti. L'Islam infatti non concepisce la Rivelazione allo stesso modo del Cristianesimo e cioè come la storia di un popolo che culmina nella storia di un individuo. L'Islam vi vede piuttosto la comunicazione definitiva di un messaggio divino e quindi immutabile. Il Corano fa dire a Dio che ha, con l'Islam, "completato la religione" (V, 4). Ghazali ritiene che l'insegnamento di Maometto sia perfetto e che questi costituisca dunque l'Imm impeccabile che gli sciiti si vantavano di possedere (13). Farabi e Ghazali non identificavano la guida infallibile con la medesima persona: per il filosofo si trattava di Aristotele, per il giurista era il Profeta. Ma sono d'accordo, strange bed-fellows, sul modo di rappresentarsi in generale ciò che è il sapere. La sfida davanti alla quale la modernità pone l'Islam non è dunque tanto di appropriarsi di un determinato contenuto di sapere, che potrebbe essere il risultato della ricerca dei filosofi, ma anche di qualsiasi altro sapere. è piuttosto, se si può elevare al quadrato la formula, di appropriarsi di una certa modalità di appropriarsi, modalità che, fino ad ora, è stata quella dell'Europa e di essa soltanto.
(1) Per maggiori dettagli, consultare il mio «Sens et valeur de la philosophie dans les trois cultures médiévales», Miscellanea Medievalia, vol. 26:Was ist Philosophie im Mittelalter?, Berlino e al. 1998, p. 229-244. (2) Vedere come esempioFarabi, Kitâb al-Hurûf, II, 156, ed. Mahdi, Beyrouth, 1969, p. 159. (3) Al-Kindî, Sur la philosophie première, 1; in Rasâ'il al-Kindî al-falsafiyya, ed. M. A. Abu Rida, Il Cairo, 1950, t.1, p.103. (4) Ghazali, al-Munqid min ad-dalâl, 2, arabo-francese, ed.F. Jabre, Beyrout, 1969, p. 18/71. (5) The life of Ibn Sina. A Critical Edition and Annotated Translation by W. E. Gohlman, Albania, 1974, p. 54-57. (6) Maïmonide, Lettre à Samuel ibnTibbon, in Iggerot ha-RMBM, ed. I. Shaylat, Gerusalemme, 1988, t. 2, p. 550-551. (7) Ibn Khaldun, Livre des exemples, Muqaddima, VI, 18: «Sur les sciences rationnelles», ed. Quatremère, Parigi, 1858, t. 3, p. 92; tr. fr. A. Cheddadi, Parigi, 2002, p. 946. (8) Consultare il mio «Inclusion et digestion. Deux modèles d'appropriation culturelle», P. Capelle, G. Hébert, M.-D. Popelard (ed.), Le Souci du passage. Hommage à Jean Greisch, Parigi, Cerf, 2003, p. 77-96.Questo saggio continua il mio Il futuro dell'Occidente. Nel modello romano la salvezza dell'Europa, tr. A. Soldati, Milano, 2005 (II ed.). (9) Cfr. Avicenna, Lettre à Kiyâ, in Mubâhathât, ed. M. Bidarfar, Qum, 1993, 1162, p. 375 et al. (10) Farabi, op. cit., II, 143, p. 151s. (11) «Non si può imparare la filosofia; infatti, dov'è? Chi la possiede e da che cosa si riconosce? Si può solo imparare a filosofare», Kant, Kritik der reinen Vernunft, Methodologie der reinen Vernunft, A 838/B 866. (12) Consultare Razi, Opera Philosophica, ed. P. Kraus, Il Cairo, 1942, p. 302-303. (13) Corano, V, 4; Ghazali, op. cit., 3, p. 29/88