In Qatar la crisi dovuta alla pandemia si incrocia con quella che si consuma da tre anni all’interno del GCC. La strategia dell’emergenza ha permesso di mobilitare il consenso interno
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:42
L’emirato del Qatar, primo stato al mondo per esportazione di gas naturale[1] e per reddito pro-capite, sperimenta una crisi dopo l’altra. Dal 2017, è in corso il boicottaggio da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrein ed Egitto. Ora si aggiunge la pandemia da Covid-19, che ha colpito il Qatar più delle altre monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) in proporzione alla popolazione totale: oltre 56 mila positivi su poco più di 2,5 milioni di abitanti (seppur con meno di trenta morti). Dal 2016, la forte discesa dei prezzi di petrolio e gas, ora accelerata dal coronavirus, mette poi sotto pressione le entrate finanziarie dell’intero Golfo.[2]
Il governo qatarino e l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani sono fin qui riusciti a tramutare queste crisi in opportunità di trasformazione e coesione interna. Infatti, autosufficienza economica e costruzione del senso di identità nazionale sono gli obiettivi, in parte raggiunti, che l’emirato si è dato nella gestione delle crisi che lo hanno, direttamente o indirettamente, colpito: una vera e propria strategia dell’emergenza. Con alcune incognite, però, all’orizzonte.
In questi giorni, la crisi del CCG entra nel quarto anno. Il 5 giugno 2017, Riyadh, Abu Dhabi, Manama e Cairo interruppero le relazioni diplomatiche e commerciali con Doha accusandola di “terrorismo” e di “ingerenza negli affari interni”, fecero rientrare i loro cittadini, avviarono l’embargo (cambiando anche le rotte aeree civili) e l’Arabia Saudita chiuse l’unico confine di terra del piccolo emirato.[3] Il “Quartetto” stilò una lista di tredici richieste, soprattutto di politica estera, cui il Qatar avrebbe dovuto ottemperare per ripristinare le relazioni bilaterali. Da subito, la rivendicata autonomia della politica mediorientale di Doha, disallineata rispetto a Riyadh e Abu Dhabi, apparve il cuore della disputa.
Se vi sarà una normalizzazione nei rapporti diplomatici tra qatarini, sauditi ed emiratini, essa darà vita (come in parte è già) a una “coesistenza fredda”, graduale e priva di plateali gesti di rappacificazione. Il primo a non cercare una ricucitura politica a tutti i costi è proprio il Qatar. L’emirato ha infatti intrapreso un percorso di costruzione nazionale che si fonda sulla differenziazione e, spesso, sulla contrapposizione alle monarchie vicine: ciò riguarda la sfera economico-sociale nonché le scelte geopolitico-culturali.
Il nazionalismo qatarino, quel “Qatar sarà sempre libero” che è un verso dell’inno nazionale e che oggi campeggia sulle magliette-gadgets vendute anche dal Museo Nazionale inaugurato nel 2019, è nato proprio nei giorni bui che seguirono l’inizio dell’embargo, da quel senso di incertezza, vulnerabilità e accerchiamento. Difficile, forse impossibile, che i giovani qatarini e gli Al Thani dimentichino, o scelgano di mettere tra parentesi, il ricordo di ciò che hanno percepito come un affronto e un’ingiustizia consumata “tra fratelli”.
Recentemente, le due crisi, ovvero quella del CCG e Covid-19, si sono incrociate. Lo scorso gennaio, i colloqui tra sauditi e qatarini, che avevano riaperto un canale di dialogo diretto, si sono interrotti; tra EAU e Qatar non vi è stato neppure un tentativo, data la rigida posizione di Abu Dhabi. Nonostante ciò, il Qatar ha partecipato alle riunioni d’emergenza del Consiglio di Cooperazione del Golfo: riunioni virtuali tra ministri per discutere dell’impatto del coronavirus nell’area, oppure per approvare la proposta del Kuwait di istituire una catena di approvvigionamento comune per cibo e medicinali. Nel febbraio 2020, l’Arabia Saudita aveva invece impedito l’ingresso del ministro della salute del Qatar per una riunione straordinaria.
Come ha scritto l’analista Andreas Krieg, la realtà dell’embargo ha preparato Doha ad affrontare meglio l’esperienza della pandemia. Tra giugno e luglio 2017, le importazioni del Qatar scesero del 40% e molti residenti si affollarono nei centri commerciali per fare provviste e acquisti in un clima di grave incertezza. Da allora, il governo ha differenziato i mercati di approvvigionamento, avviato la produzione interna anche alimentare (il Qatar è oggi il primo paese CCG per sicurezza alimentare secondo il Global Food Security Index 2019), costruito un porto (Port Hamad) e potenziato rotte commerciali alternative, specie con Turchia, Iran e Oman. Adesso, il binomio tra crisi della domanda energetica e pandemia impone ulteriori sacrifici: Qatar Petroleum taglierà la spesa del 30% e la compagnia di bandiera Qatar Airways ridurrà la forza lavoro del 20%.
Diversamente dalla lite tra “emirati fratelli”, Covid-19 mette sotto pressione la coesione interna del piccolo emirato. Le dinamiche da monitorare sono due: il bilanciamento tra libertà individuali e controllo sociale, nonché il rapporto con la comunità dei lavoratori stranieri, quegli expatriates (soprattutto asiatici) che rappresentano il 90% dei residenti. In Qatar, il lockdown ha portato con sé, più che in altri paesi, misure estremamente stringenti: chi non rispetta l’obbligo di indossare la mascherina fuori casa rischia sanzioni e carcere fino a tre anni, l’installazione dell’applicazione per smartphone di tracciamento del contagio (chiamata Ehteraz, in arabo “precauzione”), è obbligatoria e suscita malumori tra gli abitanti, che ne temono i rischi per la privacy.
Ad ammalarsi di coronavirus sono soprattutto i lavoratori stranieri a basso stipendio, che vivono in sovraffollati complessi abitativi, i primi a essere sottoposti al lockdown: qui, il rispetto delle regole d’igiene e di distanziamento sociale è pressoché impossibile. I più esposti sono gli occupati del settore delle costruzioni: gli operai del cantiere dei Mondiali di Calcio 2022 sarebbero attualmente in congedo non pagato, con solo cibo e alloggio coperti; ma alcuni cantieri legati al grande evento sono, secondo ricostruzioni di stampa, ancora al lavoro. Il 23 maggio, un centinaio di lavoratori stranieri ha manifestato pacificamente a Doha contro il mancato pagamento dello stipendio. Il governo ha subito sollecitato le imprese a intervenire, preannunciando azioni legali. Nell’agosto 2019, un gruppo di lavoratori stranieri aveva già scioperato contro condizioni di lavoro e ritardi nei pagamenti.
Tra i paesi del CCG, il Qatar è quello che dipende maggiormente dalla presenza di lavoratori immigrati. Anche per ragioni demografiche, politiche di nazionalizzazione del lavoro sono qui impossibili. Tuttavia, il mercato del lavoro (specie nel settore privato), necessita di essere ripensato: le riforme introdotte dal governo mitigano ma non eliminano l’istituto della sponsorizzazione (kafala) che lega il lavoratore straniero a basso reddito al datore di lavoro. E il connubio tra coronavirus, lockdown, licenziamenti e rimpatri è uno scenario ancora in divenire.
A tre anni dall’inizio dell’embargo contro Doha, la geopolitica regionale evidenzia quanto la rivalità fra vicini sia ormai cronicizzata e diffusa. Nel 2017, Qatar, Arabia Saudita ed EAU gareggiavano per sostenere o contenere/reprimere la Fratellanza Musulmana nel mondo arabo: una competizione nata dalle ceneri delle rivolte arabe del 2011. Alcune di quelle arene regionali (Siria, Libia, Yemen) hanno poi dato vita a conflitti civili, con le monarchie del Golfo sempre dal lato opposto della barricata geopolitica. Pur non rinunciando alle sue scelte di politica estera, il Qatar ha assunto un profilo più discreto, spesso in tandem con l’alleata Turchia e, talvolta, di sponda con l’Iran. Oggi, la competizione nel CCG si estende sempre più alle rotte marittime, energetiche e commerciali che si snodano tra Mar Mediterraneo, Mar Rosso e Corno d’Africa. In tale quadro, Libia, Cipro, Siria e Somalia (il Sudan è ormai saldamente nel campo saudita-emiratino), sono i teatri di una competizione scandita da accordi bilaterali, costruzione e gestione di porti commerciali, esplorazione di giacimenti di idrocarburi. E resa possibile da un intreccio di alleanze e contro-alleanze fra attori locali, intermediari e compagnie statali o private.
L’asse fra Qatar e Turchia è ora è il perno della discordia fra Doha e il “Quartetto”, forse ancor prima della partnership con l’Iran. La Turchia, cui i qatarini hanno appena triplicato lo swap (scambio) a sostegno della lira turca, è infatti la principale rivale degli Emirati Arabi Uniti nella regione, che sono i più accaniti fautori dell’embargo anti-Qatar. Nel CCG, Kuwait e Oman hanno invece rafforzato i rapporti con Doha: l’interscambio commerciale tra Kuwait e Qatar è cresciuto del 70% fra il 2017 e il 2018, mentre il ministro degli esteri omanita si è recato a Doha il 18 maggio scorso con un messaggio da parte del nuovo Sultano Haitham bin Tariq Al Said, che ha poi ricevuto il ministro degli esteri qatarino a Muscat (21 maggio).
Facendo di necessità virtù, la strategia dell’emergenza ha permesso al Qatar di mobilitare il consenso interno. Una minoranza in patria rappresentata dai circa 300 mila nazionali qatarini che ora espongono bandiere e adesivi per auto con il volto disegnato dell’emiro che “non si è piegato” alle richieste dei vicini (Tamim al majd, ovvero “Tamim il glorioso”), riscoprono l’architettura locale dopo anni di corsa al grattacielo più alto, servono per un anno nelle forze armate (c’è il servizio di leva obbligatorio per gli uomini dal 2013) e rispondono numerosi alla campagna di reclutamento di volontari contro Covid-19.
La stagione delle crisi multiple ha trasformato il Qatar nel funambolo delle emergenze. Mantenere l’equilibrio è un’abilità che l’emirato ha dimostrato di saper padroneggiare, ma su una corda sempre più scossa da sollecitazioni regionali e globali.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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