La popolazione potrebbe oltrepassare i 62 milioni, ma soltanto nel 2036. Il flusso di stranieri infatti non risolverà la crisi demografica e il problema della bassa natalità
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:15
La consapevolezza di un diffuso e crescente malessere sul fronte del welfare matura oggi di pari passo con i profondi mutamenti, osservati e attesi, nella struttura demografica di molti Paesi europei; e in tal senso, l’Italia è forse quello che mostra i sintomi di una maggiore criticità. Nel panorama demografico dell’Europa occidentale il nostro Paese ha presentato nel 2015 il livello di natalità più basso e, di riflesso, ha condiviso con la Grecia il più alto valore negativo del tasso di crescita naturale (differenza tra nati e morti rapportata a mille abitanti) [Eurostat, 2016].
Inoltre, sul piano della struttura per età, l’Italia è anche saldamente al vertice della graduatoria europea sia rispetto alla percentuale di popolazione ultra 65enne (21,7% nel 2015), sia riguardo al rapporto tra quest’ultima e la componente in età attiva (33,7%). Non a caso, l’invecchiamento demografico rappresenta già oggi un’importante problematica che verremo sempre più chiamati ad affrontare: una sfida culturale e di sostenibilità finanziaria che rimette in discussione la capacità di continuare a dare risposte adeguate anche ai bisogni sociali classici (come la disoccupazione, le pensioni e la salute) mentre si accrescono e si sviluppano nuove richieste di protezione sociale.
Un crollo che sembra senza limiti
Nel 2015, ultimo anno per il quale si ha un bilancio completo delle diverse componenti che alimentano la dinamica demografica, l’Italia ha raggiunto, con 486 mila nascite [Istat, 2016a], un punto di minimo mai registrato in oltre 150 anni di Unità nazionale. Non si era arrivati così in basso né durante le due guerre mondiali, né in presenza di quei periodi di crisi economica e di malessere sociale che avevano spinto milioni di nostri connazionali a cercare fortuna oltre confine. Ma l’aggravante è che la tendenza alla denatalità non sembra conoscere sosta. Mentre nei primi sei mesi del 2015 si sono registrate 236mila nascite, nello stesso periodo del 2016 il loro numero è sceso a 222mila [Istat, 2016b] e si stima che a fine anno sarà ufficializzato un nuovo record di minimo con 456mila nati: certificando un ulteriore calo del 6,2% rispetto all’anno precedente.
Alla luce di questi dati si accredita l’immagine di un Paese in cui gli attuali circa sessanta milioni di residenti alimentano un numero di nascite sufficiente a garantire una dimensione demografica che, se si continuerà con gli stessi numeri, potrà scendere, mantenendo le attuali condizioni di sopravvivenza e senza contributi sul piano migratorio, attorno a 38 milioni abitanti. Ma tutto ciò non è affatto sorprendente. Lo si spiega agevolmente allorché si riflette su come negli ultimi 3-4 decenni si sia affermato un clima sociale, economico e culturale che ha portato le donne italiane a esprimere, nel breve spazio di un salto generazionale - ad esempio passando dalle “mamme” nate nel 1952 alle loro “figlie” nate nel 1976 (di tabella 1) -, una fecondità ridotta del 50% e un aumento di quasi 6 anni dell’età media alla nascita del primogenito; assecondando un gioco al rinvio – specie a partire dal secondogenito - che tende spesso a trasformarsi in definitiva rinuncia.
Prosegue così quella tendenza, originatasi quasi quarant’anni fa (nel lontano 1977), che vede l’Italia caratterizzarsi per un numero medio di figli per donna – il così detto “tasso di fecondità totale” – largamente inferiore alla soglia richiesta per assicurare la semplice sostituzione tra la generazione dei genitori e quella dei figli. Eloquente testimonianza di uno stato di crisi che ha caratteri strutturali ed è profondamente legato alla dinamica del ciclo familiare: un aspetto assolutamente determinante per un Paese in cui la fecondità è ancora per oltre il 70% interna al matrimonio (mentre in gran parte dell’Europa si è prossimi a un nato su due).
Aver dilatato la permanenza dei giovani in famiglia – oggi due terzi degli italiani 25-29enni vivono “a casa”, laddove ciò accade per meno di un quinto degli omologhi francesi, olandesi o britannici e per meno di un decimo degli scandinavi [Eurostat, 2016]- ha fatto sì che si siano modificati anche i tempi che ne cadenzano gli eventi successivi lungo il ciclo di vita. Oggi si studia più a lungo, si trova il primo impiego più tardi, si ritarda il matrimonio e quindi il primo – e spesso unico – figlio arriva in molti casi ben oltre i 30 anni. Così, per quanto la fecondità in età “matura” sia oggi abbastanza rilevante, essa non basta a recuperare il contributo mancante delle età più giovani: avere figli più tardi significa inevitabilmente averne meno.
Nel contempo l’esperienza di questi ultimi anni ha anche chiarito come non sia sufficiente a compensare il calo della fecondità delle donne italiane il pur significativo contributo che proviene dalle famiglie straniere. L’apporto di queste ultime, che è progressivamente passato da una decina di migliaia di nati nei primi anni ’90 al massimo di 80 mila nel 2012, ha segnato una flessione nel corso dell’ultimo triennio: si è scesi a 78 mila nati nel 2013, a 75 mila nel 2014 e ancora a 72 mila nel 2015. È indubbiamente un apporto ancora importante nel magro bilancio della natalità italiana, ma non va affatto visto come risolutivo per invertire le dinamiche in atto. Anche perché l’adattamento della popolazione immigrata al modello riproduttivo della società ospite procede a ritmo assai veloce. Se infatti nel 2008 il valore medio della fecondità tra le straniere era stimato in 2,65 figli per donna, nel 2012 si era ridotto a 2,37 ed è scivolato sotto la soglia dei due figli (1,97) nel 2014, scendendo ancora a 1,93 nel 2015 [Istat, 2016b].
La verità è che la bassa fecondità non ha nazionalità quando si condividono le numerose difficoltà nel far crescere la famiglia. L’adattamento degli stranieri al modello riproduttivo italiano appare progressivo e non sorprende, viste le condizioni di contesto particolarmente difficili per coppie in cui spesso lavorano entrambi i partner e che, diversamente da quelle italiane, raramente possono contare su altri familiari per la cura dei figli. Contenere la fecondità rappresenta dunque una strategia difensiva anche da parte della popolazione immigrata.
Dietro all’apparente stazionarietà, un futuro di profondi cambiamenti
Sul piano strettamente quantitativo, dopo aver sfiorato i 61 milioni di residenti (con il massimo di 60.795.612 al 31 dicembre 2014), la specificità della dinamica demografica sviluppatasi nel corso del 2015 – più morti che nati per ben 162 mila unità e un ridotto apporto in termini di flussi di mobilità con l’estero (+133 mila) – ci ha “regalato” un nuovo inatteso primato: per la prima volta dal lontano 1918 si è registrato in Italia un calo del numero di abitanti (-130 mila). Calo che sembra dover proseguire nel 2016, dove alla fine del primo semestre già si segnalano 73mila abitanti in meno (60.592.547 residenti al 30 giugno 2016). È la conferma di una realtà in cui la tenuta sul piano della consistenza numerica della popolazione è completamente affidata alla aleatoria vivacità sul fronte migratorio.
Se ci si spinge a disegnare i possibili scenari per i prossimi 4-5 decenni, si rileva come, nel caso più ottimistico, la popolazione residente in Italia potrebbe oltrepassare la soglia dei 62 milioni solo nel corso del 2036 raggiungendo il suo massimo nel 2040, con un valore di poco superiore[1]. Da allora avrà tuttavia inizio una fase di decremento che riporterà il totale degli abitanti sotto i 60 milioni nel 2062: nell’arco di cinquant’anni la parabola demografica potrà così dirsi completata. Nell’ambito di tale dinamica va anche sottolineato come sarà determinante proprio il sostegno dell’immigrazione dall’estero. Infatti, negli scenari previsivi i residenti stranieri, già oggi più di cinque milioni, sono destinati a salire a quasi 13 milioni nei prossimi cinquant’anni, mentre i cittadini italiani – pur beneficiando dell’apporto di un progressivo aumento delle acquisizioni di cittadinanza (sono state ben 178 mila nel 2015) – dovrebbero scendere, nello stesso arco temporale, di circa 9 milioni.
Sul fronte della natalità va poi precisato che il contributo dell'immigrazione straniera non sarà comunque sufficiente a garantire stabilità nel prossimo futuro. Si prevede, infatti, che l’allontanamento dalla soglia simbolica di mezzo milione di nati annui sarà via via sempre più netto, soprattutto a partire dal 2049. Non sorprende dunque constatare che la più grande sfida che la popolazione italiana sarà chiamata ad affrontare nei prossimi decenni sarà l’accentuarsi dell'invecchiamento demografico. Un fenomeno che si è già decisamente accresciuto nel recente passato e che troverà nel futuro una formidabile spinta non solo per via dell’ulteriore prevedibile calo delle nascite (effetto fecondità) e della conquista di una vita più lunga (effetto di sopravvivenza), ma anche a seguito dell’ingresso tra gli anziani dei prossimi decenni di generazioni particolarmente numerose formatesi nel periodo che va dal termine della Seconda guerra mondiale sino alla fine degli anni ‘60 (effetto strutturale). Senza dimenticare il crescente contributo degli attuali giovani immigrati destinati a invecchiare da noi: si stima infatti che a partire dal 2030 ci saranno circa 200 mila nuovi casi annui di persone che diverranno over 65 in Italia senza essere nate nel nostro Paese.
Quale demografia nella società lombarda?
La dinamica recessiva evidenziata per l’intero Paese non ha certo risparmiato la demografia della Lombardia anche se, grazie al persistente contributo di flussi migratori netti costantemente positivi (figura 3), il totale dei residenti in regione ha mantenuto nel 2015 una modestissima crescita (circa 6mila unità in più). Ciò non toglie tuttavia rilievo al fatto che il saldo naturale del 2015 (nati-morti) sia stato il minimo assoluto (-15mila unità) fornito dall’Istat in tutto l’arco degli ultimi novant’anni, e che tale valore sarebbe stato doppiamente negativo (-33mila) se non ci fosse stata la forte compensazione di segno positivo in corrispondenza della popolazione straniera residente in Lombardia. Una componente, quest’ultima, il cui livello di natalità è rapidamente salito da meno di duemila casi nei primi anni ’90 al massimo di quasi 21mila nel 2011, per poi iniziare a scendere sino
a meno di 19mila del 2015 e verosimilmente ancora più giù nel corrente anno.
D’altra parte, le difficoltà che, come già osservato a livello nazionale, influenzano il rinvio /rinuncia a mettere al mondo un figlio si riscontrano anche nella regione tradizionalmente più favorita dal benessere economico, così che l’atteggiamento di “difesa” da parte delle famiglie, ancor più se straniere, determina il progressivo impoverimento di una società incapace di garantire un’adeguata “produzione” e valorizzazione del capitale umano con cui dovrebbe costruire il proprio futuro.
Rimettere al centro la famiglia come forma di investimento sociale
Conoscere le modalità con cui si è manifestato (e si manifesterà) il cambiamento demografico nel nostro Paese, al pari della consapevolezza circa le numerose problematiche che esso sembra destinato a produrre, induce a prendere in esame gli interventi necessari per governare, nel segno della sostenibilità, le molteplici trasformazioni in atto. In proposito andrebbe ricordato che una realtà, come è la nostra, dove la popolazione esprime una fecondità media di 1,35 figli per donna [Istat, 2016b], ma il corrispondente numero medio atteso/desiderato risulta essere largamente superiore a 2, non è affatto sprovvista di uno strumento con cui poter affrontare il rilancio della fecondità agendo sulla leva della famiglia. Ci si riferisce, in particolare, all’esistenza del “Piano Nazionale sulla Famiglia”, un documento che rappresenta il frutto di contributi, qualificati e democraticamente condivisi, a suo tempo maturati nell’ambito dell’Osservatorio Nazionale sulla Famiglia presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e che è stato approvato da quest’ultimo in data 7 giugno 2012. Si tratta di uno strumento, di fatto “dimenticato” dai responsabili di governo, che sarebbe invece in grado di offrire importanti indicazioni di carattere operativo per affrontare il tema delle politiche demo-sociali, con un approccio che riconosce la centralità della famiglia e il suo ruolo strategico nel rivitalizzare la demografia del nostro Paese.
D’altra parte i dati brevemente esposti nelle pagine precedenti mostrano chiaramente, tanto a livello nazionale quanto sul piano lombardo, come sia assolutamente necessario attivare tempestivamente iniziative di “politica demografica e familiare” che, senza venir circoscritte alla sola sfera dell’emersione dalla povertà/esclusione sociale (come si è soliti pensarle), abbiano una portata universale. È infatti sempre più indispensabile coinvolgere, e se necessario supportare (quand’anche in modo differenziato ma con un comune segnale di gratificazione), l’intero universo familiare in grado di svolgere il difficile impegno nella produzione e formazione del capitale umano di cui il Paese non può fare a meno. Non è più tempo di tergiversare inseguendo le aspettative (già deluse) secondo cui il problema della denatalità sarà magicamente risolto grazie al contributo dell’immigrazione – importante ma certo non risolutivo – o a seguito di alquanto improbabili nuovi comportamenti capaci di generare spontanee inversioni di tendenza. Non illudiamoci, senza un forte segnale di attenzione da parte della società e della politica prevarrà sempre l’inerzia dettata da orientamenti culturali e da condizioni di contesto che certo non sono favorevoli a chi ha (più) figli.
Note [1] Stime Istat (2011) revisionate a cura dell’autore al fine di tenere conto delle risultanze censuarie del 2011 e delle dinamiche più aggiornate.
Riferimenti bibliografici
Eurostat (2016), www.ec.europa.eu/eurostat/data/database
Istat (2016a), Bilancio demografico nazionale, Statistiche Report, 10 giugno 2016.
Istat (2016b), Bilancio demografico mensile, www.demo.istat.it
Istat (2016b), Indicatori demografici. Stime per l’anno 15, Statistiche Report, 19 febbraio 2016.
Questo articolo è realizzato nell’ambito del progetto Non un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca