Crisi economica e fondamentalismi religiosi sono sintomi dell’incontro tra disperazione e rassegnazione. Se l’Europa cristiana ha insegnato a convivere a chi ora si combatte (e la combatte), la nuova Europa deve puntare al meticciato delle culture
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 11:17:03
L’Europa custodisce nel proprio inconscio, per dir così, le tracce di una vocazione mediatrice dell’umano che è comune, mediante la capacità di integrazione delle diversità dei popoli. Una vocazione che l’Occidente ha progressivamente rimosso lungo il secondo millennio. E che gli eventi inaugurali del terzo millennio impongono all’Europa di ritrovare (se non vuole chiudere da se stessa la propria storia).
Di questa vocazione mediatrice, del resto, il Cristianesimo è stato – nonostante tutte le inevitabili contraddizioni della storia – il germe ispiratore. Il Cristianesimo ha attraversato la crisi dell’Impero che cercava di distruggerlo e ha fatto fiorire in Europa il seme di un universalismo della prossimità – di Dio e degli uomini – che ha conferito un significato completamente nuovo all’umanesimo virtuale del logos greco e della cittadinanza romana[1]. Il disarmo morale dell’Europa, dopo la caduta dell’Impero romano, ha trovato la via della nuova ricomposizione europea dei popoli (dalla liquefazione dell’antica unità e dalla frammentazione delle nuove migrazioni) attraverso l’unificazione intorno al Cristianesimo. E sempre di nuovo, nelle evoluzioni e nei rivolgimenti della storia, quando la pulsione conflittuale della politica e della religione (all’interno del Cristianesimo stesso) ha raggiunto la soglia della disgregazione del legame fra i popoli, la riserva umanistica (etica e universalistica) della fede cristiana ha trovato la forza di rilanciare i termini di una possibile ricomposizione.
L’originaria vocazione dell’Europa è la cultura dell’integrazione delle differenze La sofferenza delle popolazioni è progressivamente diventata, tramite il Cristianesimo, una ragione fondante per il superamento politico dei conflitti, e una dimensione costitutiva per la legittimazione della cultura civile. Lungo questo asse è cresciuta, e si è caratterizzata, la civiltà europea.
La catastrofe dei messianismi atei e totalitari del XX secolo – anti-religiosi e anti-cristiani – ha aperto una crepa apparentemente irrimarginabile nell’idealità umanistica della nostra cultura. La ricucitura dello strappo, e il superamento della contraddizione, è stato istintivamente cercato lungo la via di una ragione umanistica virtualmente universale – che si elabora nella linea di una visione culturale pregiudizialmente agnostica e formalmente irreligiosa, e nella direzione di una integrazione civile affidata alla ragione economica e al sapere tecnico. Di fatto, la prima figura che incarna la nuova progettualità contemporanea dell’idea di Europa (comunemente vista come occidente cristiano) è la CEE[2]. Vale a dire che, già allora (anni ’50 e ’60) le motivazioni e la cornice dell’impresa riconoscono nella pressione del blocco tecnico-economico della cultura civile il punto di applicazione più favorevole per il rilancio della vocazione europea a interpretare l’ordine ideale della ragione occidentale per il resto del pianeta[3].
La nuova idealizzazione dell’Europa dei popoli continua ad attingere forza normativa dal passato (umanistico, e persino religioso) per quanto concerne la giustificazione della sua bontà e della possibilità[4]. Ma questa idealità si concepisce, fin dall’inizio della contemporaneità post-bellica, come possibilità/necessità progettuale in riferimento diretto alle istanze di sviluppo economico e scientifico (agevolazione commerciale, scambio mercantile, efficienza burocratica). Ora, a parte una certa enfasi retorica sui valori democratici e sui diritti individuali, che sino a oggi cerca di compensare la perdurante impotenza ad ancorarli a un corrispondente assetto culturale del legame sociale, non sembra che ci siamo mossi tanto più avanti. Nel frattempo, questa radicale semplificazione (diciamo così) dell’ideale democratico europeo ha mostrato le potenzialità della sua deriva verso l’esplosione dell’individualismo autoreferenziale (tendenzialmente irreligioso) e la pervasività della dissoluzione del legame sociale (culturalmente nichilistico)[5]. Il disagio mentale dei popoli europei, sotto la pressione di questo strisciante processo di decostruzione, viene ora a incontrarsi anche con effetti di impoverimento esistenziale e di abbandono etico delle popolazioni, che la cultura e la politica non appaiono in grado di elaborare propositivamente. L’impatto con l’effetto devastante di condizioni di povertà e di abbandono delle genti che, sino ad ora, erano tenute a distanza (culturalmente e fisicamente) dal limes della cittadinanza europea, si contamina con questa sofferenza interna all’humus della nostra liquidità politica. E genera una insofferenza che mette in imbarazzo la pretesa emancipazione illuministica-secolare dell’umanesimo europeo, e riapre l’orizzonte cristiano di integrazione dell’umano che è comune ai popoli: a qualsiasi etnia, civiltà, religione appartengano[6].
La cultura dell’integrazione delle differenze
Se è vero che l’originaria vocazione di Europa è la cultura dell’integrazione delle differenze, che rende creativa la coscienza religiosa della trascendenza e genera intelligenza della misura razionale della finitezza, non c’è da illudersi: la sfida attuale è realmente una questione di vita o di morte per l’Europa stessa. Non saranno i “barbari” che la faranno morire, è la sua “liquefazione” che la rende sterile. Il Cristianesimo, dal canto suo, non nasce con l’Europa e non muore con essa. E tuttavia, la sua vocazione a ispirare l’universalità dell’umanesimo dell’altro uomo, e la critica religiosa della religione che vi si oppone, si è affinata ed elaborata, esattamente qui, in termini di possibilità per la forma civile. La sfida rivolta al Cristianesimo proprio su questo punto, che apre e interroga il terzo millennio, interpella direttamente la teologia. In Europa, certamente. Ma anche (stando alla lezione della storia, che deve essere decifrata in rapporto ai segni dei tempi e in chiave di oikonomia salvifica) la diakonia che la teologia europea (occidentale e orientale)[7] ha sviluppato, con alterne vicende, per la missione cristiana nel mondo.
La necessità di una nuova riflessione – storico-salvifica e post-occidentalistica – sul Cristianesimo europeo, si era annunciata all’indomani della catastrofe europea (e fino ad ora senza troppo seguito) in un suggestivo saggio di Erich Przywara[8]. La tesi di Przywara, di straordinaria attualità e suggestivamente articolata, è imperniata sulla speciale attitudine di Europa a essere vissuta come terra di mediazione.
La piccola appendice dell’Asia, che impone per così dire un ordine della vita secondo misura, come terra di mezzo fra le terre dell’immenso e le acque della dismisura, ha sviluppato una speciale vocazione all’elaborazione di una convivenza che integra creativamente le differenze dal punto di vista dell’umano che è comune, senza ridurle all’omogeneità dell’indifferenziato. La fecondità dell’impostazione di Przywara si lascia forse cogliere ancor meglio oggi, nel momento cioè in cui una certa visione generosa e astratta del rilancio della vocazione umanistica europea (come fusione federativa e sovra-nazionale delle burocrazie), mostra la sua fragilità. Essa è felicemente restituita, nella giusta direzione, in un passaggio del discorso che papa Francesco ha tenuto in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno (6 maggio 2016):
La religione globale del denaro è il fenomeno teologico-politico centrale per la decifrazione di una nuova Europa Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radicano proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Naturalmente si è sviluppata, nel frattempo, anche una critica “profana” dell’occidentalismo tecnocratico, che tende a sovrapporsi con la denuncia dell’eurocentrismo ideologico, precisamente mettendo la pretesa egemonica dell’Occidente in carico al Cristianesimo, indicato come terreno di cultura di tutti gli assolutismi – metafisici, ideologici, etici e politici – che l’Europa ha ereditato. (Dopo un primo momento di furore decostruzionistico, negli anni ’60 e ’70, gli assolutismi generati dalla scienza sono di nuovo ignorati).
Questa critica “laica”, però, è a sua volta nell’imbarazzo di doversi immunizzare nei confronti della troppo facile constatazione del suo saldo radicamento nell’ideologia “occidentale” della ragione e della scienza (della quale il neo-liberismo si serve per non essere confuso con la critica anti-occidentale del radicalismo islamico e, in genere, dei fondamentalismi religiosi). L’individualismo neo-liberista odierno non è certo un buon principio per la critica dell’occidentalismo, dal momento che ne rappresenta – del resto apertamente – il suo profilo di coerenza (il cui sviluppo attuale è il dirottamento della tradizione illuministica dei diritti dell’uomo verso l’esaltazione individuale della volontà di potenza). Il capitalismo dell’accumulazione finanziaria globale, dal canto suo, che pure si legittima attraverso l’esaltazione dell’ideologia individualistica – “illuminismo per il popolo” – non è certo un testimonial credibile, di fronte agli effetti globali delle disuguaglianze che essa incrementa. Ripiega infatti sulla giustificazione del “darwinismo sociale” che, alla lunga, legittima il “diritto naturale” del più forte.
La paralisi della civiltà dell’umanesimo
La paralisi europea della civiltà dell’umanesimo, indotta dalla radicale secolarizzazione del legame sociale e dal delirio di onnipotenza individuale, rischia di essere ridotta all’angoscia della crisi economica e alla minaccia del fondamentalismo religioso. Questi, però, per quanto temibili, sono – entrambi – effetti del carattere distruttivo della pulsione anti-cristiana dell’ego, che combatte l’amore del prossimo e si esalta nel sacrificio dell’altro, in nome di “mammona”, o in nome di “dio”; a oriente, come a occidente.
L’Europa cristiana ha insegnato a convivere a tutti quelli che ora si combattono (e la combattono). L’irreligione e il narcisismo dell’uomo europeo non hanno più strumenti adeguati per venire a capo della conciliazione richiesta. La sfida della nuova mediazione religiosa e della nuova integrazione civile, duramente imposta dagli eventi, deve – e può – essere raccolta con nervi più saldi e maggiore umiltà ideologica. Il Cristianesimo vi dovrà applicare, senza presunzione e senza soggezione, la sua straordinaria capacità di aggirare, con spregiudicata ironia per le potenze mondane, e indomabile compassione per le loro vittime, la tenera follia della sua grazia.
Non c’è dubbio che la rassegnazione collettiva alla prevedibile “morte dell’Europa”, sia come entità di un qualche rilievo determinante per il nuovo ordine mondiale (quando sarà), sia come grembo storico di un umanesimo cristiano-civile capace di rinnovarsi, abbia oggi una rilevanza emotiva e simbolica anche superiore all’annuncio filosofico della “morte di Dio”. Sotto questo aspetto, considerando la cosa dal punto di vista del nuovo flusso migratorio verso l’Europa, è come se la disperazione di uomini e donne, bambini e giovani, che rischiano sulla fiducia di un piccolo continente di consolidato benessere e di pacifica convivenza, si trovi destinata alla collisione con la crescente rassegnazione all’impotenza del proprio umanesimo da parte dei popoli che l’hanno condiviso. Sembra evidente che da questo impatto non può venire nulla di buono. E mi sembra anche che, sino ad ora, molta retorica e molta demagogia siano spese per immaginare come possiamo resistere fisicamente alla loro disperazione di fronte alla perdita di futuro, mentre pochissimi sforzi sono dedicati a contrastare culturalmente la rassegnazione che abbiamo rispetto allo svuotamento del nostro presente.
La provocazione di Przywara evocata da papa Francesco coglie il punto. La città europea, che è stata riplasmata dalla logica dei comuni, dei quartieri, delle parrocchie – non delle megalopoli anonime, dei mercati totali, delle fusioni sovranazionali – ha individuato spazi a misura d’uomo e in tal modo ha imparato ad abitarli e governarli. L’ethos che vi è cresciuto ha rimontato cocciutamente – a dispetto delle innominabili irruzioni del tragico e dell’insidioso contagio delle sue ideologie – ogni ostacolo della differenza per la convivenza: delle lingue, delle etnie, delle religioni delle tradizioni (latine e greche, germaniche e slave, ebraiche e islamiche).
La nuova Europa dei popoli – e non quella di una super-nazione, federata o burocratizzata, degli individui – se veramente la vogliamo, deve puntare risolutamente all’alleanza dell’habitat infra-urbano e al meticciato delle culture famigliari. L’esperimento europeo dell’edificazione comunitaria della fede è nato da questa ecclesia domestica. E ne ha trasferito il modello all’umanesimo europeo della polis.
La nuova ignoranza
Questo carisma europeo-cristiano della teo-logia umanistica della religione deve essere riversato nel nuovo contesto europeo, e disincagliato dalla tediosa monocultura teologica del confronto con le superficiali derive irreligiose occidentali del pensiero e della politica. Esso deve piuttosto rimediare ai pericolosi effetti della nuova ignoranza: ignoranza del sacro, ignoranza della religione, ignoranza del Cristianesimo, ignoranza fra le religioni. Qui sta il pericolo. E proprio qui la fede deve farsi audace e creativa per la ragione stessa[9].
Paolo di Tarso ha abitato i mondi (latino e greco, ebraico e orientale) e ha insegnato ai suoi ad abitarli nella logica di agape. Una Chiesa “in uscita”, secondo l’incalzante consegna di Papa Francesco, credo, vuol dire anche questo. Mi immagino che, oggi, questa nuova dimensione debba significare l’approdo alla normalità di un corposo sbilanciamento della rete parrocchiale europea, soprattutto verso le comunità cristiane, eroiche e vulnerabili, dell’Asia e dell’Africa. Non solo per il doveroso compito di rinsaldare, nella gratitudine e nella comunione fattiva, legami senza i quali il Cristianesimo diverrebbe irriconoscibile. Ma con il vantaggio di un sostanziale congedo della comunità europea dagli eccessi della malinconia, dell’angoscia, della corruzione e dell’aggressività borghese (a cui l’inerzia stupefacente della politica europea offre, purtroppo, più di un argomento) che minacciano di attrarre anche l’ethos cristiano. E in vista di una più concreta attitudine all’ambientazione del Cristianesimo in una città cosmopolita, multi-religiosa e multi-culturale: con effetti prevedibilmente positivi per il dialogo e l’integrazione di casa nostra, come anche di testimonianza e di pressione contro gli spiriti maligni della divisione e dell’odio religioso che vengono dalle regioni più lontane.
La sfida della nuova mediazione religiosa deve – e può – essere raccolta con nervi più saldi e maggiore umiltà ideologica Nella prospettiva di questo scenario, si comprende forse ancor meglio l’altro focus dell’appassionata raccomandazione di Francesco: i poveri. Le illusioni e le false promesse delle potenze mondane (capaci di simulare religione, e persino attrarre devozione), mentre si servono dei poveri, incrementano le guerre fra loro stessi in modo da disinnescare la massa critica della loro disperata reazione. Le guerre dei potenti non portano a nulla, ma quelle dei poveri tolgono tutto.
Nel punto finale dell’esperimento europeo della modernità, il Cristianesimo scopre, con chiarezza che non era ancora apparsa all’orizzonte nella sua piena portata dottrinale, la vera ragione per cui il messaggio di Gesù è più radicale con l’ateismo di Mammona che con quello di Cesare. Se il Cristianesimo europeo non prende l’iniziativa di decostruire religiosamente la religione del denaro, la cultura globale di certo non la prenderà. «Non si può servire Dio e Mammona». (Dove Mammona non è la misura dell’economia che restituisce dignità e uguaglianza nell’accesso dei beni del lavoro e nel potere della comunità, è l’accumulazione adorante della potenza all’interno del proprio godimento, che produce l’assoggettamento sacrificale di ciò che sta fuori). La religione globale del denaro è il fenomeno teologico-politico centrale per la decifrazione della possibilità o impossibilità di una nuova Europa.
Il Cristianesimo mette la testimonianza della causa di Dio alla prova della possibilità che i poveri riconoscano l’ecclesia della fede evangelica come la casa comune dei loro affetti più sacri e più cari[10]. Il verso cristiano dell’uscita della fede dall’autoreferenzialità, che viene incontro all’esodo della migrazione degli sradicati, è questo. L’Europa, come l’arca di Noè, potrebbe rinascere essa stessa a una nuova vita, salvando creature dalle acque e coltivando, insieme con loro, nuove terre “di mezzo”.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.
Note
[1] Roger I. Moore, La prima rivoluzione europea (970-1215), Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 3-4.
[2] Moore fa notare una suggestiva correlazione: «La mappa dell’impero di Carlo Magno anticipa quella della Comunità Economica Europea, così come fu istituita nel 1957, e l’Unione europea, che oggi si è estesa ben al di là di tali frontiere, onora i suoi più illustri servitori con un premio che porta il suo nome» (Ibid., p. 5).
[3] Per queste sintetiche puntualizzazioni, a riguardo della non scontata sovrapposizione fra radici europee e mito occidentale, rimando all’ottima sintesi di: John Ottmar, L’Occidente cristiano: congedo da una visione epocale, «Concilium» (edizione italiana), 2 (1982), pp. 45-63.
[4] Ernst-Wolfgang Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia 2006; Id., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007.
[5] Pietro Barcellona, Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sul declino del progetto moderno, Dedalo, Bari 1998. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2009; William Easterly, La tirannia degli esperti. Economisti, dittatori e diritti negati ai poveri, Laterza, Roma-Bari 2015.
[6] Angelo Scola, Buone ragioni per la vita comune. Religione, politica, economia, Mondadori, Milano 2010.
[7] Il Cristianesimo mortifica la ricchezza della sua intera tradizione se non ricomincia a “respirare con i suoi due polmoni”, come ha frequentemente sottolineato il santo papa Giovanni Paolo II, riprendendo una felice metafora di Vjaceslav Ivanov (1866-1949) poeta e filosofo russo. Giovanni Paolo II, Slavorum Apostoli, 2 giugno 1985, n. 27; cfr. Orientale Lumen, 12 maggio 1995. Vedi anche: Benedetto XVI, Ecclesia in medio Oriente, 14 settembre 2012.
[8] Erich Przywara, L’idea d’Europa. La crisi di ogni politica cristiana, a cura di F. Mandreoli e G. F. Narvaja, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2013 (or. ted. 1956).
[9] Jürgen Habermas – Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di G. Bosetti, Marsilio, Padova 2005.
[10] È la prospettiva che lega, secondo il mio punto di vista, Evangelii Gaudium, Laudato Si’, Amoris laetitia, di Papa Francesco. L’elaborazione teologica di questo sfondo storico epocale della connessione mi pare, però, ancora piuttosto timida.