In Libano sono almeno 250mila i profughi tra i tre e 18 anni che non sono dietro i banchi. I numeri sono ancora più impressionanti se si considerano altri Paesi che nella regione ospitano i siriani

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Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:18:45

IMG_0515.JPG«Good morning, what’s your name?» Le donne sono entusiaste di poter provare il loro inglese zoppicante e fresco di studio con l’ospite straniero. Sono una decina, sedute per terra nella penombra della tenda, quaderni alla mano, hanno da poco terminato la lezione di lingua.

 

Aisha ha 36 anni. È arrivata nel campo profughi di Marj al-Khokh, nell’estremo sud del Libano, a pochi chilometri dalle villette a schiera di Metulla, in Israele, quattro anni fa. È fuggita con il marito e tre figli dalla guerra in Siria, da una delle città più martoriate dal conflitto: Idlib. «Ho pensato spesso al suicidio, per ciò che ho vissuto in guerra, e ora vado dallo psicologo», spiega avvolta in un abito rosso come il velo che le copre il capo, senza smettere di sorridere. Nonostante la tristezza delle sue parole, quella di Aisha, paragonata ai racconti di decine di altri rifugiati siriani incontrati in Libano, è una storia che non manca di ottimismo. Dice di non volere altri figli, non perché ne abbia abbastanza, ma perché vuole garantire ai suoi tre bambini un’istruzione.

 

Per questo, con l’aiuto dei volontari nel campo, lei stessa studia inglese: nelle scuole libanesi, molte materie sono insegnate o in francese o in inglese, e Aisha vuole essere in grado di aiutare le sue due figlie di otto e nove anni a fare i compiti. È riuscita a iscriverle nella vicina scuola pubblica di Marjayoun, dopo che al loro arrivo avevano perso un anno perché non c’erano abbastanza posti nell’istituto.

 

Inserire un figlio a scuola: un’azione automatica ma non scontata oggi in Libano, dove decine di migliaia di bambini in età scolare non hanno accesso all’educazione. Sono almeno 250mila i profughi tra i tre e 18 anni che non sono dietro i banchi: una cifra pubblicata in un recente studio di Human Rights Watch (HRW) – Growing Up Without an Education – e confermata a Oasis da funzionari del ministero dell’Educazione libanese. Si tratta della metà dei 500mila giovani registrati dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. La cifra dunque è sicuramente più alta, considerato che non tutti i profughi siriani sono registrati e che da maggio 2016 il governo libanese ha chiesto all’Onu di interrompere le registrazioni.

 

Prima e dopo la guerra 

 

I numeri sono ancora più impressionanti se si considerano altri Paesi che nella regione ospitano i siriani. Fonti diplomatiche turche hanno spiegato a Oasis che sono 800mila i rifugiati in età scolare in Turchia, di cui 500mila fuori dal sistema scolastico. Nel Paese servirebbero 12mila nuove scuole. In Giordania, sono 80mila i giovani siriani senza un’educazione

 

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«Questa è la generazione che dovrà ricostruire la Siria – sottolinea Bassam Khawaja, autore dello studio di Human Rights Watch. La Siria prima della guerra aveva quasi raggiunto un livello universale di educazione: 90 per cento gli iscritti alla scuola elementare, 70 per cento a quella superiore». Ora, secondo uno studio dell’Unicef – che ha lanciato l’iniziativa internazionale No Lost Generation – in Siria i bambini che non vanno a scuola sono 2,1 milioni.

 

In Libano, il piccolo Paese levantino con quattro milioni e mezzo di abitanti su una superficie di 10.452 chilometri quadrati, le Nazioni Unite contano 1,1 milioni di siriani, il governo di Beirut 1,5: il che significa che un abitante su cinque oggi è un profugo. Secondo le norme internazionali, e benché non sia firmatario della convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati – i siriani nel Paese sono definiti “sfollati” dalle autorità locali – il Libano deve comunque garantire a ogni bambino il diritto gratuito e obbligatorio all’educazione elementare e l’accesso senza discriminazioni a quella superiore. La crisi siriana, l’emergenza umanitaria e l’arrivo di migliaia di stranieri hanno però messo a dura prova la struttura sociale del Paese, il sistema educativo, ma anche quello sanitario, l’economia: dal 2011, anno d’inizio del conflitto in Siria, la crisi dei rifugiati è costata al Libano 1,3 miliardi di dollari, coperti soltanto parzialmente dalle donazioni internazionali.

 

Il sistema scolastico pubblico libanese, debole già prima della crisi, è tra le realtà più provate dall’emergenza: mancano maestri e professori per accogliere il nuovo numero di rifugiati, le scuole statali sono poche – circa 1.200 su tutto il territorio nazionale – e spesso le strutture sono antiquate e non al passo con i tempi. Soltanto il 30 per cento degli studenti libanesi è iscritto a scuole pubbliche, il resto frequenta istituti privati a pagamento o gratuiti, legati a istituzioni religiose.

 

Mancano i soldi per la corriera

 

Il sistema statale, per riuscire ad accogliere i nuovi arrivati dalla Siria, o una parte dei giovani profughi, ha dovuto creare nel 2013 un secondo turno pomeridiano, interamente dedicato agli stranieri. E tuttavia, neanche questo è servito ad abbattere il numero dei bambini rimasti senza un’istruzione. Restano infatti barriere complesse.

 

Ahmed e Fahme sono arrivati in Libano da Idlib. Abitano in un’area residenziale non lontano dal porto turistico di Byblos – Jbeil in arabo – in quello che prima di essere dato loro in affitto a 400 dollari al mese doveva essere il locale comune nel seminterrato di un condominio. Hanno quattro figlie, di tre, cinque, sette e nove anni. Ahmed lavora in un supermercato, guadagna 450 dollari al mese. Sono rifugiati registrati all’UNHCR, che dà loro un assegno mensile per il cibo di 162 dollari. «Non basta per sei», spiega Fahme, il capo velato da un foulard leopardato. Così, Bushra, la figlia più grande, lavora con il padre al supermercato, per cento dollari al mese più le mance di qualche cliente gentile. Sorride come se stesse sognando Fahme quando dice che il suo più grande desiderio è vedere le quattro figlie a scuola. «Bushra mi dice sempre: “Mamma, mi avevi promesso che quest’anno mi avresti mandata a scuola”. Vedono gli altri bambini andare a scuola e vogliono anche loro le cartelle, i quaderni, le matite colorate…». Il marito non ha mai studiato, mamma Fahme ha la quinta elementare. Bushra, la figlia più grande, è riuscita ad andare a scuola appena due mesi nel 2015, era la prima volta per lei. Ha dovuto lasciare perché la scuola era a nove chilometri di distanza e la famiglia non riusciva a pagare i trasporti. Se l’autobus fosse gratuito, spiega Fahme, la manderei, anche se il padre preferisce che lei lavori: servono soldi per tirare avanti.

 

IMG_0550.JPGSono molte le barriere che bloccano l’accesso all’educazione dei giovani siriani in Libano, nonostante gli sforzi delle organizzazioni non governative internazionali e i recenti tentativi di intervento del ministero dell’Educazione locale. Il costo dei trasporti è appunto uno di questi. Un programma gestito da UNICEF e Caritas ha pagato l’anno scorso le corriere a migliaia di alunni, mentre alcune Ong locali e internazionali hanno valutato caso per caso il sostegno finanziario per i trasporti alle famiglie. I problemi comunque non si fermano agli autobus. Spesso, benché le autorità locali chiedano alle scuole pubbliche di iscrivere i rifugiati anche in assenza di documenti – sia di identità sia di certificazione scolastica e medica – molti presidi continuano a domandare queste carte. Come spiega Bassem Khawaja, di HRW, si crea un circolo vizioso. Ottenere la residenza in Libano è un processo burocratico molto lungo, difficile e costoso – 200 dollari a persona. Senza residenza è impossibile avere un permesso di lavoro (ai siriani senza questo documento è permesso soltanto lavorare nel settore edile e nell’agricoltura) e molti adulti temono di allontanarsi dai campi tendati o dalle loro abitazioni, di essere fermati ai check-point e arrestati. Questo incide anche sulla possibilità di avere accesso al mercato del lavoro in nero. Senza soldi, le famiglie non mandano a scuola i figli, gli unici che possono in qualche modo passare con più facilità attraverso i controlli della sicurezza libanese e quindi lavorare. Di conseguenza, il fenomeno del lavoro minorile è in forte aumento. Ci sono inoltre barriere linguistiche: i curricula libanesi da un certo punto in poi sono in inglese e francese, quelli siriani in arabo. Molti ragazzini che hanno ricevuto un principio di educazione in Siria faticano a stare al passo con programmi in lingue che non conoscono.

 

Le complicazioni della burocrazia

 

A fronte di queste sfide, il ministero dell’Educazione libanese ha rinnovato quest’anno un’iniziativa per estendere l’educazione al più alto numero di giovani possibile, libanesi e siriani, RACE, Reaching All Children with Education. L’anno scorso, 154mila non libanesi sono stati iscritti nel sistema pubblico nazionale. L’obiettivo è raggiungere i 200mila per l’anno scolastico 2016/2017, spiega Nibal Jardak, funzionaria del ministero dell’Educazione. Sono 330 le scuole che quest’anno avranno il secondo turno, dedicato ai siriani, contro le 238 dell’anno prima. Una circolare è stata inviata all’inizio dell’anno scolastico a tutti i presidi, spiegano al ministero. L’imperativo è: nessun documento sarà necessario ai siriani per le iscrizioni. Saranno presi provvedimenti contro gli istituti che faranno altrimenti.

 

Accanto alla scuola pubblica libanese, negli anni della crisi, l’istruzione per molti bambini siriani è passata attraverso il sostegno e i programmi di molte organizzazioni non governative internazionali. In Libano, gli addetti ai lavori parlano di “educazione formale” e “informale”. Nell’estate del 2014, il ministero ha chiesto attraverso trattative con donatori come UNICEF e UNHCR di sospendere molti di questi programmi “informali” gestiti dalle Ong sul territorio: «L’educazione informale deve seguire le linee di quella formale, adeguarsi ai curricula libanesi, integrare l’educazione formale», dice Rachelle Samaha, che al ministero si occupa proprio di questo dossier. Il quadro è stato finalizzato soltanto nel dicembre del 2015. Nel frattempo molte associazioni che fornivano un qualche tipo di istruzione a migliaia di bambini nei campi e al di fuori di essi, sono state costrette a svuotare le aule in assenza di fondi, senza poter fornire un’alternativa alle famiglie. Da quest’anno scolastico in poi, l’educazione informale (in linea con la strategia e le direttive approvate dal ministero) dovrebbe poter ricominciare su larga scala anche includendo bambini in età prescolare, ha spiegato a Oasis Davide Amurri, responsabile di Terre des Hommes Italia in Libano.

 

Oggi, la maggior parte delle Ong segue le direttive del ministero. A fine estate, sempre nel campo di Marj al Khokh, nel sud del Libano, in una tenda bianca, la grossa scritta dell’UNICEF all’entrata, una decina di bambini, tra i tre e i cinque anni, impolverati e senza scarpe, siedono per terra. Colorano schede con i numeri arabi. Altri, imparano i colori in arabo e in inglese. «Diamo loro le basi, di modo che possano arrivare preparati alle scuole libanesi: un po’ di lingua, un po’ di disciplina, i loro diritti», spiega Maya Assaf, assistente per l’educazione di Fondazione Avsi per la zona di Marjayoun. Nel vicino campo di Sarada, Rafaa, 33 anni, manda a scuola soltanto il figlio di otto anni. Le due figlie, di 14 e 16 anni, lavorano con lei nella raccolta della frutta. Suo marito, a causa di un incidente in Siria, prima della guerra, non può lavorare, quindi sono le donne a portare a casa un po’ di soldi. Se UNICEF e Caritas non avessero pagato i trasporti verso la scuola, non avrebbe potuto permettersi di mandarci il figlio, che frequenta da tre anni.

 

«Una delle sfide più significative del conflitto siriano è quella di fornire ai bambini un’educazione», è scritto in un recente studio dell’università di Saint-Joseph di Beirut. «A causa del fatto che il Libano è uno Stato fragile e le sue infrastrutture non si sono completamente riprese dopo decenni di conflitto, le tensioni regionali creano pressioni politiche e demografiche e continuano ad avere un impatto sulla governance dello Stato e l’agenda delle riforme. Ospitare un numero crescente di rifugiati potrebbe rappresentare un fattore destabilizzante sulla composizione politica e religiosa del Paese», scrivono i ricercatori, facendo notare come la posizione ufficiale del governo sia chiara: il Libano non è una destinazione definitiva per gli “sfollati” siriani.

 

«I rifugiati devono tornare in Siria, anche prima della fine del conflitto: quelli che sono con il regime possono tornare nelle aree pro-regime, quelli che sono con l’opposizione nei territori dell’opposizione. La comunità internazionale deve fare pressioni per la formazione di zone cuscinetto sicure», spiega il ministro del Lavoro, Sejaan Azzi. È seduto nel suo grande ufficio nel pieno centro commerciale di Beirut, Solidere, dal nome della compagnia fondata dall’ex premier Rafiq Hariri che ha pianificato la ristrutturazione del quartiere devastato dalla guerra civile. Il ministro è fermo sulle sue posizioni: non rilascerà permessi di lavoro ai siriani che continuano ad arrivare. Senza residenza e permessi di lavoro però, come fa notare il report di HRW, le ricadute economiche sulla generazione di siriani senza educazione restano alte. «Non abbiamo bisogno di forza lavoro, è il mercato del lavoro che lo decide – dice il ministro. Non permetterò che ci facciano perdere il Libano. Voglio mantenere il Paese per il popolo libanese. All’inizio, è vero, c’erano profughi che venivano dalla Siria, non potevamo non offrire loro rifugio. Ma dal 2014, non ci sono più rifugiati, è diventata un’immigrazione economica: per la scuola, le abitazioni, lo stile di vita... C’è un fenomeno di radicamento nella società libanese a detrimento del Libano». Secondo il ministro, cristiano maronita che ha militato una vita nel partito falangista, il Kataeb, il Libano come Paese di coesistenza islamo-cristiana starebbe scomparendo. Teme che l’afflusso di rifugiati, in prevalenza musulmani sunniti, possa cambiare il fragile bilanciamento del Libano:

«La coesistenza ha bisogno di un certo equilibrio e la percentuale dei cristiani sta diminuendo. Questo è il solo Paese in tutto il Medio Oriente dove ci sono ancora una chiesa e una croce»

 

IMG_0554.JPGRicostruire il Paese

 

Ali in Siria ci vorrebbe tornare il più presto possibile. Ha 23 anni, è di Kobani, cittadina curda al confine con la Turchia diventata famosa per una lunga battaglia tra forze locali e jihadisti dello Stato Islamico, che sono state respinte nel 2014. Ali studia legge all’università libanese, grazie a una borsa di studio ottenuta tramite Terre des Hommes Italia, e con l’Ong lavora a un programma di sostegno di studio ai bambini siriani inseriti nelle scuole pubbliche locali. Una volta alla settimana, il suo piccolo appartamento al terzo piano di un vecchio e fatiscente palazzo del quartiere popolare di Burj al-Hammoud, zona tradizionalmente cristiana di Beirut, si riempie di alunni delle scuole vicine, dai sette agli undici anni. Arrivano con le loro cartelle e i loro quaderni colorati, si siedono sui polverosi divani, tra la chitarra e i libri di studio di Ali, che con pazienza corregge loro i compiti, li aiuta, risponde alle loro domande. Vuole che questi bambini possano andare come lui all’università, che ricevano un’istruzione e non restino per strada. «Devono andare all’università, per tornare in Siria e ricostruire, non soltanto per il futuro del Paese, ma anche per il loro futuro, e quello dei loro figli». Ali sogna di tornare in Siria e fondare una Ong che si occupi di accesso all’educazione per tutti.

 

Per la Banca mondiale, se all’età di dieci anni un rifugiato non è mai andato a scuola, è molto probabile che non ci andrà mai. Il tasso di analfabetismo tra la generazione del conflitto siriano è in aumento, spiega Suha Tutunji, dell’associazione al-Jusoor, Ong siriana attiva nell’area della valle della Bekaa, dove è concentrata la maggior parte di rifugiati siriani. «Più sono analfabeti, e più sono propensi a violenze, crimini, problemi psicologici, radicalizzazione. Questa è la generazione che deve tornare in Siria e ricostruire». Siede in un’aula di una scuola del villaggio di Jib Jenin, nella Bekaa, ma i suoi studenti non sono bambini o ragazzini, ma adulti che stanno partecipando a un programma di formazione: per diventare maestri qui, e poterlo essere un giorno anche in Siria, dopo la guerra. Una ragazza tiene in mano una nuvola di cartone, un’altra un’immagine del sole, un’altra soffia forte, ridendo – è il vento – una collega lancia un po’ di acqua da una bottiglietta prima che qualcuno spunti da sotto un cartone marrone, la terra, vestita di verde: una scenetta divertente per spiegare ai bambini come nascono le piante.

 

A pochi chilometri di distanza, a Saadnayel, cittadina di 15mila abitanti, con 30mila rifugiati nei campi tendati circostanti, è giorno di mercato, un mercato che esiste soltanto da quando sono arrivati i siriani, e attira migliaia di persone da tutta la zona dei campi nell’ovest della Bekaa. Hanan, 21 anni, laureata in Libano in letteratura araba, arriva anche lei dalla Siria, in fuga dalla guerra. Vive in una tenda tra i campi, 50 dollari al mese da pagare al proprietario terriero. Qualcuno ha piantato alti fiori rossi che sembrano gigli all’entrata. La ragazza ha iniziato a insegnare da sola ai bambini della zona a leggere e scrivere, ma ha poi smesso. «Non cambia nulla. Se si perdono nel campo, molti non sanno neppure scrivere il loro nome per farsi riconoscere. Nelle scuole qui attorno non c’è un sistema educativo. Il futuro è perduto», dice. È un pessimismo condiviso, tra i profughi nei campi e tra gli analisti dietro le loro cattedre: «Una parte di questi ragazzi tornerà in Siria e porterà un nuovo sguardo – dice Carole Alsharabati, autrice dello studio dell’università Saint-Joseph –, ma un’altra parte sarà sacrificata: una generazione sacrificata».

 

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