La novità cristiana ha aperto la strada a una purificazione del monoteismo che svuota l’accusa secolarista di una violenza intrinseca del religioso
Ultimo aggiornamento: 12/07/2024 12:34:03
Il Vangelo della pace. Nonostante il tentativo di una parte dell’intellighenzia occidentale di presentare le religioni monoteiste come intrinsecamente violente, la novità cristiana ha aperto la strada a una purificazione che interpella anche le altre grandi religioni.
Fino a poco tempo fa, “monoteismo” era ancora una categoria d’uso corrente fra gli studiosi di storia delle religioni, come anche nel sapere socialmente diffuso, per indicare un grado di alta perfezione dell’idea di “Dio”. In una manciata di anni, “monoteismo” sembra essere diventato il nome in codice dell’oscurantismo religioso, il peggiore che sia immaginabile. Di fatto, esso è individuato come la minaccia essenziale al progresso di una civiltà della ragione e della tolleranza.
Le “tre” religioni monoteistiche dell’area mediterranea (Giudaismo, Cristianesimo, Islam) appaiono così, soprattutto nella sfera della comunicazione pubblica, ed essenzialmente in virtù di questo presupposto, automaticamente indicate come il luogo in cui il principio della violenza mostra la sua radice nella concezione stessa della signoria di Dio. Una parte rilevante dell’intellighenzia occidentale sembra aver assodato un modello di filosofia della religione, curiosamente selettivo all’interno delle religioni storiche, che indica specificamente nell’idea dell’unico Dio il motivo della radicale incompatibilità della credenza religiosa confessante con le moderne istituzioni della società civile[1]. Alcuni si spingono addirittura a sostenere che, invece, il ritorno a un orizzonte politeistico potrebbe più facilmente agevolare un pacifico rapporto fra cultura religiosa e cittadinanza democratica. D’altro canto, l’ipotesi di un ritorno al politeismo, quale emblema di una religione civile tollerante e democratica, è talmente vaga[2] – per non dire stravagante – che non è facile discernere se si tratti di una provocazione ironica, oppure della pretesa di una vera e propria argomentazione. Tanto più che essa viene per lo più avanzata da intellettuali che professano la loro estraneità ad ogni forma di convinzione religiosa a riguardo di “Dio”. In realtà essa appare, più verosimilmente, come una variante post-moderna della lotta per la rimozione della religione dalla sfera pubblica, da parte di una ragione indotta alla rassegnazione nei confronti del relativismo radicale delle culture, la quale non esita a percorrere la via della lode del mito religioso antico (nel quale non crede minimamente) per mettere fuori gioco la cultura cristiana del logos (assimilato all’ideologia del totalitarismo politico). Non raramente, questa pretesa di esclusione della legittimità culturale del pensiero credente approda, per il tramite della politica, a veri e propri effetti di intimidazione “fondamentalistica” nei confronti delle argomentazioni di culture sociali e di mondi vitali difformi dal pensiero unico imposto dalla nuova correttezza politeistica dei valori.
Ambiguità post-moderna
In ogni caso, questi stessi effetti di deriva confermano – se ce ne fosse bisogno – che la violenza è una pulsione anticamente e universalmente distribuita. Precede infatti la ritualizzazione religiosa e il logos filosofico, che sono destinate a contrastarla mediante l’appello a una verità antecedente alla violenza cosmica[3]. E sviluppa, anche al loro interno, in qualsiasi forma, una prepotenza che sempre di nuovo eccede il potere auto-salvifico dell’uomo[4].
Proprio la storia occidentale della cultura secolare dimostra che la violenza dell’uomo contro l’uomo costituisce un’insidia permanente della condizione umana, in grado di strumentalizzare culturalmente anche i dispositivi destinati a contrastarla e a contenerla: quelli della religione come quelli del logos. L’ambiguità che ha accompagnato la transizione alla fase post-moderna della secolarizzazione della sfera pubblica – processo altamente costruttivo per la maturazione dell’autonomia costituente della libertà umana e civile, ma anche progetto innegabilmente auto-lesionistico di eliminazione della trascendenza religiosa e della eticità condivisa – si mantiene intatta. Quest’ambiguità consente oggi di assumere il progetto di rimozione della cultura religiosa e della ragione umanistica come funzione necessaria dell’emancipazione della libertà individuale da ogni forma d’imposizione e di violenza. In questo modo, la costruzione dei dispositivi di contrasto alla violenza è fondamentalisticamente risolta nella decostruzione dei presidi che l’Occidente ha inventato per contenerla. L’astuzia della ragione che ha fallito coltiva il puntiglio d’indicare come esercizio della violenza anche ogni potere legittimo, ogni normatività comune, ogni testimonianza autorevole della verità.
A motivo della sua interna contraddizione, la decostruzione relativistica di ogni presidio etico-religioso e filosofico-razionale dell’umano che è comune indebolisce sempre più le istituzioni della sua tutela: e assume, non di rado, le forme dispotiche dell’azione che vorrebbe presuntivamente combattere.
La lotta contro la presunta violenza metafisica – della ragione e della religione, cumulativamente – finisce per spianare la strada alla violenza fisica. Quella cioè che, ormai, si afferma autonomamente come imperativo della forza del desiderio che si fa legge a sé stesso, senza dover neppure simulare la sua conciliazione con gli universali della giustizia condivisa e con le responsabilità del bene comune. Le guerre di religione, come la guerra alla religione, sono due forme dell’identica perversione. Una fede che ha perso la ragione è l’opposto simmetrico di una ragione che ha perso la fede. L’esito è nichilistico, e infine distruttivo, in entrambi i casi.
L’inedito della fede cristiana
La coerente testimonianza della fede cristiana nell’unico Dio, che si manifesta mediante il Figlio, deve dunque tenere seriamente conto del disorientamento prodotto dalla semplificazione ideologica oggi associata al dibattito che assume pretestuosamente e superficialmente la formula del monoteismo: estrapolandola dal suo contesto storico-teologico, e assumendola all’interno di una disputa etico-politica interessata a neutralizzare pregiudizialmente l’apporto umanistico dell’autentica esperienza religiosa.
Il documento della Commissione Teologica Internazionale, del 16 gennaio 2014, intitolato Dio Trinità, unità degli uomini, indica esplicitamente questa consapevolezza (capitolo I). Lo svolgimento del testo, tuttavia, è guidato dalla convinzione dell’utilità insostituibile di una riflessione propositiva sull’intima coerenza del mistero di Dio rivelato in Gesù. L’approfondimento teologico della verità di Dio ricevuta e creduta nel Cristianesimo deve trarre anzitutto dalla migliore conoscenza e intelligenza della Parola di Dio i principi della decostruzione del pregiudizio. L’inedito assoluto della fede cristiana, infatti, è proprio nella smentita del valore di rivelazione divina della violenza omicida imposta in nome di Dio: quasi fosse il sigillo della vittoria della verità e dell’eroismo della fede.
La qualità umanistica della nominazione di Dio – il suo significato, il suo senso, il suo ingresso nella grammatica della vita quotidiana e nella storia – è certamente una questione cruciale per l’apertura o la chiusura del senso della storia alle generazioni che devono venire. D’altro canto, il congedo dalle ambiguità della storia vissuta fin qui è un impegno dal quale il Cristianesimo, per primo, non potrà più regredire. Il Documento Dio Trinità, unità degli uomini non è reticente sul fatto che le molte luci dell’ininterrotta tradizione cristiana di questo principio sono state intercettate dalle molte ombre di una storia che le ha gravemente oscurate. Esprime nondimeno la convinzione che proprio questo sia un tempo particolarmente favorevole, per tutte le religioni, alla risoluzione delle ambivalenze imposte dalla storia di un lungo processo di evoluzione della fede religiosa e della ragione umana.
Alleanza d’amore
Nel capitolo II il documento affronta direttamente il processo di formazione – e di lenta purificazione – della fede biblica nell’unico Dio di tutti. Questo processo va riconosciuto come una progressione della manifestazione originaria di Dio ad Abramo, in cui era già prefigurata la destinazione di tutti i popoli a Dio, verso il riconoscimento della prospettiva ultima della sua rivelazione: il “Dio” della promessa e della salvezza del popolo è il “Dio” della promessa e della salvezza per tutti i popoli. La predicazione dei Profeti, infine, apre questa dimensione di fede all’orizzonte definitivo della testimonianza escatologica: ossia del giorno dell’ultima rivelazione di Dio, che “deve venire”. Il giorno di Dio è il giorno del compimento dell’alleanza per tutti i popoli e per l’intera creazione. Il superamento di ogni conflitto e la gioia di ogni creatura ne rivela il senso. L’approdo dell’antica rivelazione, che si svolge lungo una storia piena di illuminazioni e di oscuramenti, non può essere sottovalutato: esso fornisce la chiave di lettura più pertinente del suo itinerario. In questa cornice, del resto, si colloca intenzionalmente la novità della rivelazione evangelica di Gesù. Il Cristianesimo, nonostante l’inquieta vicenda delle sue interpretazioni del giudaismo, non ha mai ammesso, in nessun momento della sua storia, di congedarsi dalle scritture bibliche che attestano la rivelazione dell’antica alleanza. Né ha mai accettato di considerare il “Dio” di quella rivelazione come opposto a quello della rivelazione di Gesù, come se la novità cristiana potesse fondarsi sulla sua negazione.
Rimane nondimeno la difficoltà di intendere esattamente il filo della connessione, attraverso il compimento inaugurato e ispirato da Gesù stesso. Una difficoltà, peraltro largamente nota all’intera tradizione, è rappresentata precisamente dalle pagine bibliche che attestano il coinvolgimento di “Dio” in eventi in cui la violenza sembra proprio essere tollerata, e persino prescritta dalla parola stessa di Dio.
A questo riguardo, il testo parla francamente di pagine «difficili». Esiste indubbiamente qualcosa di enigmatico nell’evidenza di alcuni passaggi della rivelazione di Dio attraverso la violenza delle divisioni interne al popolo, come anche dei conflitti fra i popoli. Deve tuttavia essere sempre ricordata la necessità di non formulare giudizi astratti e anacronistici, che dimenticano la psicologia religiosa delle visioni del mondo che marca le diverse epoche della storia: le parole e gli eventi riconducibili alla manifestazione divina sono pur sempre assimilati, tradotti e ripresi nel tempo, dentro la grammatica dell’esperienza religiosa di volta in volta disponibile. In ognuno di questi momenti, tuttavia, è sempre anche attestata la “dialettica” di molte parole ed eventi che forzano chiaramente l’immaginazione corrente del sacro. La testimonianza – storica, profetica, sapienziale – è ugualmente registrata nel deposito della rivelazione che accompagna la storia: in alcuni casi l’efficacia della sua rottura con il luogo comune è immediatamente operante, in molti la sua efficacia appare in certo modo a futura memoria, destinata a essere colta come l’autentica chiave della Parola di Dio nel tempo a venire. Spesso, questa chiave di lettura era stata anticipata, e non colta, da una rivelazione precisa, alla quale non era stato dato il peso necessario.
La rilettura della rivelazione evangelica, che fa seguito all’esposizione della profezia biblica, la quale indica nella riconciliazione fra Dio e l’intera umanità il senso ultimo e pieno della storia della fede, è dedicata in primo luogo (capitolo III) a illustrare la singolare manifestazione del mistero del Figlio come principio di riconciliazione fra gli umani. Sulla base della nuova comprensione dell’intimità di Dio alla quale abbiamo accesso in Gesù, possono essere illuminate le profonde ragioni del mistero di riconciliazione che ci raggiunge attraverso la realtà trinitaria dell’unico Dio. Particolare cura è dedicata, nelle riflessioni del documento, all’illustrazione del rigore con cui deve essere custodito, proprio nell’intelligenza dell’amore trinitario di Dio, il mistero dell’intatta unità e unicità del Signore di ogni cosa. In tal modo, l’istanza che esige la preservazione del “Dio Uno”, che sta giustamente a cuore della coscienza religiosa dell’Ebraismo e dell’Islam, vuole essere onorata e compresa nel modo più serio come una preoccupazione che riguarda inderogabilmente la verità cristiana. Nei due momenti successivi della riflessione, il documento riprende, alla luce dell’autentica comprensione teologica del monoteismo trinitario, i termini dell'odierno confronto con la ragione umana e con l’esperienza religiosa sul tema della verità di Dio (capitolo IV).
Purificazione e testimonianza
Il Cristianesimo – in modo specifico quello cattolico – non intende rinunciare al dialogo con la storia della ragione e della cultura, in tutti i punti nei quali viene formulata la questione del senso del mondo e della verità di Dio. Il testo della Commissione Teologica Internazionale richiama sinteticamente i termini essenziali della tradizione relativa a questo confronto, mettendo in particolare evidenza l’importanza di un’investigazione congiunta delle molte forme dell’apertura umana al pensiero dell’Assoluto e della disposizione umana al senso religioso. La separazione – o addirittura la contrapposizione – fra queste due dimensioni dell’esperienza storica dell’uomo impoverisce gravemente la bellezza e la profondità della ricerca di Dio. La fede che si esonera dalla disciplina di questo leale confronto si sottrae anche alla disciplina dell’incarnazione di Dio: e non fa onore a se stessa. Ma certamente, nella rimozione di questo duplice confronto, anche la qualità della cultura dell’umano viene irrimediabilmente mortificata.
Il documento propone infine alcune riflessioni sul compito di purificazione e di testimonianza che il momento presente impone – in primo luogo – al Cristianesimo stesso e alla Chiesa (capitolo V). L’urgenza, peraltro, non è imposta semplicemente dai contrasti e dalle sollecitazioni della storia presente. Essa corrisponde, più profondamente, a un vero e proprio kairòs della fede, ossia ad un momento propizio indicato dallo Spirito. La Chiesa, infatti, è stata condotta, attraverso mille fatiche e tensioni della storia, e non senza il passaggio attraverso molte incertezze e contraddizioni dei cristiani, alla soglia di un definitivo ed esplicito congedo istituzionale dall’ambigua collusione fra l’autorità della testimonianza e il dominio della politica. Le condizioni storiche favorevoli a questo discernimento hanno dovuto incalzarci – persino dolorosamente – con l’urgenza di una comprensione più adeguata della rivelazione: che pure l’aveva già posta in evidenza nella testimonianza delle prime generazioni cristiane. Nell’insegnamento del magistero autorevole, come nel sensus fidei dell’intero popolo di Dio, l’ambigua mescolanza della confessione della fede e della pratica della violenza è definitivamente riconosciuta come una contraddizione insostenibile. Non solo. Essa appare ormai come una vera e propria eresia, che la fede deve contrastare a costo di ogni sacrificio[5].
I teologi cristiani devono impegnarsi ancora più profondamente nel sostenere e nel fare propria la fermezza di questa purificazione cristiana; dalla nuova trasparenza che ne riceve il Vangelo professato dalla fede, potrà così venire un seme di incoraggiamento per tutte le grandi religioni. Una nuova amicizia deve propiziare il riscatto collettivo dell’umano dalla violenza oggi imposta dagli idoli litigiosi e sacrificali della tecnocrazia economica. Ognuno esamini se stesso. La teologia cattolica ha fatto, doverosamente, la sua mossa.
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[1] Ha indubbiamente conferito vitalità mediatica a questa radicalizzazione la tesi storico-genetica difesa dall’egittologo Jan Assman, il quale in un saggio del 1998 fa coincidere la nascita del monoteismo dispotico con l’esclusività del comandamento mosaico, a sua volta originariamente influenzato dalla concezione monoteistica di Amenofi IV (J. Assmann, Moses the Egyptian. The Memory of Egypt in Western Monotheism, Harvard University Press 1998; tr. it.: Mosè l’egizio, Adelphi, Milano 1998).
[2] Lo stesso Max Weber, inventore della formula del “politeismo dei valori”, aveva parlato della sostituzione di un «rissoso politeismo dei valori» al «paternalismo politeistico tradizionale». Weber non prende posizione, ma, secondo la sua analisi, il conflitto politeistico è una condizione strutturale della società, che la modernità ha accentuato.
[3] Su questo duplice aspetto, ossia quello del “rito” religioso come regolatore dell’alleanza col divino che fronteggia l’ambivalenza indecifrabile del “sacro”, e rispettivamente del nomos filosofico greco, che identifica un logos superiore alle passioni del desiderio, segnalo due studi di eccezionale profilo: Jan C. Heestermann, Il mondo spezzato del sacrificio. Studio sul rituale nell’India antica, Adelphi, Milano 2007; Carlo Chiurco, Etica e Sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente, Mimesis, Milano 2012.
[4] Sulla requisizione originaria del “sacro” da parte della violenza “mimetica” del desiderio ha lungamente insistito René Girard, indicando nel prevalere dell’elemento sacrificale costitutivo della religione l’inevitabile deriva di questa requisizione. Nella sua prospettiva, unicamente la rivelazione evangelica, svelando il sacrificio religioso dell’Innocente, ha svelato anche la via del possibile riscatto antropologico della violenza del desiderio e della vittima designata. L’interesse della prospettiva di Girard rende tuttavia necessario discutere a fondo le ambiguità che derivano dalla rigida univocità della sua teoria del “capro espiatorio” come principio fondatore, a un tempo, della società e della religione. Si deve aggiungere, tuttavia, che Girard stesso ha sviluppato una profonda retractatio delle sue tesi iniziali, rivalutando il significato redentore del sacrificio, attraverso una migliore conoscenza della lettura teologico-cristiana della novità cristologica a riguardo dell’auto-consegna radicata nell’agape di Dio, rispetto all’univocità distruttiva del desiderio e alla passività sacrificale della vittima. Cfr. R. Girard, Teoria mimetica e teologia, in: Id., La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano 2004; Id., Religione e violenza. Causa o effetto?, a cura di W. Palaver, Raffaello cortina, Milano 2011.
[5] Così si esprime, senza mezzi termini, nella sua cristallina presentazione del senso del documento, il teologo Serge-Thomas Bonino, o.p., Segretario della CTI. Cfr. Un’eresia vera e propria, «Osservatore Romano», 17 gennaio 2014, 1.