In Africa le Chiese hanno svolto un ruolo attivo in campo politico nella promozione della democrazia e dei diritti umani in un contesto di alleanze mutevoli
Ultimo aggiornamento: 12/07/2024 12:19:51
Religioni e spazio pubblico. In Africa le Chiese hanno svolto un ruolo attivo in campo politico nella promozione della democrazia e dei diritti umani, a volte sostenendo i governi, altre volte sfidandoli, secondo alleanze mutevoli, rimodellate sulla base del contesto nazionale e internazionale.
Nell’aprile del 1995 diciotto Vescovi cattolici kenioti pubblicavano una Lettera pastorale che criticava aspramente il governo per i livelli raggiunti nella violazione dei diritti umani, nella corruzione, nella violenza e nell’illegalità del Paese. «Troppa della nostra gente – dichiarava la Lettera – vive nella paura». «Sembra che legge, giustizia e protezione esistano solo per i potenti. Quando nei piani alti la corruzione raggiunge il livello che ha raggiunto in Kenya, è inevitabile che l’intera società vada al collasso»[1]. Intervenendo nel dibattito allora in corso sulle riforme costituzionali, i Vescovi chiedevano che tutti i cittadini venissero consultati su ogni nuova bozza e criticavano l’indebolimento delle istituzioni dello Stato e in particolare i tentativi dell’esecutivo di pregiudicare l’indipendenza della magistratura. La lettera prendeva inoltre di mira le politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale per non essere riuscite a portare alcun miglioramento sostanziale nella vita quotidiana dei kenioti.
Le azioni dei Vescovi cattolici, che si inseriscono in un duraturo coinvolgimento religioso nelle questioni politiche e sociali del Paese, sono state spesso citate per sostenere l’idea secondo cui negli ultimi due decenni le religioni e i leader religiosi sono diventati, in tutto il continente africano, attori della società civile. Poiché chiede al governo di rispondere del proprio operato, rappresenta le richieste dei cittadini kenioti e occupa uno spazio che non appartiene né alla sfera dello Stato né a quella del mercato, la religione viene presentata come parte dell’infrastruttura vitale della società civile, incoraggiata e sostenuta da donatori internazionali.
Tuttavia, ed è ciò che questo articolo vuole dimostrare, tale percezione è problematica. Anche se alcune singole istituzioni religiose e singoli leader religiosi possono presentarsi, e nei fatti si presentano, come componenti di quel corpo informe e spesso indefinito che va sotto il nome di società civile, molti rifiutano con forza tale identificazione. Inoltre, come suggerisce l’esempio precedente, a dar forza alla Lettera pastorale dei Vescovi e a proteggere i singoli Vescovi e la Chiesa cattolica dalle rappresaglie dello Stato keniota dopo la sua pubblicazione, è stato il potere che la Chiesa deteneva. Non si è trattato tanto di una società civile che cercava di mettere il governo di fronte alle proprie responsabilità, quanto di un dialogo tra poteri.
Ritorno della religione?
Nella sua indagine sulla posizione dell’Africa all’interno del moderno mondo globalizzato, James Ferguson notava che
probabilmente le organizzazioni missionarie cristiane in Africa non sono mai state tanto importanti quanto lo sono oggi. […] Stranamente però, nell’immaginario di molti studiosi contemporanei, esse sono relegate al passato coloniale[2].
Ferguson in realtà esagera il grado di esclusione della religione dalle attuali narrazioni sulla vita politica e sociale africana. Negli ultimi due decenni si è scritto molto sul coinvolgimento della religione nella politica e nell’azione sociale in tutto il continente. Sia i donatori che le organizzazioni internazionali hanno iniziato a vedere nelle istituzioni religiose importanti attori della politica, del cambiamento sociale, dell’erogazione di servizi, dello sviluppo e della tutela dei diritti e poche persone contesterebbero oggi la valutazione espressa da Paul Gifford all’inizio del XXI secolo, quando affermò:
Le Chiese sono diventate un’importante, forse la più importante, fonte di sostegno allo sviluppo, di denaro, occupazione e opportunità in Africa[3].
Il riconoscimento della persistente rilevanza della religione in Africa, e delle sue intense interazioni politiche con gli Stati ha fatto emergere una nuova narrazione, quella del “ritorno della religione”. Essa vuole spiegare perché, contrariamente alle ipotesi di Weber, la religione in Africa non sia morta. Secondo questa visione, nel corso degli anni ’80 la religione avrebbe spostato la sua attenzione dalla sfera intima dell’individuo al coinvolgimento nello spazio pubblico politico e sociale, cioè in quello spazio che viene abitualmente considerato come l’ambito d’azione della società civile. Così facendo, le religioni si sarebbero trasformate da soggetti dediti principalmente a salvare le anime a soggetti impegnati a salvare le società e i cittadini: in altre parole, in attori della società civile. Da complesso di istituzioni situate al di sopra e al di fuori delle relazioni conflittuali di potere, la religione sarebbe diventata una forza determinante nella protezione dei cittadini da uno Stato troppo potente, dall’impatto ineguale e iniquo del mercato e (a livello internazionale), nella difesa dei poveri e di quanti non hanno voce dalle politiche impersonali delle organizzazioni internazionali per lo sviluppo.
L’evoluzione di una missione
Tuttavia, se considerata in una prospettiva storica, questa narrazione non regge. Innanzitutto essa non riesce a cogliere i modi in cui la religione si è impegnata nei dibattiti politici e sociali nel periodo che va dall’inizio del colonialismo a oggi: in altre parole, il fenomeno non è affatto “nuovo”. In secondo luogo non spiega perché le religioni si siano evolute e abbiano trasformato le proprie strategie pubbliche per appoggiare cause e interessi specifici. La religione in Africa (come altrove) ha sempre cercato di mantenere una certa rilevanza sociale nell’ambito delle comunità e delle società in cui è praticata: a cambiare sono stati il meccanismo e le priorità con cui attuare questa missione sociale. In terzo luogo, l’idea secondo cui la religione è esistita al di fuori delle relazioni conflittuali di potere non corrisponde al dato storico: le religioni hanno sempre cercato di mantenere autorità, potere e prestigio e hanno usato il loro impegno sociale per perseguire questi obiettivi.
Al di là di queste precisazioni, è certamente vero che negli ultimi vent’anni la natura del coinvolgimento della religione nei dibattiti politici sembra aver cambiato forma, un cambiamento che ha fatto sì che le istituzioni implicate in questo processo venissero qualificate come “attori della società civile”. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 i movimenti pro-democrazia sorti in Benin, Gabon, Togo, Congo-Brazzaville, Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Malawi e Madagascar sono stati guidati da leader cristiani di spicco. In Kenya i leader religiosi avevano già sfidato lo Stato ben prima della Lettera pastorale del 1995. Alla fine degli anni ’80 il Consiglio nazionale delle Chiese del Kenya aveva criticato il governo per aver introdotto un sistema di voto a coda[4], una beffa al principio del voto segreto progettata per consolidare il potere dell’Unione Nazionale Africana del Kenya (KANU). All’inizio del 2000 un’alleanza tra cristiani kenioti e leader musulmani contestò i tentativi ufficiali di riforma della costituzione mettendo in atto un processo parallelo (e attirandosi per questo gli attacchi del governo). In Zambia dalla fine degli anni ’70 Chiesa e Stato si sono spesso affrontati e la Chiesa ha contestato ciò che percepiva come un crescente autoritarismo. Più recentemente, nell’aprile del 2014, i leader musulmani del Kenya hanno criticato le misure restrittive adottate dallo Stato nei confronti dei rifugiati somali, sostenendo che violavano i diritti di individui e comunità vulnerabili. I leader religiosi cristiani e musulmani nella Repubblica Centrafricana hanno cercato di mediare tra i gruppi coinvolti nella tremenda violenza settaria che scuote il Paese.
Leader religiosi e comunità
Il fatto che la religione svolga chiaramente un proprio ruolo nei confronti dello Stato e della società significa forse che essa sta diventando parte della società civile? Come ho suggerito sopra, le religioni hanno spesso cercato di prendere le distanze dalla “società civile” anche se i donatori, e non solo loro, hanno cercato di rappresentarle in questi termini. In Kenya, ad esempio, i leader religiosi a volte hanno dovuto sottolineare che agivano in quanto Chiesa e non in quanto organizzazione della società civile. Non si tratta di una questione di lana caprina, perché la religione intrattiene una serie di relazioni di potere (interne ed esterne) che impediscono di collocarla in quell’ambito. Internamente, la varietà dei livelli ai quali esistono e operano i poteri religiosi gerarchici rende difficile stabilire quale componente di ciascuna religione (organizzata) possa essere considerata parte della società civile. Prendiamo a titolo d’esempio la Chiesa cattolica: la gerarchia nazionale (Arcivescovi, Vescovi, Cardinali) è parte dell’establishment, ha stretti legami con la leadership laica dello Stato e beneficia di potere e di risorse anche se (talvolta) essa contesta lo Stato e le politiche del governo. I parroci locali occupano invece un terreno completamente diverso e intrattengono rapporti di potere e autorità differenti all’interno della comunità locale e con la gerarchia religiosa. Come possiamo spiegare la contestazione o il discorso politico a questi diversi livelli? Appartengono effettivamente al livello locale, entro il quale i leader religiosi esprimono le richieste e i desideri della comunità nei confronti dello Stato e della gerarchia religiosa? E che cosa si può dire della consolidata tradizione di critica ad opera della gerarchia religiosa nei confronti dello Stato (per esempio in Kenya alla fine degli anni ’90 e in Zambia negli anni ’70 e ’80)? Significa forse che anche la gerarchia è parte della società civile, benché intrattenga legami formali e informali con lo Stato? O che esistono divisioni interne nell’ambito dell’establishment nazionale? O significa qualcos’altro di decisamente diverso? La Chiesa cattolica possiede le gerarchie interne più visibili, ma divisioni tra livelli diversi sono comuni a molte religioni.
Tentare di definire gli attori religiosi attraverso la lente della società civile è difficile perché essa non tiene conto del profilo storico dell’attività religiosamente motivata e così facendo occulta i cambiamenti intervenuti nel rapporto tra le organizzazioni religiose e il governo e confonde l’esperienza delle diverse religioni e confessioni (e anche delle singole organizzazioni nell’ambito di determinate confessioni) in un tutto omogeneo e astorico. Già nel periodo coloniale, se le missioni erano parte integrante dell’impresa coloniale, esse erano anche attive nell’ambito sociale, culturale e politico locale e in alcuni casi opponevano resistenza allo Stato coloniale facendosi portavoce (entro i limiti ammessi per le organizzazioni missionarie) delle richieste e dei desideri locali. Non costituivano evidentemente una società civile nel senso moderno del termine né potevano essere considerate una proto-società civile. Ma non erano neppure quegli agenti consapevoli dell’impero che molti hanno cercato di dipingere. Le organizzazioni religiose che non erano particolarmente legate alla struttura dello Stato coloniale hanno forse svolto un ruolo meno ambiguo, anche se non indiscusso o facilmente riconducibile alla società civile: i leader musulmani hanno tentato di farsi portavoce delle richieste della propria comunità (religiosa). In modo analogo, i profeti delle religioni sincretiche o degli antichi sistemi indigeni di credenze sono diventati punti nevralgici dell’opposizione allo Stato coloniale, un’opposizione che poteva sfociare in conflitto violento. Il fatto che questi leader religiosi non possano essere generalmente considerati attori della società civile in senso stretto evidenzia forse l’insufficienza delle definizioni di “società civile” veicolate e imposte dall’esterno.
Se il contesto muta
Tutto ciò fa sorgere una domanda più ampia sul motivo per cui l’impegno religioso nell’ambito della società civile e il suo rapporto con essa sia emerso negli anni ’80. Occorre capire che la religione cerca costantemente di mantenere il proprio potere, prestigio e autorità sia rispetto al potere formale che alle comunità nelle quali è collocata. Quando l’ambiente esterno si modifica, devono variare anche le strategie messe in atto per raggiungere tali obiettivi. In altre parole, l’attuale forma di partecipazione all’attività della società civile può essere considerata una risposta al contesto mutevole in cui la religione opera in Africa, piuttosto che una trasformazione del suo ruolo da privato a pubblico?
Ancora una volta, una visione storica del ruolo della religione nella società africana può fornire qualche risposta. Prendiamo l’esempio del Cristianesimo. In epoca coloniale, nell’Africa sub-sahariana molti credevano che con la fine degli imperi il potere della Chiesa (o delle Chiese) sarebbe tramontato: i legami culturali e sociali che univano le missioni allo Stato coloniale si sarebbero irrevocabilmente spezzati. Tali visioni sottovalutavano la capacità della Chiesa di trasformarsi e costruire nuove forme di legami. Negli anni ’60, con gli Stati nazionali saldamente al potere, la relazione fondamentale da stabilire era quello con lo Stato. Le Chiese (e le altre religioni principali) tentarono di accedere al potere statale – e tale accesso fu loro garantito – attraverso meccanismi formali e informali. In cambio, le Chiese diventarono le principali sostenitrici del governo lavorando allo sviluppo dello Stato e alle politiche di welfare ed evitando (nella maggior parte dei casi) la critica pubblica e l’opposizione al governo.
Con la crisi economica degli anni ’70 e il collasso del potere statale negli anni ’80 quando i donatori e le organizzazioni internazionali resero più restrittive le condizioni di accesso ai programmi di aiuto, vitali per sostenere la legittimità dello Stato, l’equilibrio di potere mutò. L’alleato naturale di un’istituzione che cercava di mantenere l’indipendenza della propria autorità non era più lo Stato. Divenne evidente che mantenere una collaborazione stretta con i regimi autoritari in un clima internazionale in mutamento avrebbe nuociuto alla propria credibilità. Con l’apertura di nuove fonti di sostegno politico e finanziario a favore di quelle istituzioni e organizzazioni che operavano di fuori della sfera dello Stato, le principali Chiese colsero sempre più le opportunità che l’assunzione del ruolo di attore della società civile offriva loro. Come suggerisce acutamente John Iliffe, il ruolo svolto dall’alto clero nei movimenti democratici degli anni ’90 riflette in parte il tentativo di riaffermare l’autorità e il potere dopo il rimescolamento delle carte della governance[5].
Questa transizione venne rafforzata tra la seconda metà degli anni ’90 e gli anni 2000 dal progressivo affermarsi della good governance agenda, con cui i donatori internazionali cercarono di creare un nuovo blocco che avrebbe favorito le riforme e potenziato gli appelli alla responsabilità e alla trasparenza nazionale. I donatori, alla ricerca di organizzazioni in grado di assicurare questa funzione di società civile, guardavano alle istituzioni più organizzate e visibili, immancabilmente dominate dalle religioni.
Riserve di potere
Le trasformazioni delle alleanze e delle priorità di impegno mettono in luce un ulteriore problema: la questione del potere. Le religioni dispongono di immense riserve di potere, che sono il riflesso delle loro dimensioni e delle loro risorse, ma anche del potere temporale e spirituale che deriva dai molteplici ruoli sociali che ricoprono. Le religioni esercitano un controllo sui propri membri come guardiani che custodiscono il confine (incerto) tra il mondo spirituale e il mondo fisico[6]. Ma gli uomini di religione hanno anche un potere temporale: sia a livello locale, quando siedono nei consigli di villaggio, sia a livello nazionale, avendo accesso alla persona del Presidente. Questo crea enormi squilibri di potere, di gran lunga superiori agli squilibri creati da altri attori della società civile, e mette in discussione ipotesi sbrigative sulla possibilità che esse rappresentino i cittadini nel loro rapporto con lo Stato o con le organizzazioni internazionali. Sebbene tale potere possa servire a dar voce all’opposizione dei cittadini al governo, riducendo il rischio di rappresaglie da parte di quest’ultimo, esso può anche essere usato per sottomettere e reprimere quegli stessi cittadini in nome di interessi ufficiali o religiosi.
Queste difficoltà sono bene illustrate dal ruolo svolto dalle religioni in Uganda nella polemica generata dal nuovo progetto di legge contro l’omosessualità. Alcune organizzazioni legate a chiese evangeliche con sede negli Stati Uniti hanno assunto la guida di questa campagna omofoba contro un gruppo già di per sé emarginato. Alcuni elementi della Chiesa anglicana hanno usato la questione dell’omosessualità come strumento per accreditarsi come custodi della moralità in Uganda, oltre a considerarla un campo di battaglia nella lotta contro l’ala liberale dell’Anglicanesimo internazionale. Nel frattempo altri leader religiosi hanno lanciato un coraggioso appello alla tolleranza o hanno dichiarato che si sarebbero energicamente opposti alla nuova legge. In questo caso, capire fino a che punto la religione fa integralmente parte della società civile (o forse di quale società civile) è un compito difficile.
Gli stessi motivi che spingono le religioni a impegnarsi in attività che possono essere sostenute dai donatori internazionali o da altri soggetti (e che vengono viste come l’essenza dell’azione della società civile) favoriscono anche l’ascesa di elementi radicali e fondamentalisti che quegli stessi osservatori considererebbero una minaccia esistenziale alla buona governance. Assistiamo così alla radicalizzazione delle moschee in zone come la costa orientale dell’Africa, mentre alcuni segmenti della comunità musulmana tentano di affermare il proprio predominio nella rappresentanza delle comunità musulmane; oppure, in Paesi come l’Uganda o la Nigeria ma non solo, si nota la presenza di predicatori evangelici caustici e allarmisti che alimentano l’omofobia. In Sud Africa le religioni hanno agito sia come severi critici dell’Apartheid che come suoi fautori. Collocare la religione in una casella precisa è un compito impossibile.
In Africa l’impegno religioso in politica ha svolto un ruolo importante nella promozione della democrazia, sfidando i governi a rispettare le costituzioni, i diritti umani e a mantenere le proprie promesse. A livello locale i leader religiosi svolgono un ruolo vitale in quasi tutti i Paesi, cercando di sanare ferite dolorose e mediando tra comunità in conflitto. Ma essi hanno anche contribuito all’infelicità di quelle stesse comunità e, quando è tornato loro utile, hanno sostenuto governi a cui poi hanno voltato le spalle. La religione in Africa è forte e svolge un ruolo forte. Anche se la tendenza attuale vuole che la religione si allei alla società civile, pur non accettando di farne integralmente parte, la storia ci ricorda che queste alleanze possono essere temporanee e suscettibili di essere sciolte e rimodellate con l’evolvere e il trasformarsi del contesto internazionale e nazionale in cui sono nate. Le religioni hanno un potere reale e sostanziale e questo potere le rende attori politici prima ancora che attori della società civile.
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Bibliografia essenziale
Gerard Clarke, Michael Jennings, Development, Civil Society and Faith-Based Organisations: Bridging the Sacred and the Secular, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2008, 1-16.
Matthew Clarke (ed.), Handbook of Research on Religion and Development, Edward Elgar, Cheltenham and Northampton Mass. 2013.
Stephen Ellis, Gerrie Ter Haar, Worlds of Power: Religious Thought and Political Practice in Africa, Hurst, London 2004.
Harri Englund (ed.), Christianity and Public Culture in Africa, Ohio University Press, Athens-Ohio 2011.
Michael Jennings, Bridging the Local and the Global: Faith-Based Organisations and the Emergence of the Non-State Provider Sector in Tanzania, «The Politics of Non-State Social Welfare in the Global South», a cura di Lauren Maclean e Melani Cammett, Cornell University Press, Ithaca 2014, 119-136.
[1] Per il testo integrale della lettera pastorale si veda Africa Forum for Catholic Social Teachings (AFCAST): http://www.afcast.org.zw/index.php?option=com_content&view=article&id=205:a-call-to-a-change-of-heart-&catid=46:kenya&Itemid=226.
[2] James Ferguson, Global Shadows: Africa in the Neoliberal World Order, Duke University Press, Durham and London 2006, 8.
[3] Paul Gifford, African Christianity: its Public Role in Uganda and Other African Countries, Fountain Publishers, Kampala 1999, 308.
[4] Si tratta di un sistema in cui gli elettori esprimono la propria preferenza sostando in coda davanti all’immagine del candidato prescelto [N.d.R.].
[5] John Iliffe, Honour in African History, Cambridge University Press, Cambridge 2005, 344-5.
[6] Cfr. Stephen Ellis-Gerrie ter Haar, Religious Thought and Political Practice in Africa, Oxford University Press, New York 2004.