Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:42
Le rivolte arabe, iniziate in Tunisia e diffusesi in tutto il mondo arabo, dal Marocco alla Siria, non sarebbero potute arrivare in un momento peggiore per la leadership saudita. Indebolita da divisioni interne, l’anziana leadership si è seriamente preoccupata per i movimenti di protesta che si sono materializzati nel Paese, non solo nella Provincia Orientale dove vive una minoranza sciita, ma anche in molte città saudite. Il regime ha risposto alle dimostrazioni in tre modi. In primo luogo con il pesante intervento delle forze di sicurezza, in secondo luogo con lo schieramento dell’establishment religioso, che ha ripetutamente condannato la disobbedienza civile come contraria all’Islam, giocando allo stesso tempo la carta del settarismo, soprattutto contro la comunità sciita. Infine, distribuendo benefit economici per comprare la fedeltà dei sauditi. Queste tensioni interne hanno determinato il modo in cui l’Arabia Saudita ha risposto alle rivolte nei paesi limitrofi e nel mondo arabo nel suo complesso. Sono state adottate tre strategie: contenimento, contro-rivoluzione e sostegno alla rivoluzione. In Tunisia ed Egitto inizialmente i media sauditi sono stati critici verso le proteste e si sono schierati piuttosto chiaramente a sostegno dei regimi. Per esempio si è affermato che Bouazizi, il giovane tunisino che si è ucciso dandosi fuoco, aveva una fede debole ed è stato incapace di sopportare le difficoltà, altrimenti avrebbe evitato di commettere il suicidio, un atto condannato nell’Islam. Nonostante le strette relazioni in materia di sicurezza, in fin dei conti la Tunisia era marginale alla politica saudita e alla fine il regime ha accettato il fatto compiuto. Tuttavia, l’Arabia Saudita non si è congratulata con i tunisini per la loro rivoluzione fino a poco tempo fa, quando il nuovo Primo Ministro tunisino, Jebali si è recato in visita a Riyadh principalmente per discutere la sorte dell’ex presidente Ben Ali, che ha trovato rifugio a Jeddah. Il caso dell’Egitto è stato invece più critico, ma ha rappresentato anche un’opportunità. Mubarak era un alleato importante contro l’Iran e la leadership saudita ha cercato di prolungare il suo potere. Anche in questo caso, però, i tentativi sauditi sono falliti ed è stato creato un governo di transizione. In seguito a libere elezioni, in Egitto come altrove gli islamisti sono arrivati al potere. Ma, per quanto possa sembrare sorprendente per uno Stato che sostiene che la Legge islamica è la sua unica Costituzione, l’Arabia Saudita è rimasta delusa da questo risultato. Infatti i Fratelli Musulmani rappresentano una vera sfida per il regime di Riyadh, perché costituiscono un’alternativa islamica al modello saudita fondata su un mix di democrazia e Islam. Finora il regime saudita ha sostenuto il Consiglio militare istituito al Cairo per contrastare l’influenza della Fratellanza. In alcune occasioni si è rimaterializzata la vecchia ambizione di guidare l’intero campo arabo sunnita, anche se si può dubitare della fattibilità di questo progetto. È in questo senso che si può affermare che la crisi egiziana è stata percepita anche come un’opportunità. La strategia di contro-rivoluzione è stata adottata principalmente in Bahrain e in parte nello Yemen. I media sauditi hanno presentato il movimento democratico bahreinita come una cospirazione sciita guidata segretamente dall’Iran: un’ipotesi difficilmente credibile dal momento che il Bahrain vanta una lunga tradizione di impegno politico e, anche se gli sciiti, come ogni comunità religiosa ha una dimensione transnazionale, la stragrande maggioranza dei bahreiniti vuole rimanere araba. La più grande preoccupazione del regime saudita era la possibile caduta della dinastia bahreinita, gli al-Khalifa, che avrebbe aperto le porte ad altri cambiamenti nei paesi del Golfo, non esclusa la stessa Arabia Saudita. Questo è il motivo per cui i Sauditi hanno optato per un intervento militare diretto in sostegno degli al-Khalifa contro i ribelli, notizia che non ha ricevuto alcuna significativa copertura mediatica in Occidente. La mossa tuttavia ha condotto a una crisi prolungata, in cui i compromessi stanno diventando sempre più difficili: una volta che un fratello maggiore sostiene un regime minore, quest’ultimo non è più responsabile davanti al suo popolo. Se contenimento e contro-rivoluzione sono state le due principali strategie adottate dall’Arabia Saudita durante i primi mesi delle rivolte arabe, può sorprendere il sostegno esplicito di Riyadh alla rivoluzione siriana, soprattutto se paragonato con la posizione assunta in Bahrain. Questa contraddizione ovviamente è stata sfruttata dal regime di Assad, il cui rappresentante all’ONU ha recentemente chiesto l’invio di una forza di pace in Bahrain e Qatif (la capitale della Provincia Orientale) piuttosto che nel proprio Paese. La dittatura ba’athista opprime i siriani da 40 anni. Tuttavia, dietro la scelta saudita di contrastarla, vi sono interessi regionali: lo scopo, infatti, sembra essere quello di sconfiggere l’Iran in Siria piuttosto che di sostenere i siriani. La Siria è anche una chiave di accesso per il Libano e per i Sauditi un successo in Siria bilancerebbe le recenti perdite di posizione avvenute sia in Iraq che in Palestina. Si deve aggiungere inoltre che, nel corso dei mesi, la questione democratica - in origine forza trainante delle manifestazioni - è stata scavalcata e oscurata dalle tensioni settarie, al punto che il conflitto siriano rischia ora di diventare una guerra regionale. Dove potrebbe sfociare questa crisi? La mia più grande preoccupazione è che il Medio si divida secondo linee settarie, con potentanti alauiti, drusi, kurdi, forse cristiani, sunniti e sciiti. Temo veramente questo scenario perché la tirannia della comunità è insopportabile. Auspico invece la nascita di uno Stato civile in Siria come nel resto del mondo arabo. * Conferenza presentata a Londra il 20 marzo 2012