Le radici del conflitto che ha colpito anche il Libano affondano nella storia dei popoli, nelle memorie e nelle politiche dei dirigenti, nei commentari dei testi sacri, nell’istruzione
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:37
L’ambasciatore della grande potenza che ci parlava dei confini di Sykes-Picot e della solidità della carta geopolitica del Medio Oriente disegnata nel 1916 non immaginava l’imminenza del dramma atroce di Parigi, perpetrato da un gruppo che ai confini attribuisce un valore assolutamente insignificante. Questa situazione si riflette nelle dichiarazioni del ministro dell’Interno libanese Nouhad el-Machnouk, che ha affermato come la duplice esplosione nel quartiere a maggioranza sciita di Burj al-Barajne a Beirut, il 12 novembre, non sia purtroppo l’ultima di questo genere: i confini sono infatti diventati porosi. Una cosa oggi è certa: l’attentato omicida nel campo di Hezbollah non è un messaggio sporadico ma un episodio di una macabra serie di operazioni terroristiche che lo Stato islamico pensa di eseguire, come rilevano i dati di cui sono entrati in possesso i servizi segreti libanesi. Poco importano gli obbiettivi delle azioni dello Stato islamico nelle roccaforti di Hezbollah o altrove: i confini si affievoliscono e diventano sempre più virtuali nella misura in cui, dalla rivoluzione panislamica dell’Ayatollah Khomeini a oggi, la spaccatura tra sunniti e sciiti continua a crescere e si trasforma di giorno in giorno in una frattura difficile da saldare. Una frattura non più politica ma profondamente sociale. Durante le manifestazioni scatenate dai discorsi di Sayyid Hassan Nasrallah gli slogan contro l’Arabia Saudita sono diventati all’ordine del giorno, e questo è un fatto nuovo. È chiaro che sono i sunniti moderati a fare le spese di questa frattura, e si sa che la tensione non calerà fintanto che i grandi focolai dei conflitti in Yemen, Siria e Iraq, e l’ideologia della frattura e dell’anatema diffusa attraverso l’educazione e i mass media continueranno a crescere e diventare una letteratura a conferma di un’altra. Si direbbe che siamo entrati in un tunnel senza uscita per venti, trent’anni. L’entrata dei Paesi occidentali per via aerea nel conflitto contro lo Stato islamico – ben radicato nella barbarie, fondato su un discorso religioso che si ritrova nei commentari classici autorizzati – potrebbe risolvere il conflitto militarmente, ma non senza effetti di destabilizzazione sull’Occidente. Ciononostante il problema resta, nei suoi fondamenti, saldamente ancorato, nell’attesa che sbocci una nuova critica della memoria e dei diversi discorsi. In questa situazione oscura, che cosa diventa il mondo arabo? Un acuto politico libanese in una conferenza ha detto che con l’attuale frattura il mondo arabo ha cessato di esistere politicamente e diplomaticamente e ha lasciato il posto a un mondo di stati, la maggior parte dei quali sono condannati alla perdizione, altri non fanno che proteggersi dal moto ondoso, preoccupati dei loro interessi più immediati. Il mondo arabo è a immagine delle pattumiere di Beirut, che non son svuotate a causa della letargia e dell’inefficacia dei politici, e dei calcoli individuali a tutela dei loro interessi. Perciò, tanto i regimi arabi quanto i politici libanesi non disdegnano le proposte di mediazione e di negoziazione di soluzioni dei confitti avanzate nella conferenza di Vienna. Tuttavia, nel nostro mondo, ci piace guadagnare tempo con digressioni di natura diplomatica, perché ciò che si cerca sono le vittorie sul nemico nel quadro della grande frattura. Nel frattempo continuiamo a sperare e ad aspettare la manna dalle grandi potenze e dai loro rappresentanti. Si risponde agli abusi dello Stato islamico attraverso discorsi e mezzi militari, come ha fatto il presidente francese François Hollande lunedì 16 novembre davanti al Congresso riunito a Versailles. Ed è comprensibile se si tiene conto della minaccia che la dittatura jihadista rappresenta per il Medio Oriente nel breve e nel medio termine. Ma considerando i drammi recenti, questa minaccia pesa in modo particolare sui Paesi occidentali, come hanno ripetutamente sottolineato alcuni buoni osservatori libanesi e mediorientali. Il “cancro” che essa rappresenta, secondo l’immagine utilizzata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, è una forma aggressiva che moltiplica le metastasi nei Paesi limitrofi. La sua capacità di proiezione cresce incessantemente, che sia per il sistema di “franchising” inaugurato da Al-Qaida e presente ormai su tutto l’arco africano e in Afghanistan, per il suo potere di indottrinamento dei “lupi solitari” o per la sua capacità di reclutamento. È evidente che non sono i discorsi più virulenti né gli attacchi aerei più massicci a risolvere i conflitti, soprattutto se i discorsi si caratterizzano per la generalità e l’“ingenuità” nel pensare che neutralizzando militarmente lo Stato islamico tutto sarà risolto. Le radici del conflitto affondano profondamente nella storia dei popoli, nelle memorie e nelle politiche dei dirigenti, nei commentari dei testi sacri, nell’istruzione così come viene impartita, al di là delle pratiche storiche assolutamente riprovevoli delle dittature.