L’Europa ha nel suo DNA la capacità di «integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro»
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 11:14:18
«Cultura politica dell’ottimismo totale»: così il politologo Giandomenico Majone definisce il complesso di valori e idee che hanno dato forma all’Unione europea. Si è costruita la “casa comune” senza contemplare l’idea del fallimento, e dunque senza prevedere meccanismi di gestione delle crisi[1]. Si potrebbe dire che mercato unico e unione monetaria sono stati la declinazione europea dell’illusoria “fine della storia” preconizzata da Francis Fukuyama.
Puntualmente, però, la storia è tornata a incalzare, con l’implacabile sequenza di crisi finanziaria, crisi dei migranti e terrorismo jihadista. E l’ottimismo ha ceduto il passo a ben altri sentimenti. Come scrive Pierangelo Sequeri nell’articolo di apertura di questo numero:
«Considerando la cosa dal punto di vista del nuovo flusso migratorio verso l’Europa, è come se la disperazione di uomini e donne, bambini e giovani, che rischiano sulla fiducia di un piccolo continente di consolidato benessere e pacifica convivenza, si trovi destinata alla collisione con la crescente rassegnazione all’impotenza del proprio umanesimo da parte dei popoli che l’hanno condiviso».
Dunque non si tratta soltanto di ripensare l’architettura istituzionale dell’Unione, ma di «contrastare culturalmente la rassegnazione che abbiamo rispetto allo svuotamento del nostro presente». È una sfida su cui si gioca anche il futuro del Cristianesimo europeo, chiamato in particolare a «riaprire l’orizzonte di integrazione dell’umano comune ai popoli» e «decostruire religiosamente la religione del denaro», che è «il fenomeno teologico-politico centrale per la decifrazione della possibilità o impossibilità di una nuova Europa». Per contribuire a questa impresa, dobbiamo innanzitutto collocare le cose nel giusto ordine e nella giusta prospettiva, ciò che abbiamo tentato di fare nella prima anta della sezione Temi.
Qui, Omar Dahi e Helen Makkas ricordano per esempio che «con il panico che ha accompagnato il drammatico aumento di rifugiati e migranti entrati nell’Unione europea nel 2015, è facile dimenticare su chi ricada veramente il peso di questa crisi», e cioè la società siriana e i Paesi mediorientali vicini, in cui si concentra il 55 per cento della popolazione sfollata del mondo. La condizione di questa popolazione è approfondita da Kamel Doraï, che analizza la situazione dei profughi siriani tra «la precarietà delle condizioni materiali» e la «volontà di ricostruire una vita “normale” nell’esilio». Quanto incerta sia questa normalità è illustrato dal reportage di Rolla Scolari: un’indagine sui 250mila profughi siriani in Libano, di età compresa tra i 3 e i 18 anni, che rischiano di diventare una generazione “sacrificata”, con conseguenze umane e sociali dirompenti.
Alla drammatica situazione mediorientale bisogna aggiungere i Paesi del Sahel, frontiera dimenticata «da cui proviene o attraverso cui transita la quasi totalità degli immigrati che in questi anni hanno ingrossato i flussi del Mediterraneo centrale». Ne parla Emilio Manfredi in un articolo da cui traspare anche la miopia di un’Europa che, mentre condanna – giustamente – i muri costruiti lungo i suoi confini, non si fa molti scrupoli nel tentare, con esiti peraltro discutibili, di contenere l’immigrazione attraverso accordi con governi predatori. Di fronte alle proporzioni di questi fenomeni e agli stravolgimenti che ne derivano, da più parti si è invocata una sorta di “Piano Marshall per il Mediterraneo”: un’idea mossa da buone intenzioni – afferma Giulio Sapelli – ma forse prematura, visto che mancano sia i presupposti economici sia quelli geostrategici necessari a realizzarla.
Al punto a cui è arrivata, l’Europa non può non fare i conti con quella grande realtà umana che abbiamo scelto di approfondire nei Classici: l’ospitalità. La figura leggendaria del cavaliere-poeta Hātim al-Tā’ī introduce alla virtù “totalizzante” dell’ospitalità araba. Questa è ripresa in forma più moderata anche dall’Islam, in un’oscillazione tra idealità e sua razionalizzazione, che – scrive Martino Diez – ha «qualcosa da dire anche ai nostri, disincantati, giorni». Un testo di Jean Daniélou ricorda invece che la capacità di accoglienza dell’ospite non è soltanto una dimensione imprescindibile della vita cristiana, ma è uno dei criteri più sicuri per misurare il grado di sviluppo di una civiltà. Ecco perché, suggerisce Claudio Monge, l’ospitalità è oggi «un’esigenza profondamente spirituale, in società complesse e dove la coabitazione è spesso difficile».
Non basta tuttavia dire accoglienza, se questa non è anche pensata, e praticata, in un orizzonte culturale condiviso. Si dice spesso, e a ragione, che è sbagliato confondere immigrazione, Islam e terrorismo. Tuttavia – comincia da qui la seconda parte dei Temi – è innegabile che è soprattutto la presenza dell’Islam (e la deriva islamista) a suscitare le inquietudini di molti europei. E se queste sono alimentate da pregiudizi e strumentalizzazioni, occorre anche riconoscere, come fa Brigitte Maréchal, che «ci troviamo di fronte a un “incontro complesso” di civiltà». La scommessa diventa allora l’edificazione di una società in cui il rispetto del pluralismo si coniughi con un nuovo senso di appartenenza comune. Uno sguardo al contesto americano, presentato da Amir Hussein attraverso la figura di Muhammad Ali, mostra una delle forme possibili di questa appartenenza.
Certo, l’irruzione del jihadismo sul suolo europeo complica non poco i tentativi di creare nuovi assetti. Tuttavia sarebbe errato erigerlo a nostro nuovo “nemico ontologico”. Sequeri dice chiaramente che non saranno i “barbari” a far morire l’Europa, ma «è la sua “liquefazione” che la rende sterile». In questo senso il jihadismo è forse più sintomo che malattia. La malattia, come si evince dall’articolo di Farhad Khosrokhavar sui jihadisti europei, e in particolare francesi, è la mancanza di ideali capaci di sostenere la vita. Sul jihadismo riflette anche Felice Dassetto a partire dal “caso Molenbeek”, il quartiere di Bruxelles da cui sono partiti alcuni degli attentatori che hanno colpito Parigi nel novembre 2015 e la capitale belga nel marzo 2016. In una sapiente ricostruzione che tiene insieme fattori sociali, urbanistici e religiosi, Dassetto evidenzia come, pur nella sua specificità, la global city brussellese sia esemplificativa dei problemi con cui dovrà confrontarsi il Vecchio Continente. Servono infatti «nuove configurazioni e la sfida è trovare le modalità e i metodi per costruirle assieme alle popolazioni musulmane religiosamente impegnate».
Al termine della lettura, risulterà chiaro che queste nuove forme di vita buona sono ancora in larga misura da pensare. Per ora vediamo piuttosto «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (Montale). Ma come ha affermato Papa Francesco ricevendo il Premio Carlo Magno, l’Europa ha nel suo DNA la capacità di «integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro»[2]. È da qui che deve ripartire l’Europa se vuole avere ancora qualcosa da dire al resto del mondo.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.
Note
[1]Rethinking the Union of Europe Post-Crisis: Has Integration Gone Too Far?, Cambridge University Press, Cambridge 2014, p. 59. Majone è Professore emerito di Politiche pubbliche all’Istituto universitario europeo (EUI).
[2]Francesco, Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016.