Il riscaldamento globale è solo un aspetto della crisi ecologica che in Medio Oriente sta già generando effetti devastanti. L’ecologia, assunta criticamente, come opportunità per un “cantiere” islamo-cristiano
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:06
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In Medio Oriente verrà prima la riforma teologica o quella politica? Conta più il paradigma della modernizzazione autoritaria o il cambiamento sociale dal basso? I movimenti islamisti sono pienamente integrabili nel gioco democratico? Ho sentito per la prima volta queste domande quando ho cominciato a studiare arabo, venti anni fa, e continuo a sentirle oggi, immutate. Ma c’è un fenomeno che potrebbe trasformarle al punto da renderle obsolete, almeno nella loro attuale formulazione. Questo fenomeno si chiama crisi ecologica.
Per cominciare a integrarlo nella prospettiva di ricerca di Oasis, mi avventuro a formulare qualche riflessione, cercando di mettere a frutto letture, incontri ed osservazioni personali.
PARTE I: LA DISTRUZIONE DELL’AMBIENTE MEDIORIENTALE
1. La crisi ecologica
Crisi ecologica è un concetto più ampio del fenomeno del riscaldamento globale che è oggi balzato all’onore delle cronache. Designa la distruzione dell’ambiente naturale per effetto di sfruttamento eccessivo, cattiva gestione, comportamenti irresponsabili, guerre e conflitti. Riduzione delle risorse idriche, desertificazione, cementificazione selvaggia, incapacità a smaltire i rifiuti, sono alcuni dei modi più comuni in cui si manifesta.
Il riscaldamento globale è un aspetto della crisi ecologica. È un fatto osservato con certezza dagli scienziati. Comprende una componente naturale legata alle oscillazioni climatiche e una dovuta all’attività umana, che si stima sia diventata preponderante[1]. Quello che risulta tuttora difficile è avanzare previsioni attendibili sui suoi effetti di lungo periodo: di quanto crescerà la temperatura globale e che conseguenze produrrà? Di quanto si innalzeranno i mari? Isolare il riscaldamento globale dalla crisi ecologica più ampia in cui s’inserisce rischia di produrre paradossalmente effetti distorsivi, ad esempio concentrando tutte le risorse – necessariamente finite – sulla modernizzazione dell’apparato industriale delle economie avanzate e dimenticandosi degli altri problemi, tipici dei Paesi più arretrati.
Ebbene, la prima tesi che vorrei avanzare è molto semplice: anche se il riscaldamento globale dovesse improvvisamente arrestarsi smentendo tutti i modelli di previsione, (1) il Medio Oriente è già sul punto del tracollo ecologico e (2) questo non potrà non avere effetti enormi sulle società europee.
Personalmente ho iniziato a prendere coscienza della portata del fenomeno nel 2008, durante un soggiorno estivo a Damasco. Ero già stato in Siria nel 1999, ma per un breve tour invernale. Quella volta invece mi fermai più di un mese per lavorare su un testo del pensatore-letterato al-Maʿarrī (973-1057). In testa avevo le parole del viaggiatore medievale Ibn Jubayr (1145-1217):
Sì, Damasco è il paradiso d’Oriente, il luogo d’origine della sua splendida luce; [...] I giardini la circondano come l’alone che cinge la luna, sembrano petali tutto intorno ad un fiore. Verso oriente si estende a perdita d’occhio la sua Ghūṭa verdeggiante e ovunque si volga lo sguardo, si resta ammaliati dallo splendore di frutti maturi. Oh sì, ben son nel vero quanti di lei dissero: “Se il paradiso è qui sulla terra, esso per certo si trova a Damasco, ma se non può star altrove che in cielo, in bellezza Damasco lo sfida quaggiù”.[2]
Ma quello che ho trovato è stato ben diverso. Un fiume, il Baradā, che Naaman il siro diceva essere «migliore di tutte le acque di Israele» (2Re 5,12), ridotto a un rivoletto maleodorante; l’oasi completamente inghiottita dal cemento; costanti problemi di approvvigionamento idrico. E non è difficile immaginare che otto anni di guerra abbiano aggravato ulteriormente l’emergenza.
Il fiume Barada in un'illustrazione del 1868 (sopra) e nel 2008 (sotto)
Restavano, di Damasco, i monumenti, i mosaici della moschea omayyade soprattutto, ma decontestualizzati rispetto al paesaggio in cui erano stati concepiti. La stessa lacerante sensazione l’ho provata a Isfahan. In pieno inverno, il fiume Zayande era quasi completamente prosciugato: solo un resto d’acqua stazionava immobile all’altezza dello scenografico ponte Khaju. Fiori, piante, giardini decoravano le maioliche delle moschee, ma come in un universo manierista, il referente naturale era scomparso. Ne restava solo il simulacro simbolico.
Queste due esperienze traumatiche mi hanno spinto a collegare i tanti puntini in un disegno unico: ho rivisto i pendii del Libano sempre più urbanizzati, il Giordano inesistente all’altezza del sito del Battesimo di Gesù in Giordania, il Mar Morto diviso in due, i pozzi prosciugati di Palmira, le palme di Erbil che durante l’estate vengono coperte con gli ombrelloni perché resistano alla vampa solare, e poi la siccità siriana, tra le cause della rivolta del 2011, la crisi dei rifiuti a Beirut alimentata dal flusso dei rifugiati, gli incendi spontanei nei campi in Tunisia e, al di fuori del Medio Oriente, il lago Ciad che dal 1963 a oggi ha perso tre quarti della sua superficie… Quando un anno fa sono tornato al Cairo, ho ricevuto, per così dire, il colpo di grazia. La mia meta era il monastero di Sant’Antonio sul Mar Rosso. Diciassette anni prima ci ero andato a bordo di un furgoncino dalla guida piuttosto sportiva. Le strade ora erano meglio tenute – all’ingresso dell’autostrada sorgeva anche un imponente casello in stile faraonico – ed ero anche preparato, avendone letto sulla stampa, alle nuove città-satellite che dal Cairo si allungano a perdita d’occhio verso Suez. A superare la mia immaginazione sono stati però i 70 chilometri di costa da ‘Ayn Sokhna a Zaafarana che, da deserto, si erano trasformati in un succedersi ininterrotto di fillāt, “ville”: case a schiera, costruite per la borghesia del Cairo, che vi cerca un (illusorio) rifugio dalla calura estiva. La maggior parte delle ville era incompleta e molte non sarebbero mai state vendute perché il progetto era sovradimensionato. Il disastro ambientale era compiuto.
Se le mie sono istantanee un po’ estemporanee, per quanto di prima mano, alcuni casi sono stati studiati a fondo. Peter Harling, il fondatore di Synaps network, ha dedicato ad esempio un ampio rapporto, scritto in inglese e tradotto in francese e arabo, alla crisi idrica in Iraq[3], di cui è simbolo Basra, la città da più di 2 milioni di abitanti posta poco a valle della confluenza tra Tigri ed Eufrate. Quello che fu il porto di Sindbad il marinaio è oggi un inferno dove le temperature nei mesi estivi toccano i 50 gradi (il record è 53,9 nel 2016). In questa situazione poter disporre di acqua potabile è vitale, ma – afferma un esperto iracheno d’inquinamento idrico – «a Basra non ci sono più fiumi: ci sono delle fosse biologiche in movimento»[4]. Il governo attribuisce la colpa della crisi al vicino Iran che, colpito dalla siccità, ha bloccato gli affluenti del Tigri: ne aspira l’acqua e nel letto tristemente vuoto scarica liquami, che dall’altopiano iranico calano così sull’antica Mesopotamia. Tuttavia, secondo Harling, le responsabilità più grandi sono locali. «Su base giornaliera l’iracheno medio consuma 392 litri d’acqua solo per usi domestici – quasi il doppio della media internazionale di 200, secondo un funzionario Unicef con sede a Baghdad. Questa quantità esorbitante costa ai residenti la ridicola cifra di 1,4 dollari l’anno – nell’ipotesi, poco comune, che paghino le bollette»[5]. Solo 14 dei 252 centri urbani iracheni possiedono sistemi fognari, ma in questa situazione «la classe dirigente si interessa solo alla ricerca di un capro espiatorio o al pensiero magico»[6], che si concretizza ad esempio nella proposta di trainare un iceberg dal Polo Sud.
Il fiume Eufrate nel 2006 (sopra) e nel 2009 (sotto) [© NASA]
Nell’estate del 2018 a Basra è esplosa un’epidemia di colera che ha portato più di 100.000 persone in ospedale. Contemporaneamente l’Iran ha tagliato le proprie forniture di energia elettrica, per ragioni economiche e come forma di pressione politica. Così si è arrivati al paradosso di 2 milioni di persone sedute su uno dei maggiori giacimenti di petrolio mondiali, in preda a un’epidemia di colera, senz’acqua, senza elettricità e dunque senza aria condizionata, con una temperatura esterna di 50 gradi. Quello che sorprende non è che sia esplosa una rivolta, ma che sia stato possibile domarla. Pensando a casi limite come questo, si capisce forse meglio quanto ho affermato all’esordio: per l’abitante comune di Basra categorie come nuova costituzione irachena, riforma del discorso religioso, wilāyat al-faqīh etc. diventano irrilevanti. In realtà non lo sono, perché la possibilità di porre rimedio al disastro dipende anche dalla capacità di invertire politiche sbagliate e contrastare la corruzione dilagante. Ma è difficile mantenere la lucidità necessaria per rendersene conto.
Non tutti gli Stati mediorientali sperimentano crisi della portata di quella che ha investito l’Iraq o lo Yemen, lanciato, già prima della guerra, al poco desiderabile primato di prima nazione al mondo a restare senz’acqua. Ma anche dove le cose vanno meglio, come in Marocco, gran parte delle risorse sono utilizzate per l’agricoltura industriale, orientata all’esportazione, come hanno mostrato le recenti proteste esplose a Zagora[7]; e non necessariamente le nuove maxi-centrali solari risolvono tutti i problemi ambientali[8].
2. Una nuova forma di civiltà islamica
La portata di questi cambiamenti ambientali è enorme. In molte parti del Medio Oriente lo sperpero delle risorse naturali, la pressione antropica, il riscaldamento globale già avvenuto, senza quindi contare quello futuro, hanno decretato la morte della forma classica della civiltà islamica, fondata sull’alternanza dialettica tra deserto, città e aree coltivate: climaticamente, socialmente, persino architettonicamente.
In sé un cambiamento di forma non è necessariamente negativo, anzi. Dopotutto, se una civiltà è viva, cambia continuamente aspetto, come un organismo che si rinnova. Lo dimostrano in modo speciale le città italiane, con il loro intreccio di stili diversi. Se però la nuova forma è il grattacielo mangia-energia stile Golfo, avvolta da una bolla di area condizionata da cui nei mesi estivi escono solo “gli schiavi” (per citare l’attacco di un vecchio reportage di Oasis)[9], allora qualche domanda è bene farsela. È sostenibile questo modello?
L'Abraj al-Bayt e la Kaaba [© Fadi el Benni - Wikimedia Commons]
Benché l’idea stenti a farsi strada negli studi, sovente ripetitivi, sull’impatto della modernità sul mondo islamico, gli effetti del cambiamento di forma si fanno sentire distintamente anche a livello religioso[10]. Basta pensare alla portata simbolica di una Mecca Tower (propriamente Abraj al-Bayt), il gigantesco grattacielo a due passi dal luogo più sacro dell’Islam, quarto edificio al mondo in altezza, in parte albergo a cinque stelle e in parte centro commerciale, due eliporti e 96 ascensori, di fronte a cui la vicina Kaaba letteralmente scompare. Non serve essere Jacques Le Goff per capire che l’orologio che ne adorna le facciate – il più grande del mondo – è almeno equamente diviso tra tempo di Dio e tempo del mercante.
Se così vanno le cose nel Medio Oriente benestante, beneficiato dal petrolio e dal gas e – almeno nel Golfo – amministrato con lungimiranza, a maggior ragione è giusto chiedersi che cosa significhi nascere ed essere socializzati in una baraccopoli dove l’acqua arriva una volta al mese. Che differenza c’è tra leggere il Corano in una comunità rurale, in una megalopoli o in una Sahara-town? Che sentimento di sé può generare l’esperienza di avere i parassiti in pancia e il cellulare in tasca? Non si tratta di tornare evidentemente alla vecchia dialettica marxista struttura-sovrastruttura e al suo cupo determinismo, ma di prendere sul serio la polarità antropologica corpo-anima.
3. Il riscaldamento globale
Questo è, per sommarie pennellate, il presente della crisi ecologica in Medio Oriente. Facciamo ora l’esercizio di aggiungervi un modesto riscaldamento globale di 1 grado. È pochissimo rispetto ai modelli in circolazione e la maggior parte dei climatologi considererebbe una previsione di questa portata al limite del negazionismo. Ma che cosa vuol dire un grado in più?
Tra il 5 e il 15 aprile 1815 il vulcano di Tambora nell’attuale Indonesia fu scosso da una violentissima eruzione, passando da più di 4000 metri di altezza agli attuali 2850. Il catastrofico evento, stimato di livello 7 nella scala VEI (Volcanic Explosivity Index), giusto un gradino sotto il massimo, produsse un abbassamento della temperatura mondiale stimato tra 0,5 e 1 grado centigrado, a causa delle ceneri disperse nell’atmosfera. Tra gli effetti più divertenti dell’eruzione vi fu la nascita del personaggio di Frankenstein: le continue nevicate – il 1816 fu chiamato “l’anno senza estate” – costrinsero Mary Shelley a restarsene rintanata nella casa che aveva preso in affitto con alcuni amici sulle Alpi svizzere. Si sostiene che anche l’invenzione del velocipede, antenato della bicicletta, fu stimolata dall’assenza di animali da tiro a causa della scarsità del foraggio. Tra gli effetti meno piacevoli vi fu la morte di circa 200.000 persone in Europa, un’epidemia di colera in tutta l’Asia, e una migrazione epocale dalla New England, che diede inizio all’occupazione massiccia dei territori del Midwest.
Sconvolgimenti di questo tipo hanno lasciato tracce profonde anche nella storia umana più antica. Nicola di Cosmo, all’Institute for Advanced Study, si dedica ad esempio allo studio degli effetti delle oscillazioni climatiche sui nomadi delle steppe asiatiche, in una prospettiva integrata[11]. I loro spostamenti, ad esempio, provocarono nel III secolo la quasi contemporanea crisi dell’impero romano e il crollo della dinastia cinese Han. Lungo la stessa linea di ricerca, gli storici del clima, sulla base di rilevamenti dendrometrici e archeologici, parlano ormai correntemente di una Late Antique Little Ice Age[12] situata tra il 536 e il 660: di probabile origine vulcanica e accompagnata dalla famosa peste giustinianea, essa assestò un durissimo colpo all’impero bizantino[13]. Secondo una suggestiva ipotesi di Andrey Korotayev[14], tra gli effetti del raffreddamento climatico in età tardo-antica e del conseguente inaridimento, ci sarebbe anche il crollo delle chiefdoms semi-centralizzate in Arabia e l’emergere di quella struttura tribale “leggera” che fa da sfondo alla predicazione di Muhammad. Tra l’altro l’improvviso inaridimento potrebbe spiegare la persistenza nel Corano di numerosi riferimenti agricoli, ad esempio nel brano 16,5-15, che mal si accordano con l’attuale condizione dell’Arabia centrale[15]. Ovviamente in questo tipo di studi c’è sempre dietro l’angolo il rischio del determinismo: faceva più freddo ed è nato l’Islam; oppure faceva più caldo – perché pare che le cose stessero così – ed è nato il Cristianesimo. Al netto di queste esagerazioni, però, gli elementi di contesto ambientale sono una componente importante, per quanto difficile da misurare, nella comprensione dell’evoluzione delle civiltà.
Lasciando all’indagine degli storici il caso dell’impero romano o della dinastia Han, le cui tecnologie non sono certo comparabili alle nostre, o l’impatto sull’Europa dell’optimum climaticum medievale, riflettiamo un istante sugli eventi di inizio Ottocento. Se un momentaneo grado di differenza nel 1815, quindi già in piena rivoluzione industriale, fu sufficiente a innescare una vera a propria «crisi di sussistenza nel mondo occidentale»[16], che effetti avrebbe un cambiamento analogo – e stiamo già facendo una previsione molto benevola – su regioni già provate come Medio Oriente e Sahel?
4. L’impatto sull’Europa
Contrariamente a quello che si pensa, l’uomo in genere non ama spostarsi e tende a rimanere nel posto in cui è nato anche quando le circostanze suggerirebbero di andarsene. Non si spiegherebbe altrimenti la persistenza di metropoli in località, come il sito attuale di Damasco o di Sanaa, che non ne giustificano più l’esistenza. Eppure, a tutto c’è un limite: oltre un certo livello diventa questione di vita e di morte e la migrazione è inevitabile.
Gli effetti sull’Europa di questi spostamenti, già in corso, saranno amplificati dallo squilibrio demografico tra l’esplosione della popolazione in Medio Oriente e Africa e l’inverno delle nascite che caratterizza il nostro continente, e l’Italia in modo particolare. Un semplice dato aneddotico per comprendere: quando ci sono stato per la prima volta, nel 2001, l’Egitto aveva 60 milioni di abitanti, come l’Italia. Oggi l’Italia ne ha ancora 60, l’Egitto 100: una crescita impetuosa che ha vanificato ogni progresso economico. Ma se la popolazione aumenta, l’acqua del Nilo è sempre la stessa, anzi meno perché nel frattempo anche l’Etiopia, dove nasce il Nilo azzurro, ha raggiunto i 100 milioni di abitanti. Il risultato netto è che al Cairo, in media, si vive peggio. Finora la differenza di potenziale non è stata tale da innescare uno spostamento di massa, ma che cosa accadrebbe se anche solo 5 milioni di egiziani decidessero di andarsene dal loro Paese? Quello delle migrazioni, in queste proporzioni, è un problema e non può essere risolto negandolo. Molto semplicemente, una società fatta in larghissima maggioranza di anziani non ha gli strumenti, prima di tutto psicologici, per farvi fronte.
5. Scenari futuri
Il modello capitalistico che si è imposto a livello mondiale sembra necessitare di una frontiera in ritirata permanente. Coerentemente qualcuno inizia oggi a sognare viaggi spaziali che permettano di colonizzare un nuovo pianeta, in genere Marte. In questo caso non ci sarebbe bisogno di modificare nulla: semplicemente l’uomo dovrebbe abituarsi all’idea di un “salto di pianeta” ogni volta che le risorse inizino a scarseggiare. Poiché però lo scenario è altamente improbabile per non dire fantascientifico, la crisi ecologica costringerà a mettere mano al sistema economico vigente. Questa è, in un certo senso, la buona notizia.
Sotto il fiume Zayande completamente prosciugato
Nel farlo, il rischio è quello di cedere a pulsioni anti-moderne che non sarebbero di alcun aiuto per risolvere il problema. Detto molto semplicemente, con l’attuale livello di popolazione mondiale, un ritorno al mondo di “prima delle macchine” non avrebbe l’effetto utopico di restituirci all’ambiente incontaminato, ma di condannarci alla morte per fame. È chiaro che una buona parte del problema ruota intorno alla capacità di produrre energia non-inquinante[17]. E su questo punto la confusione regna sovrana. Ad esempio, il nuovo mantra delle auto elettriche non comporta alcun beneficio di fondo se l’elettricità viene prodotta bruciando carbone. Sposta solo il problema peggiorandolo. Piuttosto che sulle attuali rinnovabili, che difficilmente potranno coprire tutto il fabbisogno energetico, la scommessa di lungo periodo sembra riguardare la fusione nucleare. Una rivoluzione in questo campo renderebbe di colpo obsolete le attuali forme di energia. Per un Paese come l’Italia, povero di materie prime e quindi senza nulla da perdere, questa dovrebbe essere la priorità assoluta[18] su cui concentrare la ricerca[19].
Tuttavia lo scenario ottimista dell’energia pulita non è l’unico. Ne esiste anche un altro: il passo delle innovazioni tecnologiche non permette un accesso immediato a nuove forme di energia. Il sistema economico si modifica troppo lentamente, per l’incapacità dei singoli e degli Stati di anteporre il bene universale al proprio vantaggio immediato e per l’ostacolo, anche psicologico e cognitivo, a pensare problemi complessi come il cambiamento climatico e a modificare di conseguenza le proprie abitudini di vita, soprattutto mentre esse sembrano ancora sostenibili. La crescita demografica continua anche oltre le risorse disponibili, le emissioni, nonostante mille proclami, si muovono secondo lo scenario peggiore, come per ora sta accadendo[20], e il cambiamento climatico accelera fino a produrre un’apocalisse ecologica.
Tra i due scenari ci sono infinite variazioni ed è vero che nella storia l’uomo è stato molte volte capace di trovare soluzioni inattese a problemi che apparivano insolubili. Per tornare all’anno senza estate, tra i bambini che soffrirono della carestia in Europa ci fu anche un certo Justus von Liebig, che forse proprio da questa esperienza fu indotto a dedicarsi alla chimica, gettando le basi per i moderni fertilizzanti, senza i quali sarebbe impossibile produrre cibo sufficiente a sfamare la popolazione mondiale. In altre parole, nessuno è veramente in grado di dire quale cammino imboccherà la civiltà umana, per quanto una misura prudenziale suggerisca di prendere molto sul serio l’avvertimento che viene dalla realtà. In ogni caso, anche in uno scenario di riscaldamento mitigato, il logoramento delle risorse in atto in Medio Oriente o nel Sahel rende pressoché certo un futuro di tensioni crescenti. I flussi migratori si intensificheranno, la caccia alle materie prime si farà spietata, le forme della civiltà e della socializzazione si modificheranno. In questo contesto sarà quanto mai necessario agire per stemperare le tensioni, mantenere la lucidità, prendere le misure più adeguate, difendere lo Stato di diritto da una logica emergenziale e securitaria. Un’amicizia civica islamo-cristiana – e con ciò passo alla seconda parte – sarà essenziale, per criticare il modello esistente e le sue premesse, per attutirne gli effetti, per soccorrere le vittime, soprattutto per pensare un’alternativa.
PARTE II: L’ECOLOGIA COME CANTIERE ISLAMO-CRISTIANO
1. Assumere criticamente il pensiero ambientalista
Nella crisi ecologica, comunque, c’è in gioco di più che la ristrutturazione dei rapporti di produzione e consumo o dei modelli di sviluppo tecnologico. Al fondo la questione è antropologica, poiché «non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia» (Laudato Si’, n. 118). Il nesso è strettissimo.
Una controprova è offerta – mi pare – dalla singolare inflessione che si è introdotta nella cultura europea dominante per effetto della crisi ecologica e delle migrazioni. Dal nichilismo gaio teorizzato da Augusto Del Noce, che la caduta del Muro di Berlino sembrava aver consacrato per sempre, si è insensibilmente passati a un nichilismo rabbioso e disperato in cui si cerca di aggrapparsi con tutte le forze alla propria parte di benessere, nella consapevolezza che non è per tutti e non durerà per sempre. Pur con notevoli eccezioni, l’atmosfera che si respira è da fin de siècle o, se si preferisce la Bibbia, da ultimi giorni di Samaria[21]. Vogliamo chiamarlo populismo? Solo se non diventa una scusa per non studiarlo, per evitare di capire da dove nasce. E nasce da lontano. Da molto più lontano del Papeete.
Andando al fondo, esso ha il suo fondamento nell’assunto della totale disponibilità del reale al potere modellante dell’uomo[22]. Se si volesse essere conseguenti, dalla crisi ecologica si dovrebbe trarre la conclusione che l’idea di infinita sperimentazione del reale da parte del soggetto umano è semplicemente errata. Esistono dei limiti, dei beni non disponibili. Lo slogan “non abbiamo un pianeta B” significa in fondo questo. In questo senso mi sembrano da recuperare le critiche al mito del progresso autoregolantesi formulate da Romano Guardini nella Fine dell’epoca moderna: poiché l’uomo non ha ancora «potere sul proprio potere» – scrive Guardini in questo testo per molti versi profetico – «da ora in avanti e per sempre […] vivrà ai margini di un pericolo che minaccia tutta la sua esistenza e continuamente cresce»[23].
Ora, sarebbe certo seriamente auspicabile che il concetto di beni non disponibili fosse ampliato oltre la sola categoria ambientale per ricomprendere anche le tematiche dell’inizio e fine vita o della manipolazione genetica, anche in una prospettiva di critica alla commodification. Tuttavia si può dubitare che molti, nei movimenti ambientalisti, siano disposti a compiere questo passo, se non altro perché implicherebbe di riconoscere che il pensiero progressista, nella versione liberal, condivide con gli aborriti populisti molto più di quanto sia disposto ad ammettere. In realtà, l’antropologia a cui i due movimenti si ispirano presenta più di una somiglianza, per quanto essa da un lato venga declinata come chiusura in un club all exclusive (nel senso che tutti i non-membri restano fuori), mentre dall’altro si apra a una celebrazione delle infinite diversità possibili[24].
Ritiro del Mar Morto nel 1972, 1989 e 2011[© NASA]
Rispetto a un radicale ripensamento antropologico di questo genere è più probabile attendersi un utilizzo della tematica ambientale per ridare vigore a un universalismo astratto, capace di accomunare soggetti altrimenti chiusi in circoli autoreferenziali[25]. Ma anche questa seconda ipotesi, di cui si scorgono forse già i prodromi nei movimenti degli ultimi mesi, rappresenta comunque una salutare iniezione di realismo rispetto alla «dittatura del desiderio» stigmatizzata da Benedetto XVI. “Puoi scegliere chi vuoi essere, ma a patto di non emettere troppa anidride carbonica” è un messaggio contraddittorio, ma comunque migliore rispetto a “non c’è limite alla sperimentazione” – la sperimentazione che credi di esercitare e quella che in realtà il potere compie su di te e in te.
Sarebbe ingenuo nascondersi i lati oscuri del movimento ecologista: il panteismo di “madre natura” che purtroppo ha trovato più di una sponda anche negli ambienti ecclesiali, gli slogan anti-umanistici come “l’uomo peggiore parassita del pianeta”, il “più conosco gli uomini, più amo gli animali”, insomma la necessità di auto-eliminarsi educatamente dalla storia. La decrescita felice non è poi tanto felice e le società abitate da soli vecchi e vecchi soli, come l’Italia si avvia a diventare a passo spedito, non sono migliori di quelle travagliate da un eccesso di nascite. Il fatto però che una parte del discorso ambientalista non sia condivisibile e che esistano, come in tutte le realtà umane, agende oscure e interessi non dichiarati non è una ragione sufficiente per liquidare il problema ecologico come inesistente. Anche perché esistono altrettante agende oscure e interessi non dichiarati che premono per uno scenario business as usual.
2. Il punto di origine e quello di arrivo
Nell’impegnativo compito di un’assunzione critica del pensiero ambientalista la riflessione cristiana può ottenere un significativo aiuto – ed è questa l’ultima tesi che vorrei sviluppare – nell’interazione dialogica con il mondo musulmano. Non si tratta soltanto di condividere un impegno sociale a livello delle implicazioni della fede[26], a partire dal fatto, molto concreto, che cristiani e musulmani costituiscono oggi, nel loro complesso, più di metà della popolazione mondiale. Rispetto all’amicizia civica evocata più sopra, è possibile spingere la riflessione anche sul piano propriamente teologico. Due categorie mi sembrano in questo particolarmente feconde: creazione ed escatologia.
Le due più grandi comunità religiose mondiali, condividono infatti, insieme agli ebrei, la visione del principio e della fine, del maʾāl e del maʿād[27]: in principio, la creazione. Alla fine, il giudizio e l’escatologia. In mezzo, lì sta la differenza, come ben sappiamo.
Nel conteso della crisi ecologica, la categoria di creazione dovrà probabilmente essere oggetto di una nuova riflessione islamo-cristiana, condotta idealmente in dialogo con le sorprendenti scoperte della fisica contemporanea, pur nel rispetto dei diversi metodi e campi[28]. A questo proposito, è interessante recuperare quanto affermato da San Giovanni Paolo II, che pure non era certo tenero verso le punte estreme del pensiero ecologista, nella Centesimus annus (n. 37):
L’uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l'uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui.
La teologia musulmana, su questo punto, non dice nulla di diverso[29].
Più precisamente, la categoria di creazione si rivela fondamentale per evitare il rovesciamento dell’ecologismo in un movimento anti-umanista. Allo stesso tempo, la grande cura che l’Islam, nelle sue versioni ortodosse, pone a mantenere intatta la distanza tra Dio e mondo è un grande richiamo per il pensiero cristiano: in nessun momento la difesa del creato dovrebbe assumere la forma di un immanentismo panteista. L’intransigente monoteismo dell’Islam, che per me come cristiano trova il suo fondamento più sicuro nel dogma trinitario (per quanto sconvolgente ciò possa apparire!), non può essere su questo punto aggirato, pena il porsi al di fuori dell’universo biblico.
Altrettanto importante appare l’escatologia. Oggi essa è quasi scomparsa dalla riflessione cristiana, liquidata con la comoda scorciatoia dei “generi letterari” che, nella versione da omelia domenicale, si riassume nella tesi per cui Gesù, volendo insegnare una cosa, sarebbe rimasto prigioniero delle forme letterarie del suo tempo, finendo per dire l’esatto opposto. In altre parole, il Rabbi di Galilea sarebbe stato tanto anticonformista nel suo comportamento quanto incapace di innovare a livello di parole e immagini. Poco credibile.
Quando l’escatologia esce di scena, il suo posto non resta vuoto, ma viene riempito da una sua versione degradata, il millenarismo, nella versione criminale ed esaltata alla ISIS o in un nichilismo declinista. Il suo tratto distintivo è l’angoscia. In questo contesto la fede in un Dio personale, al tempo stesso giusto e misericordioso, dà a cristiani e musulmani, come pure all’Israele di Dio che per primo l’ha espressa, quella sicurezza esistenziale di cui c’è assoluto bisogno per affrontare in modo non isterico e non negazionista la crisi ecologica. Grazie a Dio, l’ultima parola non sarà la nostra. Il bēt con cui si apre il libro della Genesi nella Bibbia ebraica è anche la dimora (bēt appunto) «di Dio con gli uomini» (Ap 21,3) alla fine dei tempi, «un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più» (Ap 21,1). Senza questa prospettiva, che legge le tribolazioni della creazione – fatti reali, non metafore letterarie – come «le doglie del parto» (Rm 8,19), è grande e quasi inevitabile il rischio di abbandonarsi a un pessimismo apocalittico, che paralizzerebbe le capacità di agire dell’uomo[30].
Il Cristianesimo, con la sua fede indeducibile nell’uomo-Dio, si colloca per così dire a metà tra un antropocentrismo immanente e un teismo tentato dal monismo e qualcuno ha voluto indicare nella formula dell’et et il genio del Cattolicesimo. Troppo spesso nell’età moderna essa è stata declinata piuttosto come un versus – versus in cui la via stretta del Vangelo è stato definita unicamente per contrasto. La crisi ecologica potrebbe essere l’occasione di un cambio di paradigma, in cui sia possibile vagliare quanto vi è di buono nell’istanza ambientalista, senza per questo rinunciare a un deciso orientamento trascendente. Et et. Potremmo ritrovarci con compagni di strada inaspettati.
Normalmente viviamo con i piedi per terra e gli occhi verso il cielo. Ambedue le cose ci sono date dal Signore e quindi amare le cose umane, amare le bellezze della sua terra non solo è molto umano, ma è anche molto cristiano e proprio cattolico. Direi che […] ad una pastorale buona e realmente cattolica appartiene anche questo aspetto: vivere nell’et et; vivere l’umanità e l’umanesimo dell’uomo, tutti i doni che il Signore ci ha dato e che abbiamo sviluppato e, nello stesso tempo, non dimenticare Dio, perché alla fine la luce grande viene da Dio e soltanto da Lui viene poi la luce che dà gioia a tutti questi aspetti delle cose che ci sono. Quindi vorrei semplicemente impegnarmi per la grande sintesi cattolica, per questo et et; essere veramente uomo ed ognuno secondo i suoi doni e secondo il suo carisma amare la terra e le belle cose che il Signore ci ha dato, ma essere anche grati perché sulla terra splende la luce di Dio, che dà splendore e bellezza a tutto il resto. Viviamo in questo senso gioiosamente la cattolicità[31].
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[1] Alister Doyle, Evidence for man-made global warming hits 'gold standard': scientists, «Reuters», February 25, 2019.
[2] Citato da Ibn Baṭṭūṭa, I viaggi, a cura di Claudia Maria Tresso, Einaudi, Torino 2006, 96.
[3] Peter Harling, Nature’s Insurgency. Water wanted in the land of plenty, 2019.
[4] Nature’s Insurgency, 10.
[5] Ibi, 9.
[6] Ibi, 11.
[7] Alexander Jusdanis, The Making of a Water Crisis, «Dissent», August 1, 2018.
[8] Hamza Hamouchene, The Ouarzazate Solar Plant in Morocco: Triumphal ‘Green’ Capitalism and the Privatization of Nature, «Jadaliyya» 23 marzo 2016.
[9] Riccardo Piol, L’esercito di immigrati che va a messa e innalza grattacieli, «Oasis» 11 (2010), 81-85.
[10] In ambito islamico Sayyed Hossein Nasr è uno dei pensatori che si è più interrogato sul senso di questo mutamento. Cfr. ad esempio The Contemporary Islamic World and the Environmental Crisis, «Sophia» 13 (2007-2008), 13-35.
[11] Nicola Di Cosmo, The Scientist as Antiquarian: History, Climate and the New Past, «The Institute Letter» Spring 2018, https://www.ias.edu/ideas/di-cosmo-new-past.
[12] Cooling and societal change during the Late Antique Little Age from 536 to around 660 AD «Nature geoscience» 2016, 1-7.
[13] Kyle Harper, The Fate of Rome. Climate, Disease and the End of an Empire, Princeton University Press, Princeton 2018.
[14] Andrey Korotayev, Vladimir Klimenko, Dimitry Proussakov, Origins of Islam: Political-Anthropological and Environmental Context, «Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hung.» 52 (1999), 243-276.
[15] Questa ipotesi, che avanzo senza poterla per il momento indagare a fondo, potrebbe rispondere all’obiezione sollevata da Patricia Crone in Meccan Trade and the Rise of Islam, Princeton University Press, Princeton 1987. Cfr. anche How Did the Quranic Pagans Make a Living?, «BSOAS» 68 (2005), pp. 387-399.
[16] John Post, The last great subsistence crisis in the Western World, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1977.
[17] L’altra grande questione è quella del cibo, a fronte di una popolazione mondiale che raggiungerà entro il 2050 i 9 miliardi.
[18] Qualcosa a quanto pare si fa, come riporta Ansa.
[19] Tra l’altro, la fusione nucleare darebbe un nuovo slancio alla fisica sperimentale, permettendo di recuperare lo iato che si è creato rispetto alla fisica teorica (per dire: il bosone di Higgs è stato teorizzato nel 1964 ma rilevato solo nel 2012, cioè quasi 50 anni dopo, per la difficoltà a raggiungere i livelli di energia richiesti).
[20] Si veda Australian Academy of Science, The Science of Climate Change. Questions and Answers, February 2015, p. 13.
[21] «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! […] Essi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli anelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, si pareggiano a David negli strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei buontemponi» (Amos 6,1.-4-7).
[22] È l’intuizione di Benedetto XVI nel suo discorso al Parlamento tedesco del 22 settembre 2011.
[23] Romano Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 1954, p. 88. Notevole nel saggio di Guardini è la priorità accordata al filone nietzschiano come elemento distintivo di quella che sarebbe stata chiamata la post-modernità (ma il vocabolo allora non c’era ancora). Il filone cultural-relativista, con le sue tesi sulla fine delle grandi narrazioni e la società liquida, ne rappresenta solo una tra le declinazioni possibili. Viceversa, quello che in Guardini appare irrimediabilmente superato è il rimpianto verso l’epoca pre-moderna e medievale, per quanto comprensibile alla luce dei drammatici avvenimenti della prima metà del Novecento.
[24] Lo ha visto molto bene Olivier Roy, mettendo in guardia sul fatto che i movimenti populisti restano all’interno della cornice del Sessantotto. « I populisti sono figli del ’68, che vogliono ancora godersi la vita, ma solo tra di loro. La destra conservatrice in Europa occidentale non è più cristiana da almeno trent’anni (Berlusconi, Sarkozy, Cameron...)» (Olivier Roy, L’impasse del voto cattolico, oasiscenter.eu, luglio 2019). Ciò non significa peraltro che non sia possibile, anche per i movimenti populisti, un’assunzione critica di alcune loro istanze; non sul piano ecologico, dove prevale un negazionismo sterile, ma piuttosto su quello della critica alla globalizzazione neoliberista.
[25] Sulla dialettica tra universalismo e particolarismo si veda Francesco Botturi, Universale, plurale, comune. Percorsi di filosofia sociale, Vita e Pensiero, Milano 2018 e Idem, Le condizioni della convivenza multi-culturale, «Oasis» 28 (2018), 96-107.
[26] Cfr. Angelo Scola, Buone ragioni per la vita in comune, Mondadori, Milano 2010.
[27] Cfr. Khaled al-Jaber, L’uomo macchia la purezza delle religioni, «Oasis» 8 (2008), pp. 43-47.
[28] Per una equilibrata valutazione della dichiarazione islamica sul cambiamento climatico sottoscritta a Istanbul nell’agosto 2015, si veda Damian Howard, Una dichiarazione islamica sul cambiamento climatico, «La civiltà cattolica», iv2015 (n. 3967), p. 44.
[29] È tutta la tematica dell’uomo “califfo” di Dio, sviluppata a partire da Cor. 2,30, e del “soggiogamento” della natura all’uomo (Cor. 43,13).
[30] Le pur acute osservazioni di Jonathan Franzen (What if we stopped pretending, «New Yorker», 8 settembre 2019) non riescono a eliminare la sensazione di una resa sconsolata all’inevitabile.
[31] Incontro del Santo Padre Benedetto XVI con il clero di Belluno-Feltre e Treviso ad Auronzo di Cadore, 24 luglio 2007.