Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:40
Intervista a
Nathalie Bernard-Maugiron, direttore di ricerca presso l’Institut de recherche pour le développement e co-direttore dell’Institut d’études de l’Islam et des sociétés du monde musulman (IISMM) presso l’École des Hautes études en sciences sociales (EHESS) di Parigi.
Dopo aver sciolto il parlamento per incostituzionalità, la Corte costituzionale egiziana ha respinto il decreto del Presidente Morsi che ne stabiliva la riapertura. È uno scontro istituzionale tra poteri dello Stato o uno scontro politico tra vecchio e nuovo regime?
L’Alta Corte costituzionale non ha sciolto l’Assemblea del popolo. Ha semplicemente dichiarato incostituzionali alcune disposizioni della legge elettorale per aver infranto il principio di uguaglianza tra i candidati. Effettivamente, ai candidati dei partiti politici sono stati riservati i 2/3 dei seggi sulla base dello scrutinio di lista, mentre i candidati indipendenti, non affiliati a un partito politico riconosciuto, hanno potuto concorrere solo sul terzo rimanente, attribuito a scrutinio uninominale, ma nel quale potevano presentarsi anche i candidati dei partiti politici. La sua decisione è conforme alla sua giurisprudenza precedente, dato che, a due riprese, nel 1987 e nel 1990, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali leggi elettorali precedenti che avevano a loro volta violato il principio delle pari opportunità tra candidati di partiti politici e candidati indipendenti. La Corte costituzionale non è competente per dissolvere il Parlamento, e può solo pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi. Le sue decisioni sono tuttavia vincolanti per tutte le istituzioni dello Stato. E la conseguenza logica della decisione della Corte è che l’Assemblea del Popolo, in quanto eletta sulla base di una legge incostituzionale, non è legittima e deve essere sciolta. La stessa cosa si è verificata nel 1987 e nel 1990 dopo le due decisioni simili della Corte.
Quanto alla decisione che annulla il decreto del Presidente Morsi, essa è stata presa nel quadro del potere della Corte di risolvere le controversie nate dall’esecuzione delle proprie decisioni, sulla base dell’articolo 50 del suo regolamento.
I giudici della Corte costituzionale sono stati nominati formalmente da Mubarak, ma secondo un meccanismo di cooptazione: i giudizi in carica propongono un candidato, così come il Presidente della Corte (di solito è lo stesso), e il Presidente della Repubblica sceglie uno fra i candidati proposti, se sono due, o, se è solo uno, lo nomina direttamente. Una volta nominati, i giudici sono inamovibili. I giudici della Corte costituzionale, in particolare, godono di una totale indipendenza rispetto al Ministero della Giustizia, ciò che non avviene per gli altri magistrati. Non credo sia dunque giustificato il sospetto che essi rappresentino e difendano il vecchio regime. È vero invece che il Presidente della Corte costituzionale è nominato direttamente dal Presidente della Repubblica a sua totale discrezione, ciò che permette al Capo dello Stato di porre a capo della Corte persone di sua fiducia. Per molto tempo, la tradizione in vigore in seno alla Corte è stata quella di nominare al proprio vertice il membro più anziano. Ma questa tradizione si è persa all’inizio del 2000, quando Mubarak ha cominciato a nominare Presidenti scelti da altre magistrature (per esempio la Corte di Cassazione, la Corte d’Appello del Cairo). La funzione è stata allora effettivamente politicizzata. I tribunali egiziani sono molto gerarchizzati e il Presidente della Corte gode di importanti ed effettivi poteri di organizzazione e controllo della propria giurisdizione. È inoltre vero che i magistrati egiziani sono generalmente piuttosto liberali, ma conservatori. Provengono di solito dalla media borghesia, sono spesso figli di magistrati, e superano il severo controllo esercitato all’ingresso in magistratura: viene effettuata un’indagine dei servizi di sicurezza volta ad assicurare che il candidato provenga da un ambiente sociale adeguato, da una famiglia di cui non facciano parte né islamisti, né militanti di sinistra, né criminali. Molti sono dunque piuttosto vicini, nelle loro convinzioni politiche, sociale, religiose agli uomini del vecchio regime e dell’esercito. Ma ciò non impedisce loro si essere politicamente liberali. Si è ben visto come nel 2005 alcuni giudici riformisti si siano opposti al regime di Mubarak facendo appello a una reale indipendenza del giudiziario e alla trasparenza nelle elezioni.
A suo avviso, dopo la vittoria di Morsi, i Fratelli Musulmani tenteranno di smantellare le strutture dell’antico regime riformando le istituzioni dello Stato a loro immagine o si accontenteranno di un compromesso con la vecchia leadership?
Finora, i Fratelli musulmani hanno avuto un margine di manovra molto limitato perché devono ancora venire a patti con l’esercito che ha conservato una parte importante del potere esecutivo. Inoltre, dalla dissoluzione dell’Assemblea del Popolo, il Consiglio supremo delle Forze armate esercita di nuovo il potere legislativo. Peraltro, qual è esattamente l’immagine dei Fratelli musulmani e quale Stato vogliono veramente costruire? Fino a questo momento hanno sempre accettato di porsi sul terreno della concezione moderna dello Stato, fondato sulla sovranità popolare e caratterizzato dalla separazione dei poteri. Non hanno mai fatto appello al ritorno a una concezione islamica dell’organizzazione dello Stato, sul modello per esempio del Califfato. Hanno fondato un partito politico, si sono battuti per vincere le elezioni e al momento tutti i loro sforzi puntano a controllare l’elaborazione della nuova Costituzione. Si oppongono alla dissoluzione del Parlamento in nome del rispetto della volontà popolare. Tutte queste istituzioni e tutti questi concetti sono estranei alla concezione islamica classica dello Stato. Se intendono riformare le istituzioni ereditate dall’epoca di Mubarak, sarà sempre nel quadro dei sistemi politici che si conoscono in Occidente. Dopo essere stati partigiani di un regime parlamentare, sembrano ora più favorevoli a un regime misto. Ma non si è mai trattato di istituire una teocrazia. Finora, l’Assemblea Costituente nominata nel giugno scorso e la cui sorte è sospesa a una decisione dell’Alta Corte amministrativa, ha cominciato a elaborare un progetto di Costituzione che riprende la Costituzione del 1971 modificandone alcune disposizioni, soprattutto per limitare il potere del Presidente. La sola disposizione veramente controversa adottata fino a questo momento – a parte la questione dell’articolo 2 e del ruolo della
sharî‘a – è quella che limita la libertà religiosa alle tre religioni riconosciute. Ciò significa che i Baha’i o gli indù non potranno praticare la propria religione e i propri riti in pubblico. Di fatto era così anche prima, ma non in base a un principio costituzionale. Potrebbe anche esserci un nuovo articolo che condanna la blasfemia. Resterebbe comunque da vedere se una tale disposizione sarebbe trasposta in una legge, e in quale forma, per essere effettivamente applicabile davanti ai tribunali.
Si può prevedere che la Corte costituzionale continuerà a fungere da contropotere nei confronti della Presidenza della Repubblica? Ha un profilo che le consenta di assumere questo compito?
Come ho già detto, i magistrati egiziani hanno una forte tradizione di indipendenza e di salvaguardia dello Stato di diritto. Ciò che è probabile, è che essi condividano il conservatorismo degli uomini di Mubarak e il loro timore di vedere arrivare gli islamisti al potere. Certamente non hanno alcuna voglia di ritrovarsi in uno Stato teocratico, sempre che i Fratelli musulmani vogliano veramente istituirne uno, ed è inoltre verosimile che essi non abbiano voglia di applicare leggi direttamente ispirate alla
sharî‘a, quando la maggior parte di essi hanno una conoscenza molto sommaria del diritto islamico. La giurisprudenza della Corte costituzionale relativa all’interpretazione dell’articolo 2 della Costituzione del 1971 (“I principi della
sharî‘a islamica sono la fonte principale della legislazione”) mostra d’altra parte come questa giurisdizione abbia fatto ricorso a diversi meccanismi giuridici per limitare la portata di tale disposizione, e, di conseguenza, il posto della
sharî’a nel sistema giuridico egiziano.
Ciò che invece è possibile, è che in caso di conflitto tra la Corte e la Presidenza, e nel caso in cui il Presidente sia sostenuto da una maggioranza parlamentare, la legge sulla Corte costituzionale sia emendata per limitare i suoi poteri prevedendo per esempio che le sue decisioni debbano essere ratificate dall’Assemblea del Popolo, come già previsto da un progetto di legge di un deputato salafita. O che la procedura di nomina dei membri di questa giurisdizione sia modificato per permettere un controllo reale sulle nomine o per procedere a una “infornata” di giudici islamisti, che bilancerebbe il peso dei giudici laici della Corte. Il progetto del nuovo articolo 2 della Costituzione elaborato dall’Assemblea costituente a maggioranza islamista prevede che Al-Azhar abbia l’ultima parola su ciò che riguarda l’interpretazione della sharî’a. Tale articolo, proposto dai salafiti, punta a sottrarre alla Corte il suo potere di interpretazione dell’articolo 2.
A questo proposito, come si può considerare la pressione esercitata dai salafiti per modificare l’articolo 2 della Costituzione sostituendo al riferimento ai principi della sharî’a con l’applicazione delle norme della sharî’a? È un tema che potrà essere veramente oggetto di dibattito?
L’Assemblea costituente a maggioranza islamista ha già dibattuto dell’articolo 2. I salafiti hanno effettivamente chiesto un emendamento di questo articolo affinché la “sharî’a islamica” e non “i principi della sharî’a islamica” sia la fonte principale della legislazione. Tale proposta puntava a contrastare l’interpretazione che la Corte costituzionale aveva fatto dell’articolo 2 della Costituzione del 1971, operando una distinzione in seno ai principi della sharî’a e considerando obbligatori solo quelli la cui fonte era certa e non aveva dato luogo ad alcuna divergenza di interpretazione tra i fuqahâ’ (giurisperiti). Ma i salafiti non sono stati sostenuti da alcun partito o istituzione presente nella Costituente. I Fratelli musulmani, in particolare, si sono opposti a questo emendamento stimando che non aveva ragion d’essere. Anche al-Azhar si è pronunciata a favore dello
status quo.
Come ho detto in precedenza, i salafiti sono comunque riusciti ad aggiungere nell’articolo 2 una frase che dà competenza a al-Azhar di interpretare la sharî’a, privando così la Corte costituzionale di questo potere. Resta però da vedere come potrà avvenire in pratica l’intervento di al-Azhar. Inoltre, dal momento che lo shaykh attuale di al-Azhar è piuttosto liberale e contrario alle idee dei salafiti, questi ultimi non è detto che ottengano qualcosa dal nuovo regime. Ma scommettono sul futuro e sull’arrivo al vertice di questa istituzione di una personalità più sensibile alla loro ideologia. Su iniziativa di al-Azhar, il progetto di articolo 2 prevede, infine, che i cristiani e gli ebrei potranno beneficiare delle proprie norme in ciò che riguarda il diritto di famiglia, in materia religiosa e per l’elezione dei propri dirigenti.
Qualunque sarà il contenuto del futuro articolo 2 (o di un altro articolo), non bisogna perdere di vista il fatto che il riferimento costituzionale alla
sharî‘a o all’Islam non significa che lo Stato sarà necessariamente una teocrazia né che il diritto sarà riformato per essere “islamizzato”. Tutte le Costituzioni attuali dei Paesi arabi fanno riferimento all’Islam o alla
sharî‘a, ma per la maggior parte di essi si tratta solo di un riferimento simbolico, che non viene tradotto nelle istituzioni dello Stato né nei sistemi giuridici. Applicare la sharî’a, in sé, non significa niente, perché ci sono tanti Stati quanti modi di applicarla. La Tunisia, per esempio, continua ad avere il codice di famiglia che garantisce il massimo di parità tra uomo e donna, quando Bourguiba ha sempre affermato la sua conformità alla sharî’a islamica. Fino ad oggi, i Fratelli musulmani in Egitto non hanno mai detto chiaramente ciò che essi intendono concretamente per “re-islamizzazione del diritto”. In particolare, non hanno mai affermato che avrebbero riformato il codice penale per istituire le pene “hudûd” (flagellazione, lapidazione, amputazione) per alcuni crimini.