Che cosa è la tradizione musulmana? La risposta di Michel Cuypers in occasione del Comitato Scientifico della Fondazione Internazionale Oasis. Venezia, 22-23 giugno 2009
Ultimo aggiornamento: 21/06/2022 09:43:34
1- Che cos’è la tradizione islamica?
La religione islamica, nella fede e nella legge, si basa su due fonti normative fondamentali: il Corano e la Tradizione (Sunna). Benché il Corano sia primario in quanto rivelazione divina, la Tradizione ne costituisce il complemento indissociabile, a titolo di esplicitazione e di sviluppo profetico. Contiene infatti le parole e gli atti del profeta dell’Islam (gli hadîth) e in secondo luogo dei suoi Compagni, trasmettendo l’insegnamento e lo stile di vita del profeta e della prima generazione dei credenti. È in somma un commento vivente del Corano. Gli hadîth sarebbero stati raccolti dai Compagni del profeta e da alcuni dei suoi prossimi (le sue mogli, i suoi familiari), poi trasmessi oralmente da una catena di trasmettitori (isnâd) attraverso le generazioni, fino alla loro consegna per iscritto da parte di coloro che hanno raccolto gli hadîth, “i tradizionisti”.
La Costituzione del corpus scritto delle tradizioni è stato molto più lento ed esitante di quella del Corano. Dopo un primo secolo di trasmissione orale, è solo nel II secolo dell’egira che, su ordine del califfo ‘Omar II, è iniziata la compilazione scritta tradizioni. Ma è il III secolo dell’egira il gran secolo delle compilazioni di tradizioni, riunite in vaste raccolte, due delle quali saranno considerate riferimenti incontestabili nel prosieguo della storia islamica: quello di Bukhârî (che raccoglie 7.275 hadîth) e quelli di Muslim (3.033 hadîth), ai quali verrà dato il nome dei “due autentici (Sahihayn) perché contengono solo hadîth considerati autentici. Infatti, parallelamente alla pia effervescenza delle tradizioni del II e del III secolo dell’egira, e al fine di riunire ovunque il massimo di hadîth possibile (Bukhârî ne avrebbe raccolti 600 mila), si è costituita una “scienza del hadîth” che precisa le regole per poter distinguere tra le tradizioni autentiche e quelle apocrife, costruite su misura per sostenere una qualsiasi pretesa politica, ideologica o partigiana. Ci torneremo in seguito.
2- Quello che la tradizione rappresenta per i credenti
Benché il Corano sia la fonte primaria e fondamentale delle fede e della legge, la Tradizione non è meno importante nell’organizzazione delle fede e della pratica islamiche, poiché si presenta come un’illustrazione delle norme e dei valori della rivelazione coranica, insegnate e vissute dal profeta, modello perfetto dell’ideale islamico che ogni credente cerca di imitare.
I credenti si nutrono senza sosta della Tradizione, attraverso la quale si sentono in unione viva con il fondatore dell’islam. Essa forma letteralmente la loro coscienza religiosa. Il culto, la predicazione e l’insegnamento si riferiscono ad essa in continuazione.
Essa costituisce anche, insieme al Corano, un riferimento indispensabile per le scienze religiose. All’esegesi coranica fornisce un tesoro di interpretazioni e di asbâb al-nuzûl, quelle “occasioni della rivelazione” che offrono la ragione storica per la quale tale versetto o tal altro sarebbe stato rivelato. Essa fornisce delle norme per la teologia (kalâm) e il diritto canonico (fiqh). Prima di tutto si impone la norma coranica. Ma, in assenza di norma rivelata, è la tradizione che fa autorità. Se la tradizione non è esplicita su un argomento, si farà ricorso ad altre due fonti secondarie della legge che sono state accettate o rifiutate in modo diverso secondo le scuole giuridiche, in ragione della loro origine umana: il consenso comunitario (ijmâ‘, difficilmente praticabile), e lo sforzo razionale (l’ijtihâd, che non può essere imposto a tutti, in ragione della sua parte di soggettività).
Ma la tradizione alimenta anche in modo più ampio l’immaginario collettivo islamico, fornendo riferimenti storici e culturali e facendo rivivere la prima generazione esemplare dei credenti. Essa gioca così un ruolo importante nella re- islamizzazione attuale del mondo islamico, preoccupato di tornare alla sua purezza originaria. A tal proposito va segnalata l’importanza della Sîra, la “vita del profeta”, scritta da Ibn Ishâq (m. 151/678) e rifondata da Ibn Hishâm (m. 218/833). Benché non faccia parte del corpus degli hadîth, questa biografia gode di uno statuto quasi canonico, e svolge un ruolo considerabile nella devozione dei credenti verso il profeta e la prima comunità islamica. Accordando ampio spazio ai fatti d’armi del Profeta, la Sîra descrive anche nel dettaglio il suo modo di vivere nel quotidiano, cosicché la sua Sunna (“via”) può servire da modello per il credente nel suo comportamento materiale, morale e spirituale.
Note sulla Tradizione nello sciismo
Tutto ciò che abbiamo detto riguardava direttamente la maggioranza ortodossa sunnita dell’Islam. Anche lo sciismo ha una sua Tradizione, ma questa non si riferisce allo stesso corpus né alle stesse catene di trasmettitori. Le parole e gli atti riportati non sono solo quelli del profeta, ma più in generale quelli della “gente della casa” (Ahl al-bayt), cioè il profeta, sua figlia Fatima e suo marito ‘Ali, con i due figli Hasan e Husayn) e degli Imam successivi. I trasmettitori devono anche loro far parte della discendenza del profeta. La principale raccolta di tradizioni sciite è quello di Kulayni (m. 329/940), che conta più di 16 mila citazioni.
3- La critica della Tradizione
a- La metodologia classica della “scienza del hadith”
Fin dai primi tentativi di mettere per iscritto gli hadith, i dotti musulmani hanno avvertito il bisogno di assicurarsi della loro autenticità. Questa necessità diede vita a una “scienza dello hadith”. Essa ha sviluppato soprattutto una critica esterna, centrata sulla validità della catena dei trasmettitori (isnâd). Le domande che vengono avanzate in questo campo sono del tipo: i diversi trasmettitori sono stati realmente in contatto, così da poter trasmettere la parola in una catena continua, a partire dai compagni e fino ai compilatori del corpus? Erano moralmente e intellettualmente affidabili? Non servivano una causa settaria o politica deviante? Questa scienza ha dunque preso la forma di uno studio biografico di tutti i personaggi inclusi nelle catene di trasmettitori delle raccolte di hadith, tra i quali spiccano in primo luogo i Compagni del profeta, primi testimoni. Un classico del genere, il Libro delle Classi (Kitâb al-tabaqât) del tradizionista Ibn Saʽd (m. 230/845), riunisce circa 4.250 notizie biografiche!
La critica è giunta a classificare gli hadith secondo la loro maggiore o minore validità, a partire dagli hadith solidi (o sani), per passare a quelli buoni, accettabili, passabili e fino a quelli deboli o francamente falsi, apocrifi. Il successo delle raccolte di Bukhârî e Muslim dipende precisamente dal grande numero di hadith “solidi” in esse contenuto. Gli hadith considerati come più solidi (e di conseguenza unanimemente accettati) sono quelli trasmessi in modo identico da numerosi Compagni e attraverso molteplici catene concordanti di garanti.
Se la catena di trasmettitori era solida, il tradizionista si mostrava incline ad ammettere un hadith, quale che fosse la verosimiglianza del suo contenuto. La critica interna riguardava essenzialmente l’accordo tra il tono del testo (matn) dell’hadith e il Corano. In caso d’incompatibilità tra i due, il hadith doveva essere considerato, in linea di principio, come falso. Una scuola marginale (lo zâhirismo) non esitò tuttavia ad ammettere che un hadith potesse abrogare il Corano, in ragione del carattere ispirato delle parole (hadith) del Profeta.
Occorrerà attendere Ibn Khaldûn (m. 1406) perché sia proposta un’inversione del metodo critico, accordando una maggiore importanza al testo stesso del hadith piuttosto che alla catena dei trasmettitori: «Non si deve utilizzare quest’ultimo metodo [la validazione dell’isnâd] se non dopo aver studiato il racconto in sé per conoscere se i fatti che esso racchiude sono plausibili o meno» .
b. I riformisti e la Tradizione
Dalla fine del XIX secolo si possono distinguere nell’Islam due atteggiamenti principali nei confronti della critica alla Tradizione.
Da una parte alcune istituzioni ufficiali perpetuano, fino ai nostri giorni, le posizioni classiche. Citiamo un autore musulmano modernista (Ali Merad):
In molte università islamiche il ruolo del corpo insegnante pare limitarsi ad assicurare la continuità di un sapere convalidato da una sorta di consenso comunitario. Per quanto riguarda la Tradizione (e anche la biografia del Profeta), la quasi sacralizzazione delle autorità antiche in materia è la regola. Discutere queste autorità, aprire nuove piste di ricerca, significa rompere con un modello culturale che ha funzionato per più d’un millennio e che rimanda alla Comunità l’immagine della sua identità, del suo equilibrio socio-culturale, nella continuità con le sue fonti prime.
Ma dall’altra parte emerge una corrente riformista con Sayyid Ahmad Khân (m. 1898) in India, al-Afghânî (m. 1897) e Muhammad ʽAbduh (1902) in Egitto, e i loro discepoli. In nome della purezza della fede, per la quale Dio è il solo legislatore, questi pensatori mantengono due sole fonti normative in Islam (il Corano e la Tradizione), escludendo così il consenso e l’ijtihâd. Essi sottomettono la Tradizione a una critica più severa delle catene di trasmettitori e soprattutto del testo stesso. Conservano soltanto un piccolo numero di hadith, rifiutando le tradizioni che urtano la ragione o il buon senso. Valorizzano il modello degli Antichi (le tre prime generazioni di musulmani), i Salaf, per ridare dinamismo alla religione, senza tuttavia rinchiuderla nel suo passato: il loro scopo è lasciare che l’Islam trovi la sua identità e indipendenza in un mondo moderno in piena mutazione.
c. La Tradizione dopo il riformismo
La posizione riformista sarebbe evoluta in seguito in due direzioni divergenti: un neo-fondamentalismo legalista e conservatore e un modernismo laicista, che abbandona la Tradizione come fonte normativa.
Per i primi, la scelta dei riformisti di non considerare le due fonti normative secondarie (il consenso e lo sforzo razionale) conduce ad accrescere il ruolo normativo della Tradizione e allo stesso tempo a idealizzare gli antichi, i Salaf, primi trasmettitori delle tradizioni. In reazione alla modernità (di cui si accettano solo i progressi materiali), l’epoca originaria idealizzata diventa il modello da imitare, in un ripiegamento identitario. I Fratelli musulmani (fondati nel 1929) sono i rappresentanti principali di questa tendenza.
Per i secondi, la Tradizione perde il suo carattere normativo: l’autenticità della maggior parte delle tradizioni, sottomesse a una critica razionale più severa, viene messa in dubbio (sul modello di quanto fatto dal celebre islamologo Ignaz Goldziher, m. 1921). In alternativa, se ne trattiene soltanto l’aspetto etico e spirituale, a titolo di saggezza e fonte d’ispirazione. Il Corano diventa dunque la sola fonte realmente normativa dell’Islam. Un Sola Scriptura che non è privo d’influssi da parte del modello protestante (alcuni modernisti sono volentieri chiamati i “Lutero” dell’Islam). Questa liberazione dalle maglie della Tradizione permette di ipotizzare una nuova esegesi del Corano, oggi richiesta da alcuni intellettuali musulmani. Le “occasioni della rivelazione”, attinte agli hadith, non sono più il metodo privilegiato d’esegesi, come nel passato. Un’esegesi critica è ormai possibile.
Questa posizione “aperta” ha tuttavia come contropartita il fatto di situare gli intellettuali musulmani modernisti ai margini della corrente generale dell’Islam, che resta massicciamente legata alla Sunna come norma di fede e legge, organicamente connessa al Corano. Si comprende così che le differenti concezioni dei musulmani rispetto alla Tradizione sono al cuore della crisi attuale dell’Islam.
Aggiungo, in conclusione, due osservazioni personali, attinte alle mie personali ricerche sul Corano:
1. Lo studio critico del testo del Corano conduce a comprendere alcuni versetti importanti in modo totalmente differente da quello sviluppato nel corso dei secoli nella tradizione esegetica musulmana. Faccio un esempio particolarmente significativo, il versetto detto “dell’abrogazione” («Non abrogheremo, né ti faremo dimenticare, alcun versetto senza dartene uno migliore od uguale» 2,106). Questo versetto è stato sempre compreso, nella tradizione esegetica classica, nel senso che un versetto del Corano ne può abrogare un altro, con il quale si trovi in contraddizione (il versetto abrogante è supposto ovviamente essere successivo a quello abrogato). Letto però nel suo contesto letterario, diventa assolutamente chiaro che questo versetto non parla dell’abrogazione del Corano a opera del Corano, ma dell’abrogazione di certi versetti della Torah (e non della Torah tutta intera) a opera del Corano. La questione si sposta quindi dall’ambito del diritto musulmano (quali sono le norme coraniche abrogate da altre, cronologicamente più tardive?) alle problematiche relative alle relazioni tra l’Islam e il Giudaismo e le rispettive Scritture. La teoria dell’abrogazione del Corano da sé stesso, sviluppata dai giurisperiti (fuqahâ’) non ha alcun fondamento coranico.
2. La tradizione esegetica del Corano si è sempre mostrata molto diffidente verso ogni riferimento a testi anteriori (una tradizione “a monte” del Corano). Nelle prime generazioni, alcuni commentatori del Corano hanno fatto ricorso alle “fonti ebraiche” (le isrâ’îliyyât), ma in seguito esse sono state respinte come sospette (a motivo della supposta falsificazione, tahrîf, della Torah). E del resto, dal momento che la Rivelazione è concepita come un dettato proveniente direttamente da Dio, ogni ricorso ad antecedenti scritturistici diventa superfluo. In realtà, l’odierno studio testuale mostra sempre più quanto stretto sia il legame tra il testo coranico e tutto un contesto culturale estremamente ricco e variegato, la cui conoscenza si rivela indispensabile per comprendere tutte le sottigliezze semantiche del testo coranico.