C’è un prima e c’è un dopo la data spartiacque del 21 febbraio. Anzi meglio c’è un prima e un durante, il confinamento forzato, ma ci sarà un dopo e tutto sta nell’immaginarselo. Il modo migliore per farlo è partire da quello che abbiamo vissuto in questi mesi, nel bene e nel male. Un punto di vista italiano.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:33
Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2020, data a cui si riferiscono i dati presentati nel testo. Restano in ogni caso valide le considerazioni che ne vengono tratte.
Tre personaggi in cerca di regista
Quattro i protagonisti del dramma planetario inscenato dal Coronavirus: il primo, senza dubbio, la scienza. Medici, virologi, infettivologi, ma anche biologi, statistici e matematici ci hanno aiutato a comprendere quanto sta accadendo, compiendo un notevole sforzo di divulgazione. Anche in Italia, che in questo campo soffre un cronico ritardo a livello di opinione pubblica, è cresciuta la stima per il sapere scientifico. Dopo tanto dubitare relativista-complottista abbiamo riscoperto che la ragione umana, quando si applica sul serio, è capace di conoscere porzioni significative di realtà, adattandosi in tempi rapidi a sfide enormi. Perché è solo questione di tempo; la cura o il vaccino contro il virus arriveranno. In parallelo, abbiamo vissuto un’accelerazione tecnologica: larghe fasce della popolazione che erano rimaste ai margini della rivoluzione digitale per età o per pigrizia hanno vissuto un corso accelerato di alfabetizzazione informatica, particolarmente urgente per gli insegnanti che, per professione, dovrebbero introdurre le nuove generazioni al futuro, e quindi anche a un uso critico delle nuove tecnologie.
Anche se l’improvvisa notorietà ha generato episodi di compiaciuto protagonismo, gli scienziati hanno in genere conservato il senso del limite. Esperienze come la malattia o il contagio, ma anche il semplice confinamento, sollevano domande radicali sul significato del vivere e del morire. I positivisti di ogni epoca sostengono che al progredire della scienza corrisponde un regredire della fede. Non è stato così. Oasis, come sempre, ha dedicato particolare attenzione a cristiani e musulmani. La grande maggioranza dei fedeli di queste due religioni si sono attenuti alle rigide norme del lockdown, anche se questo ha implicato il sacrificio di rinunciare alle celebrazioni comunitarie, in particolare, ma non solo, per la Pasqua appena trascorsa e per il Ramadan che comincia stasera. Insomma, se la scienza non si è sostituita alla religione, neppure la religione – il nostro secondo protagonista – si è sostituita alla scienza. È vero, ci sono stati gruppi che, ad esempio in Pakistan, hanno opposto le due realtà (“meglio ascoltare Dio che i medici”), come se scienza e fede non provenissero entrambe dalla stessa fonte. Ma nel complesso a prevalere è stata la convinzione che, se Dio è certamente libero di compiere miracoli, non bisogna “forzargli la mano”. Al Diavolo che gli suggerisce di buttarsi dal pinnacolo del tempio Gesù risponde «non tentare il Signore Dio tuo» (Mt 3,7). E secondo un famoso hadith[1] «Un uomo si avvicinò all’Inviato di Dio e gli chiese: “Lego la mia cammella e mi affido a Dio oppure la lascio libera e mi affido a Dio?” E questi rispose: “Legala e affidati a Dio”».
Il problema del male
Naturalmente la pandemia solleva in modo ineludibile la questione del male visto che – almeno per quel che ne sappiamo al momento – il virus non sembra essere attribuibile a diretta responsabilità umana. Ecco perché sono stati così potenti i gesti di Papa Francesco che, nella Piazza vuota o nella Basilica deserta, ha fatto riaccadere la risposta cristiana: che il male non fa parte del progetto originario di Dio sulla creazione e che se Dio lo permette (non “lo vuole”), lo fa per assumerlo nella passione e risurrezione del Suo Figlio, il quale per primo ci è passato attraverso, uscendone vittorioso.
Per l’Islam, in cui non c’è caduta originaria e quindi non c’è redenzione, il problema del male è, se vogliamo, ancora più intrattabile. Ha mandato in cortocircuito il pensiero mu‘tazilita, l’antica scuola teologica che aveva cercato di accostarvisi difendendo libertà umana e giustizia divina (ma appunto, senza peccato originale e senza redenzione). Ha fatto trionfare il partito della predestinazione, che oggi tuttavia un numero sempre più grande di credenti trova insoddisfacente. Finora le autorità religiose islamiche hanno risposto alla pandemia in termini giuridici, insistendo sulla necessità di conformarsi alle indicazioni dei governanti. Giusto; ma potranno eludere alla lunga la domanda teologica?
Il terzo protagonista è la società: i medici e gli infermieri, i volontari, e alla fin fine tutti quelli che hanno cercato e cercano di mandare avanti le cose. Con gesti eroici o con l’ordinarietà del quotidiano, con la faticosa arte di estrarre dal tempo della giornata i minuti preziosi di lavoro, come pepite d’oro nella miniera, per poi dedicarsi ad accudire i figli, a farli studiare e giocare, a sentire i genitori anziani, a provvedere alle necessità del giorno per giorno. Paradossalmente, nel momento dello stare da soli, si è riscoperto il senso e il valore di essere comunità, l’importanza della solidarietà, non solo tra vicini, ma anche a livello planetario. La logica del dono, che ha accomunato persone di orientamenti molto diversi, ha avuto ragione di tante paure.
Una prova generale
Istruttivo è anche riflettere sulle relazioni che si sono instaurate tra questi tre protagonisti. Della tentazione scampata di confondere scienza e fede appiattendole una sull’altra abbiamo già detto. Una maggiore “accettabilità sociale” delle domande ultime di senso è evidente, anche se non sappiamo se persisterà anche dopo la fine della crisi sanitaria. Ma l’aspetto più interessante è probabilmente la relazione tra società e scienza. In Italia, nelle primissime fasi dell’epidemia tutti si sono rivolti agli esperti in cerca di lumi. Ma il mondo scientifico non conosce l’unanimità e sono emersi diversi punti di vista (ad esempio, il Coronavirus “è poco più di un’influenza”), finché i fatti hanno mostrato quale fosse la lettura più adeguata, anche se la valutazione finale è ancora aperta – e lo sarà finché non disporremo dei due dati fondamentali: contagiosità e tasso di letalità del virus.
In questa esperienza c’è un’importante lezione per la prossima grande questione che ci aspetta, quella ecologica. Si può sempre trovare uno scienziato che sposi la tesi più rassicurante e meno impattante, ma non è detto che abbia ragione. La differenza però è che nel caso del Coronavirus l’evoluzione è stata molto rapida: in Italia ad esempio lo slogan #Milanononsiferma ha resistito lo spazio di poche giornate, sconfitto dal crescere inesorabile dei contagi. Nel caso della questione ecologica invece il rischio molto serio è che essa diventi indiscutibile solo nel momento in cui è già irreversibile.
Quella del Coronavirus infine è stata anche la prima grande epidemia dell’era dei social media. E qui il bilancio è più opaco perché i nuovi strumenti di comunicazione, se ci hanno consentito di restare in contatto, hanno anche agito da moltiplicatori di emozioni: prima sottovalutando il problema, poi amplificandolo in modo ossessivo, esaltando e denigrando le stesse categorie (gli operatori sanitari ad esempio) nel volgere di poche settimane. Sono stati nei giorni più bui della quarantena il nostro divertissement pascaliano, forse inevitabile ma nocivo se assunto in grandi quantità.
Il grande assente
Bilancio tutto sommato positivo, dunque? Niente affatto, le ricadute della pandemia saranno terribili, il peggio lo abbiamo davanti a noi, non alle spalle. Almeno in Italia è mancato un punto di sintesi, capace di agire da moltiplicatore delle energie che questi tre attori hanno messo in campo. Mai così tante persone hanno atteso e seguito le conferenze stampa delle autorità, eppure la politica è stata il grande assente, il quarto personaggio mancante. Qualsiasi analisi che eludesse questo paradosso sarebbe parziale e fuorviante, anche per una Fondazione come la nostra, perché cristiani e musulmani non vivono sulle nuvole, ma abitano il presente e interagiscono criticamente con esso.
Se come Paese ci dividiamo con Belgio e Spagna il triste primato del rapporto morti/abitanti più pesante di tutto l’Occidente – dei dati cinesi sappiamo che non c’è da fidarsi – significa che qualcosa è andato storto. E la colpa – bisognerà pur dirlo – non è del runner (che pure, se sta a casa è meglio) o del vecchietto (che pure, se non esce quattro volte al giorno a fare la spesa è meglio). La colpa è della mancanza di competenze di una classe dirigente che per mesi ha completamente sottovalutato la crisi per poi imporre provvedimenti caotici e improvvisati. Perché ovvio, tutti nel mondo hanno patito, ma solo noi abbiamo chiuso così tanto, così a lungo e con così tanti morti. E già che ci siamo, chiediamoci anche dov’è finita in questa crisi la tanto invocata centralità del Parlamento, con le libertà costituzionali sospese con un provvedimento amministrativo, prima che un decreto legge intervenisse a sanare la situazione. Da due mesi abbiamo abolito qualsiasi sistema di pesi e contrappesi e di accountability, mentre si procede spediti verso il “tutti promossi”: ha cominciato la scuola, gli altri seguiranno.
Preoccupante è apparsa la tenuta delle istituzioni, ad esempio nella confusione delle competenze tra Stato e regioni, nell’incapacità di scrivere provvedimenti chiari, anche a livello puramente linguistico, nella burocrazia sempre nuova dei modelli di autocertificazione, nei limiti evidenziati dalle infrastrutture tecnologiche e ora nella mistica delle task force, moltiplicate a dismisura per impedire l’emergere di individualità. Come nella peggiore tradizione del nostro Paese, nel momento della crisi gli alti comandi si sono fatti trovare impreparati ed è toccato ai soldati semplici arrestare il nemico, lottando spesso a mani nude (non è una metafora, pensando ai medici di base) e in modo scoordinato. Se qualcosa ha funzionato, è stato a livello di istituzioni locali.
E adesso?
Ora si staglia, come un macigno, la questione più difficile: in che modo riprendersi dallo shock economico, peggiore della crisi del 2008, senza poter svalutare la moneta e con un profilo demografico che accentua gli elementi di fragilità e la propensione a replicare il passato piuttosto che a rischiare soluzioni nuove, a “pensare fuori dalla scatola”? Come ripensare un ruolo per lo Stato nazione nel momento in cui la globalizzazione mostra i suoi limiti e le entità sovranazionali, come l’Unione Europea, si dimostrano poco incisive se non apertamente ostili? Su questo finora solo retorica, dal governo come dalle opposizioni. La quale, per inciso, non può bollare per anni ogni appello alla solidarietà come “buonismo” e poi stupirsi se gli altri Paesi non si precipitano ad aiutarci. Anche a prescindere dalle considerazioni morali, il cattivismo funziona se ti chiami Donald Trump e hai dietro di te la potenza degli Stati Uniti; altrimenti, meglio lasciar perdere in partenza.
Un dato per riflettere: finora il Coronavirus ha ucciso nel nostro Paese circa 25mila persone. Ma 117mila sono stati gli italiani che, senza clamore, l’anno scorso sono emigrati all’estero. Non sono morti, chiaro, e torneranno a trovarci per le vacanze. Ma sono energie che abbiamo perso, persone che sono state formate a spese del nostro sistema educativo e che ora mettono le loro competenze a servizio di altre società e altri Paesi che sono stati più capaci di valorizzarli.
In questo momento in cui si ragiona (pianifica sarebbe dir troppo) di riapertura, si fronteggiano considerazioni opposte. Le esigenze della salute, prese da sole, possono condurci alla morte per asfissia. Le esigenze dell’economia, prese da sole, possono passare sopra la vita delle persone, “tanto sono vecchi e morirebbero lo stesso” come ha scritto l’opinionista olandese Jort Kelder, esprimendo senza vergogna il credo utilitarista-tecnocratico che ha fatto fallire il progetto europeo. La capacità di fare sintesi tra necessità opposte, di prendere decisioni in nome di una visione di lungo termine e non solo dell’emergenza, del bene comune e non solo degli interessi di parte, è il compito insostituibile della politica. Non essere capaci di farlo è il vero costo della politica, un costo che pagheremo per anni. Mentre illudersi di poterlo fare senza un vero dibattito sulla forma futura della nostra società, a colpi di provvedimenti amministrativo-tecnocratici, è il sintomo più allarmante della crisi della democrazia. In questo, siamo in buona compagnia.