“Il regime siriano sostenuto da Mosca ha vinto, e lo ha fatto con i mezzi da lui scelti, senza sottomettersi a una visione occidentale della guerra”, ci spiega Gilles Kepel
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:54:37
Il raid di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna in Siria in seguito al presunto attacco chimico di Douma, sobborgo di Damasco, rappresenta un ulteriore complicarsi della guerra che da sette anni va avanti nel Paese. Gilles Kepel, orientalista francese esperto di Medio Oriente, ci spiega come non soltanto sia sempre più evidente che sia la Russia a controllare gli andamenti del conflitto, ma anche come il sospetto utilizzo di gas chimici da parte di Bashar el-Assad contenga un chiaro messaggio da parte del rais siriano: “Il regime ha vinto, e lo ha fatto con i mezzi da lui scelti, senza sottomettersi a una visione occidentale della guerra”.
Quali sono in Siria i rischi e le conseguenze del raid militare in Siria di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e dall’altra parte quelli del non intervento?
“L’attacco annunciato e non portato a termine nel 2013, quando gas chimici fecero 1.400 morti in Siria, è stato l’inizio della fine della strategia occidentale nel Paese. Si è capito allora che l’Occidente non avrebbe fatto in Siria quello che ha fatto in Libia, che non avrebbe bombardato Bashar al-Assad. È stato anche l’inizio della vittoria russa. Allora, Vladimir Putin ha proposto di distruggere, con la collaborazione di Assad, l’arsenale di armi chimiche del regime – cosa che è stata fatta attraverso l’Onu, ma non totalmente. Dal punto di vista simbolico è molto significativo che l’ultimo atto della caduta della Ghouta sia stato – ancora con un punto interrogativo – l’utilizzo di armi chimiche. Qualcosa certo è accaduto, e ora si attendono i risultati delle inchieste.
Mediaticamente il sospetto attacco è stato molto importante. Mostra infatti che il regime ha vinto, e lo ha fatto con i mezzi da lui scelti, senza sottomettersi a una visione occidentale della guerra. Questo dimostra come siano i russi a decidere. E sorprende anche che, almeno apparentemente, iraniani e Hezbollah non si siano immischiati nella Ghouta. È stata la polizia militare russa a occupare l’area, ed è ai russi che si sono arresi i membri di Jeish el-Islam (il gruppo islamista che controllava l’area dei sobborghi di Damasco): sono i russi che li fanno salire sugli autobus che li portano a Idlib. Si tratta del sistema della de-escalation previsto dall’accordo russo-turco-iraniano, nel quale gli iraniani giocano un ruolo molto secondario. I russi e i turchi negoziano, e i primi garantiscono per il regime di Assad, e gli altri per i ribelli. La fine della Ghouta mostra agli occhi del mondo che oggi sono i russi a controllare l’agenda politica siriana. È un’esibizione esplicita del potere russo. E il modo in cui esso sta gestendo la questione dell’attacco chimico, di cui denuncia la dimensione manipolatrice, qualsiasi sia la realtà, è paragonabile al 2013”.
Da anni gli Stati Uniti sembrano volersi ritirare dal Medio Oriente: che cosa significa questo per la regione?
“Paradossalmente anche questa situazione assomiglia al 2013, quando François Hollande era pronto ad attaccare e si è ritrovato da solo: gli inglesi e gli americani lo hanno abbandonato all’ultimo minuto. In un certo senso, Emmanuel Macron si ritrova in una situazione simile: è molto difficile per la Francia attaccare da sola. La differenza dal punto di vista americano è che all’epoca Barack Obama non aveva agito perché il suo grande obiettivo era l’accordo sul nucleare con l’Iran, firmato il 14 luglio 2015. L’ex presidente non voleva precludersi alcuna possibilità di negoziato con l’Iran. Oggi, Donald Trump vuole uscire da questo accordo, ma allo stesso tempo si trova in una situazione complicata con Vladimir Putin. È intrappolato tra la volontà di mostrare la potenza americana e il desiderio di ritirarsi dal Medio Oriente.
E per quanto riguarda il suolo della Francia?
“Quando Macron è tornato da Abu Dhabi nel novembre scorso – ero in aereo con lui – è stata presa la decisione di fermarsi a Riad per incontrare il principe Mohammed bin Salman, appena dopo la famosa rivoluzione del Ritz Cartlon e dopo che il primo ministro libanese Saad Hariri si era trovato tutto d’un colpo detenuto nel Paese. È Macron che ha fatto uscire Hariri. E nei giorni scorsi, all’Eliseo c’erano Macron, Hariri e MBS che si facevano dei selfie. La sera prima Hariri, MBS e Mohammed VI avevano cenato assieme in un grande ristorante parigino. Macron oggi si sforza di giocare un ruolo perché gli Stati Uniti non sono più presenti nella regione come lo erano prima. Il prezzo del petrolio è sceso di molto, e per questo gli Stati Uniti non metteranno più tanti ‘boots on the ground’ nella regione. Il prezzo del greggio è abbastanza basso da non giustificare l’invio di migliaia di boys dell’Oklahoma a morire a Falluja o simili. Dunque saremo noi europei a trovarci in una relazione diretta con il Medio Oriente e il Nord Africa. Non c’è più la VI Flotta, non c’è più l’ombrello militare americano che serviva da intermediario, e questo crea scenari nuovi. Questo accade in un momento in cui l’Europa è nel mezzo di una crisi molto profonda: c’è ormai un governo molto debole in Germania, perché l’estrema destra è cresciuta così tanto da indebolire la coalizione; non c’è un governo in Italia e c’è un’ascesa della destra radicale; il Regno Unito ha lasciato l’Unione europea. La Francia di Macron si ritrova perciò a essere il solo Paese che ha la capacità di reagire, ma è molto isolata in Europa. Tolta la Gran Bretagna, la Francia è circondata da due Paesi indeboliti, la Germania e l’Italia, che su queste questioni non vogliono seguirlo”.
Qualcosa sta cambiando in Arabia Saudita? Si ha l’impressione che con l’ascesa di MBS alla testa del regno la politica estera saudita sarà più aggressiva di prima. Che politica seguirà il principe ereditario? E sarà davvero in grado di imporre un cambiamento?
“MBS è già il capo. Anche se sul trono c’è ancora suo padre, è lui che fa la politica. Desidera cambiare il sistema saudita – trasformato oggi da sistema tribale basato sulle rendite in monarchia assoluta – in una logica post-petrolifera, ridimensionando il ruolo della religione come fattore legittimante della monarchia. Questo è possibile a condizione di offrire posti di lavoro alla gioventù, che lui intende rendere la sua base di legittimità. Sono state fatte molte promesse, ci sono progetti faraonici. Si concretizzerà il piano di MBS? C’è sicuramente l’incriminazione molto forte dell’Iran, in linea con la politica americana, c’è l’ossessione di voler punire il Qatar per aver osato mettere in ginocchio l’Arabia Saudita mentre era debole e guidata da ottuagenari – oggi MBS ha cinque anni in meno dell’emiro a Doha, Tamim bin Hamad al-Thani, è il più giovane leader arabo, anche se non ancora ufficialmente –, c’è anche la guerra in Yemen. Il prezzo del petrolio ha tenuto, è più alto di quanto ci si potesse immaginare quando nel 2014 le rendite dovute al petrolio del regno erano crollate, e si pensava che a quel ritmo l’Arabia Saudita avrebbe fatto bancarotta entro il 2020. Da un anno e mezzo il prezzo al barile è tornato a circa 70 dollari. Non è quanto serve al bilancio dell’Arabia Saudita per tenere (85 dollari al barile), ma almeno questo ha dato un po’ di respiro. C’è poi l’alleanza tra Russia e Arabia Saudita sul petrolio. Paradossalmente i due Paesi, benché sostengano campi opposti in Siria, hanno trovato un interesse comune. I sauditi sanno e non nascondono che Assad abbia vinto. Pensano che l’alleanza russo-saudita farà restare Assad in Siria, sbarazzandosi però degli iraniani. E, come dicevamo, questo si intuisce nella Ghouta, dove gli iraniani e Hezbollah non sono intervenuti. Sono i russi che sono entrati nella Ghouta, controllata da Jeish al-Islam, gruppo islamista finanziato dai sauditi”.
Dunque i russi sarebbero pronti a distanziarsi dagli iraniani?
“Non completamente, ma in questo momento non sono del tutto allineati, perché anche la Russia è una petro-monarchia, mentre l’Iran è più produttore di gas e comunque non ha la potenza produttiva di altri Paesi. A ottobre, per la prima volta dalla creazione dell’Arabia Saudita, un re saudita – Salman – si è recato in viaggio a Mosca”.
Con la fine della territorialità dello Stato Islamico, resta la minaccia per l’Europa? E con l’indebolimento di Isis in Medio Oriente si può dire che sia declinando anche la figura del foreign fighter, la fascinazione per gli attentatori tra le giovani reclute jihadiste, mentre da noi cresce una coscienza dell’eroe che muore per i valori europei e occidentali (vedi il gendarme ucciso nell’ultimo attacco in Francia)?
“Certo, la distruzione del territorio dell’Isis è molto importante, perché gli attacchi erano coordinati, io stesso sono stato condannato a morte tre volte da Raqqa. Ciò non toglie che ci siano ancora attentati, anche decisi su base individuale, ma è più difficile, adesso sono poche le persone il cui mestiere è organizzare attentanti. Se si guardano però gli scambi sui social networks, effettivamente gli stessi jihadisti dicono di aver fatto errori se il ‘califfato’ è stato distrutto. Per alcuni è stato distrutto perché hanno peccato, Allah li ha puniti. È colpa dei cattivi infedeli, ma anche dei loro errori. Cercano un nuovo modello. Per ora non lo hanno ancora trovato”.
Quando Macron parla in Francia di riforma dell’Islam è qualcosa di praticabile? Può accadere in Europa?
“Tutto dipende dagli interlocutori. Il problema è che in Francia era stata creata un’istanza per la gestione del culto musulmano, ma la sua attuazione non è stata realmente possibile, perché questo culto musulmano è stato recuperato dai rappresentati di Stati stranieri. Dunque, tutto dipenderà da chi tra i musulmani francesi potrà occuparsi della gestione del culto senza essere completamente sottomesso a interessi stranieri. Per ora è estremamente difficile. Ancora non è emersa quella classe media musulmana francese che potrebbe gestire la religione in una maniera che non sia soltanto una compensazione per esprimere frustrazioni politiche, sociali, culturali.
Macron due mesi fa ha annunciato che si sarebbe occupato di riforma dell’Islam di Francia, aveva fatto il mio nome come suo consigliere, ma in realtà non ne so nulla. Da allora il dossier è fermo, perché ha capito che la questione non è ancora matura”.
Una riforma dell’Islam può arrivare dall’Europa dalle seconde e terze generazioni di immigrati musulmani?
“Lo credevo. Ci ho creduto molto, ma oggi si fa fatica a vederla. Nel frattempo, c’è stato il terrorismo: 239 morti tra il 2015 e il 2016. È un trauma non ancora risolto”.
[Foto: fonte Ministry of the Defence of the Russian Federation]
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