Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:43
Il 25 gennaio 2011, un invito a manifestare da parte dell’opposizione non-islamista e dei movimenti giovanili riusciva oltre a ogni speranza, mobilitando decine di migliaia di persone in diverse grandi città. Allo stesso tempo, una rivolta infiammava la città di Suez. Le manifestazioni continuavano il 26 e il 27 con una intensità minore ma rimanendo pur sempre molto importanti. E, improvvisamente, il 28 pomeriggio questa rivolta diventava una Rivoluzione, con l’irruzione di milioni di persone la cui entrata in gioco conduceva immediatamente al crollo della polizia. Quello stesso 28 gennaio, il regime chiamava l’esercito alla riscossa mettendo il proprio destino nelle sue mani. Quest’ultimo si dissociava, rifiutandosi di sparare. La protesta riprendeva consistenza e i generali costringevano il presidente alle dimissioni. Quest’ultimo affidava la gestione del paese al
Consiglio Superiore delle Forze Armate (CSFA) – ciò che veniva accettato dalle forze rivoluzionarie, salvo poche eccezioni.
Ancora oggi è difficile misurare l’importanza di quel sisma,
né si può prevedere l’esito dei processi rivoluzionari che si sono innestati. Ecco ciò che si può affermare: a) c’è stato un sollevamento multi-classe; b) milioni di persone hanno fatto sentire, per la prima volta, la loro voce; c) il pilastro principale del regime di Mubarak, la polizia, è caduto con lui (o piuttosto il contrario); d) si può constatare una vera rivoluzione delle mentalità; il “popolo” ha scoperto il suo potere, il suo potere costituente. Discute sistematicamente di politica. Si possono constatare un rifiuto o una rimessa in discussione di tutti i rapporti d’autorità; e) il contratto sociale è da rifare, i patti politici sono da riscrivere. f) Certo, in direzione contraria, il potere è assunto da un altro pilastro del regime, così come è certo che le forze che non solo non sono riformiste ma anche ostili alla rivoluzione sono potenti, influenti e hanno scoperto una parola d’ordine dal potere cognitivo reale: bisogna che lo Stato non cada con il regime. Sembra certo che settori importanti delle classi medie provinciali vadano situate in questo campo.
Il CSFA ha letto la situazione come segue. Sono state formulate due richieste, mettendo in atto due tipi di processi che devono essere distinti: a)
una transizione democratica con l’organizzazione di elezioni libere – in altri termini, la consegna delle chiavi del potere e dell’apparato dello Stato a un governo uscito da una maggioranza; b)
una richiesta rivoluzionaria veicolata da minoranze attive che organizzano manifestazioni e che possono essere o non essere supportate dalla “strada”, che esigono una revisione radicale dei rapporti sociali, un’accelerazione della ristrutturazione dei servizi e la liquidazione delle strutture e perfino dei leader e dei quadri dell’antico regime.
Il CSFA ha deciso di privilegiare la prima e contrastare la seconda. Di contrapporre le due, con il rischio di delegittimarle entrambe. A questo scopo: a)
in accordo, tacito o meno, con i Fratelli Musulmani, esso ha definito una tabella di marcia consistente nell’organizzare delle elezioni legislative, nel conferire al Parlamento uscito da queste elezioni
il diritto di nominare una Costituente e coronare il processo con l’elezione di un presidente della Repubblica. Questa tabella di marcia, consisteva, di fatto, nel permettere alla maggioranza di redigere la Costituzione. In quel momento, i Fratelli hanno affermato di accontentarsi di un quarto o di un terzo dei seggi dell’Assemblea. b) Ha tentato di “difendere l’apparato dello Stato e la sua autorità” e di frenare i cambiamenti.
Lo stato di emergenza non è stato abolito, più di 13.000 persone sono state giudicate dalle corti marziali, la polizia non è stata ristrutturata… Il presidente Mubarak è stato consegnato alla giustizia solo sotto l’enorme pressione della strada, e, probabilmente, dei giovani ufficiali.
Inoltre, a fine giugno, il CSFA si è reso conto che questa tabella di marcia equivaleva a
dare al campo islamista il diritto di redigere da solo la Costituzione e che i campi non-islamisti, pur essendo divisi e minoritari, potevano mobilitare truppe consistenti ed erano molto influenti al Cairo (si tenga conto che siamo in un Paese molto centralizzato). Il CSFA ha iniziato allora a esplorare diverse piste per tentare di prevenire o indirizzare il futuro dominio islamista sulla Costituente. Simultaneamente, o di volta in volta, ha tentato di proporre il proprio testo costituzionale, di imporre un accordo su dei principi meta-costituzionali, di riservarsi
il diritto a nominare la maggioranza dei membri della Costituente, o ancora un diritto di veto sulla copia di quest’ultima. Nulla di questo ha funzionato: di fronte alle pressioni (non solo islamiste), ha dovuto ogni volta far marcia indietro. Esso ha rifiutato inoltre di escludere dal gioco elettorale gli ex funzionari del partito di Mubarak, ritenendo che avessero le reti, le basi e il denaro necessari per aggiudicarsi dei seggi, prevenendo o per lo meno limitando la portata della vittoria islamista. L’analisi si sarebbe rivelata completamente errata e gli elettori avrebbero spazzato via questi membri.
Infine, il CSFA ha tentato di prolungare il periodo di transizione.
Ciascuno degli orientamenti citati, considerato isolatamente, è comprensibile, perfino difendibile. Insieme, essi hanno prodotto un’impressione disastrosa (per un momento si è creduto che l’esercito volesse conservare il potere) e hanno contribuito calamitosamente ad aggravare la situazione. Peggio ancora, da ottobre, l’esercito ha optato per la
repressione feroce delle manifestazioni e numerose decine di persone hanno trovato la morte negli scontri con la polizia militare tra ottobre, novembre e dicembre. Ma il CSFA ha mantenuto la rotta delle elezioni.
Queste ultime sono state organizzate a dicembre e gennaio. Insieme, i
due partiti islamisti si sono aggiudicati più di due seggi su tre. Ma sono veramente insieme? Nessuna forza ha la maggioranza assoluta, anche se la coalizione diretta dai Fratelli Musulmani arriva a sfiorarla (235 seggi, cioè il 47% dei seggi per un po’ meno del 40% dei voti). La stupefacente performance dei
salafiti (121 seggi, ovvero il 24%, probabilmente per un po’ meno del 30% dei voti) è una sorpresa a metà. I risultati non islamisti sono, nonostante la loro debolezza, una piacevole sorpresa, perché, a eccezione del
Wafd, questi partiti sono stati creati recentemente e non hanno accesso a quell’istituzione centrale per la vita dei quartieri che è la combinazione della moschea e delle reti associative islamiche.
Il metodo di scrutinio era il seguente: due terzi dei seggi con il proporzionale, un terzo dei seggi assegnato tramite un voto uninominale a doppio turno, in circoscrizioni molto più grandi di quelle abituali. È molto difficile fornire delle spiegazioni accurate e affidabili del risultato delle
elezioni, del comportamento degli elettori, del voto. Accontentiamoci di quanto segue, che analisi più approfondite potranno confermare o smentire: a)
gli islamisti, e soprattutto i Fratelli Musulmani, si sono aggiudicati la quasi totalità dei seggi a voto uninominale. Questi ultimi, al secondo turno, hanno beneficiato di tutti i riporti possibili di voti: infatti, nel caso di un duello Fratelli/salafiti, i non islamisti hanno votato per i Fratelli. Nel caso di un faccia a faccia Fratelli/non islamisti, essi hanno beneficiato del riporto salafita. Infine, nei rari casi in cui un secondo turno ha opposto salafiti e non islamisti, i Fratelli hanno votato i salafiti. b) È invece difficile sapere se il risultato sarebbe stato il medesimo con delle circoscrizioni più piccole. c) Tralasciando la “riserva” (circa le dimensioni delle circoscrizioni) che ho appena espresso, sembra chiaro che il proporzionale offra maggiori possibilità a tutti gli avversari dei Fratelli, siano essi salafiti o non islamisti. d) È molto difficile sapere come gli elettori si siano distribuiti tra i Fratelli e i salafiti. Affermare che per i secondi il voto è chiaramente anti-elitario non rende conto se non parzialmente della complessità del problema. Nel corso di conversazioni con colleghi, militanti ed elettori, ho potuto costatare che
molti elettori che avrebbero votato per i Fratelli se questi avessero stilato le loro liste di candidati senza allearsi con nessuno hanno di fatto optato per i salafiti, perché non volevano votare per una lista che includeva cristiani, militanti di sinistra e liberali. In altri termini, la scelta di coalizzarsi è certamente costata dei voti ai Fratelli. Resta da capire se questa perdita sia superiore al guadagno elettorale apportato dall’apparentamento, e io credo di sì. A mio avviso, quanti dicono, all’interno della Fratellanza, che quest’ultima avrebbe ottenuto un risultato migliore se si fosse presentata da sola, non hanno necessariamente torto (anzi, sono incline a dar loro ragione). Al contrario, conosco dei salafiti, in generale, ma non sempre, appartenenti alle classi medie e alla piccola borghesia, che hanno votato per i Fratelli semplicemente perché ritenevano i salafiti troppo impolitici, troppo inesperti, capaci di mettere a repentaglio il progetto di costruzione di uno Stato islamico mancando di senso del possibile. e) Il voto copto conta per un terzo del voto non islamista, forse un po’ di più. f) Il voto, e soprattutto il voto per i Fratelli, non è un voto in bianco.
Molti desiderano dar loro una chance e manifestano il desiderio di fondare l’ordine pubblico sui precetti dell’Islam,
della sharî‘a e su quelli della democrazia. Tuttavia non confidano veramente nella Fratellanza o non sono disposti ad accettare le conseguenze di una islamizzazione rigorosa (sul turismo, per esempio). Peraltro le attese di questi elettori sono molteplici e contraddittorie e molti saranno certamente delusi.
Per quanto riguarda la transizione democratica,
il CSFA ha già trasferito i suoi poteri legislativi al nuovo Parlamento. I prossimi mesi saranno quelli della redazione della Costituzione e del trasferimento del potere esecutivo al governo uscito dalla maggioranza. Oltre ai prevedibili conflitti costituzionali, oltre all’imminenza di una grande
crisi economica, con l’esaurimento delle riserve egiziane di valuta, i problemi principali sono i seguenti: il CSFA restituirà tutti poteri ai civili? Quale sarà lo statuto dell’esercito nella prossima Costituzione? Cosa faranno i Fratelli Musulmani che non hanno la maggioranza assoluta? Quale coalizione costruiranno?
Si hanno poche certezze: a) si sa che oggi il CSFA vuole trasferire il potere. Resta da capire se lo può fare e se le sue esigenze e quelle dei Fratelli e del Parlamento saranno conciliabili; b) si sa che c’è una forte incompatibilità tra gli imperativi dello sviluppo economico e le concezioni dello Stato e della società veicolate dagli islamisti, se non altro perché l’Egitto dipende fortemente dall’attività turistica e dagli investimenti stranieri. Molto dipenderà dalla capacità dei Fratelli di dimostrare pragmatismo, trovando incentivi sufficienti per mantenere la coesione e garantire l’adesione alle loro basi; c) io personalmente non vedo come sia possibile convincere simultaneamente tutte le forze politiche a non ricorrere alla politica del peggio.
Molto dipenderà dal rapporto di forza tra l’esercito e i Fratelli. Quest’ultimo è difficilmente valutabile. I migliori osservatori hanno fatto valutazioni diverse. Consideriamo i due estremi. Per alcuni il CSFA si è molto indebolito: il suo bilancio politico e della sicurezza è pessimo, o è percepito come tale. Esso si è inimicato numerose componenti essenziali del movimento non islamista, a cominciare dai
movimenti dei giovani. Le violente repressioni di ottobre, novembre e dicembre hanno scioccato alcuni settori dell’opinione, anche tra coloro che non erano favorevoli alle manifestazioni a ripetizione. La sua politica probabilmente non è accettata all’unanimità, né al suo interno, né all’interno delle forze armate. Ogni volta che gli islamisti hanno mostrato i denti, ha fatto un passo indietro. Ora, questi ultimi hanno ormai la legittimità delle urne e saranno ancora più difficili da contrastare. Secondo altri analisti, è un’illusione ottica:
l’esercito continua ad essere il detentore della forza legittima. Le sue reti, in seno al “deep State”, al vertice della burocrazia di Stato e delle collettività locali, sono intatte. Quando i non-islamisti avranno delle vere scelte da fare, molti non opteranno per gli islamisti dopo ciò che questi ultimi si sono permessi di dire sul loro conto e sul loro atteggiamento durante il passaggio di consegne tra rivoluzionari ed esercito. Già da ora molti alti funzionari, uomini politici, membri dell’intelligentia o delle classi medie chiedono al CSFA di non andarsene. L’esercito ha dimostrato di essere capace di organizzare delle elezioni e di mantenere l’ordine durante questi ultimi anni: la sua “potenza fisica” è intatta e l’elettorato gli è riconoscente per aver accettato le regole del gioco democratico. Indipendentemente dalle molteplici divisioni al suo interno, dopo tutto naturali, e dalle diverse affinità elettive dei suoi membri, il CSFA sa che alla fine i Fratelli vogliono tutto il potere e li vogliono escludere dal gioco politico. Nelle file dell’esercito, sono numerosi coloro che credono che l’istituzione sia stata mal ricompensata per il suo
sostegno alla rivoluzione e che dunque tendono sia a supportare il CSFA, sia a criticarlo per la sua “indolenza”.
Molto dipenderà anche dalle scelte di alleanza che faranno i Fratelli. Nessuna è priva di grandi inconvenienti: il fatto di dover gestire la crisi economica e rassicurare i capitali occidentali, gli attori chiave dell’economia e le parti più illuminate della loro base, spinge in una direzione. Il voler soddisfare le truppe provinciali o salafizzate, riprendere voti ai salafiti, garantire che questi ultimi non optino per la politica del tanto peggio tanto meglio è un forte incentivo a muoversi nella direzione opposta. Soddisfare tutti, dando una sterzata a destra e poi virando a sinistra, o l’inverso, non sembra sostenibile.
Qualunque sia l’esito della transizione democratica, la rappresentanza nazionale è indebolita perché è stata concepita come un antidoto per contrastare i processi rivoluzionari e ha escluso i movimenti giovanili all’origine della rivolta contro Mubarak, che non sono veramente rappresentati in Parlamento. Essi non sono scomparsi. I militanti sono tenaci, eccezionalmente coraggiosi e, si è visto, non temono la morte. Le perdite di vite umane che hanno subito e le famigerate campagne diffamatorie che li colpiscono non li hanno fermati (o perlomeno, non ancora). Anzi, è accaduto piuttosto il contrario. La memoria dei morti, dei martiri, la logica del
taglione, ma anche la necessità di salvaguardare l’unità interna di questi movimenti, richiedono un’attività permanente e non predispongono al compromesso, all’accettazione di un mondo insoddisfacente.
Per il momento, la popolazione non segue più questi giovani. Ma che cosa accadrà se non dovessero arrivare i risultati?