Nonostante l’enfasi spesso posta nel presentare come dominante nell’Islam la questione dell’adempimento pratico della legge, secondo la tradizione musulmana nessuna obbedienza ai precetti religiosi vale se è priva di un proposito leale e di una salda moralità
Ultimo aggiornamento: 12/07/2024 12:49:47
Nella nostra contemporaneità pensare al musulmano significa pensare a qualcuno che deve compiere determinate azioni e deve astenersi dal compierne altre. Ed è vero che il discorso islamico, specie in Occidente e per motivi ovvi, verte per lo più sull’adempimento degli obblighi di legge nella loro dimensione pratica; proprio l’enfasi sull’aspetto esteriore della religione genera, da parte occidentale, l’impressione di un Islam tutto centrato sulla prassi. Tuttavia, ferma restando l’imprescindibile componente etico-giuridica della religione inaugurata da Muhammad, non devono essere sottovalutate – né dalla sensibilità e dalla cultura occidentali né tantomeno dal fedele musulmano – altre componenti della religione islamica, più sottili ma ugualmente essenziali. È piuttosto noto che secondo la Tradizione del Profeta o Sunna nessuna obbedienza ai precetti religiosi ha validità se è priva di un proposito religiosamente orientato, detto niyya o “intenzione”. «Le azioni sono [cioè valgono e si valutano] secondo l’intenzione – avrebbe dichiarato il Profeta ai primi convertiti che si apprestavano all’egira, il trasferimento della comunità da Mecca a Medina; – e chi emigra mirando a Dio e al Suo Inviato, costui si trasferisce verso Dio e il Suo inviato, mentre chi emigra mirando a un vantaggio materiale da ottenere oppure a una donna da sposare, ebbene, costui si trasferisce verso queste cose»1. Peraltro l’idea che ogni azione giuridicamente valida debba essere sostenuta dal buon proposito interiore emerge già nell’etimologia di niyya, che è la medesima di nawât, “nucleo”, “nòcciolo”, o “sostanza” di una cosa: vale a dire che senza l’elemento di coscienza ogni osservanza è scorza vuota, priva del costitutivo essenziale. È altrettanto noto che la dottrina islamica insiste sull’aspetto interiore riconoscendo, all’interno di un onnicomprensivo islâm, la presenza necessaria della “fede” o îmân, quest’ultima a sua volta voce carica di significati: la sua radice dà origine infatti anche ad amân “sicurezza”, “tranquillità” o “protezione garantita”, e amâna, cioè “fiducia” e anche “fedeltà” a un patto stipulato. In tal modo, l’Islam si configura propriamente come una sottomissione al volere divino che da un lato è piena fiducia e dall’altro presuppone, da parte dell’uomo come già da Dio, una reciproca lealtà di intenti. Il timore di Dio Un’altra nozione utile a rilevare l’aspetto interiore della religione è il “timor di Dio” ovvero taqwâ, tra i primissimi elementi costitutivi dell’Islam a essere attestati nel Corano2; taqwâ esprime sorveglianza, protezione e salvaguardia, cosicché avere timore di Dio equivale a stare in guardia e a mantenersi lontani dal male. La taqwâ è prima di tutto un’attitudine reverenziale nei confronti di Dio3, ma include l’attitudine reverenziale nei confronti del prossimo; un celebre passo coranico, nella sura delle Stanze Interne, recita che «i credenti sono fratelli. Mettete pace tra i vostri fratelli e abbiate timore di Dio (taqwâ) affinché Dio abbia misericordia di voi» (49,10). E un detto del Profeta è più incisivo: «Il musulmano è fratello al musulmano, non lo tradisce e non gli mente; ogni musulmano è sacro (harâm) per il musulmano nel suo onore, nel suo denaro e nel suo sangue. Ecco che cos’è la taqwâ»4. Queste o altre esortazioni a riconoscere – prima che a praticare – la sacralità del fratello, limite invalicabile per il fedele pena l’inconsistenza del suo stesso statuto di fedele, spostano il baricentro verso un altro ingrediente fondamentale dell’Islam che è la moralità, presupposto e al tempo stesso esito della rettitudine. Non è un caso se il termine prescelto dalla letteratura didascalica per esprimere le virtù, le qualità in forza delle quali il musulmano si comporta rettamente, è akhlâq, il plurale di khulq – o khuluq – ovvero “modello primigenio”, “disposizione innata”. Il buon comportamento generato dalla moralità non ha neppure bisogno di essere formulato in norme dettagliate perché, semplicemente, i suoi principi sono parte integrante dell’uomo buono – di ogni uomo buono – essendo impressi su di lui fin dal principio. A conferma di quel che si è appena detto basta osservare il lessico coranico, estremamente puntuale a questo proposito. È un dato di fatto che le obbligazioni di legge rientrano invariabilmente in ciò che Dio “scrive” o “prescrive” (verbi kataba e sharaʿa, cfr. sharîʿa). Pensiamo alla sura della Vacca dove è detto: «Voi che credete, vi è prescritto (kutiba, in forma passiva) il digiuno come fu prescritto a quelli prima di voi» (Cor. 2,178). Oppure alla sura della Consultazione: «Egli vi ha prescritto (shara‘a), di religione, quel che raccomandammo a Noè, e quel che raccomandammo a Mosè, e a Gesù […]» (42,13). La virtù secondo il Corano Quanto alle virtù, il Corano ne parla secondo due modalità. La prima si collega all’amore di Dio (verbo habba). È ad esempio il caso dell’equanimità, la correttezza nel giudicare e nel dare (in arabo qist); nella sura delle Stanze Interne è detto: «Mettete pace tra loro con giustizia e siate equanimi perché Dio ama gli equanimi (al-muqsitîn)» (Cor. 49,9). In altri casi, le virtù sono il contrario di ciò che Dio non ama. È il caso dell’umiltà e della generosità: «Fate del bene ai genitori, ai parenti, agli orfani, ai poveri, al vicino che vi è parente e al vicino che vi è estraneo, e al compagno di viaggio e al viandante e allo schiavo, perché Dio non ama chi è superbo e vanesio né ama coloro che sono avari» (Cor. 4,36-37), si recita nella sura delle Donne. È anche il caso della moderazione; nella sura delle Greggi è detto: «Mangiate [...] e non eccedete perché Egli non ama gli eccessivi» (Cor. 6,141-142). Il secondo modo in cui il Corano descrive le virtù si ricollega invece alla “compagnia di Dio”, trattando di buone qualità definibili come cardinali, come la pazienza o sabr: «Ubbidite a Dio e al Suo messaggero – recita la sura del Bottino – e non disputate tra voi altrimenti perdereste fiducia e vigore e il vento che vi ha favorito girerebbe. Pazientate, perché Dio è con i pazienti» (Cor. 8,46; cfr. 8,66). Negli stessi termini è lodato il già citato timore di Dio ovvero la taqwâ: «Voi che credete […] sappiate che Dio è con chi ha timore di Lui (ma‘a al-muttaqîn)» (Cor. 9,123), così la sura della Conversione (Cor. 9,123). L’elevato statuto dell’etica della virtù, correlativo necessario dell’etica giuridica e indubbiamente non meno importante di questa nel contesto della predicazione islamica, si chiarisce ulteriormente richiamando la dottrina dei Nomi divini, “i Nomi bellissimi” (al-asmâ’ al-husnâ),5 attributi o modi di Dio che la tradizione profetica ha fissato a novantanove6. Questi Nomi, tratti dal Corano, compaiono in alcune liste autorevoli7 e sono oggetto di devozione. Sono molti i Nomi divini che si prestano all’analogia e stanno a capo di altrettante virtù umane; l’idea della virtù come partecipazione, mutatis mutandis, di un modo d’essere di Dio è veicolata in particolare da un grande teologo della classicità islamica, al-Ghazâlî (m. 505/1111) che parlò per questi casi di “Nomi equivoci” (asmâ’ mutashâbiha) oppure “condivisi” (mushtaraka)8. A partire dalla misericordia ovvero compassione, la rahma, che origina i due Nomi capitali al-Rahmân e al-Rahîm. Secondo un detto del Profeta, la qualità divina detta rahma riverbera nelle creature umane, così trasformandosi in una qualità dell’uomo buono e in un caposaldo della vita sociale: «Coloro che hanno compassione, il Compassionevole ha compassione di loro. Abbiate compassione di chi è in terra, e Chi è in cielo avrà compassione di voi. Il legame di sangue (rahim) è una cura che viene dal Compassionevole (al-Rahmân), e chi lo mantiene saldo, Dio mantiene saldo costui, quanto a chi lo spezza, Dio lo spezza». Questo collegamento tra la rahma di Dio per le creature e la rahma del buon musulmano per il fratello si conferma nel detto celeberrimo che recita «chi non compatisce non è compatito», piuttosto ellittico come spesso accade in questa antica letteratura, il cui senso è però chiarissimo: chi non nutre rahma per il prossimo resta privo della rahma di Dio. Quel che fonda l’etica islamica della virtù è dunque la convinzione che una data qualità divina possa essere partecipata in qualche misura dall’uomo, il quale se ne giova nei confronti di Dio e contemporaneamente nei confronti del suo prossimo. L’alterità assoluta dello statuto divino non è ovviamente in discussione. Ma è la stessa letteratura canonica – il Corano e la Sunna – a suggerire che alcuni attributi divini possano coincidere con le buone qualità dell’uomo. Un ulteriore esempio utile a focalizzare questo tema è il Nome al-Shakûr, voce intensiva che vale per “Colui che è molto grato” oppure “molto riconoscente”. È interessante, qui, il significato di gratitudine o shukr: non vuol dire semplice “ringraziamento” ma un beneficio concreto che segue un beneficio già ricevuto, il quale, per di più, dovrà essere maggiore del precedente a cui risponde9. Nel corso delle sue meditazioni sul Nome al-Shakûr, al-Ghazâlî cita un detto profetico che ricorda quello già visto sopra a proposito della compassione perché si fonda, appunto, sul dovere di imitare Dio nei propri rapporti con il prossimo: «Dio non è grato a chi non è grato agli altri». Secondo un altro detto del Profeta, «gli uomini più grati a Dio sono quelli più grati agli uomini». Come la compassione, dunque, anche la gratitudine è un dovere religioso e sociale nello stesso tempo10. L’etica nei Nomi divini Accanto al lavoro dei teologi come al-Ghazâlî, la letteratura araba conosce una vasta letteratura didascalica dedicata all’etica delle virtù a partire dai Nomi divini, la quale accorpa detti del Profeta Muhammad o di altri profeti, oppure di pii e giusti dell’antichità. A titolo di esempio, per restare alla gratitudine: «Il peggior discorso è quello che nega il beneficio ricevuto»; «Sii grato a chi ti benefica e benefica chi ti è grato; il beneficio ringraziato non si consuma, mentre, senza gratitudine, esso non perdurerà; la gratitudine aumenta il bene e tiene al riparo dai mutamenti della sorte». Il Profeta avrebbe dichiarato: «Vi sono dei servi ai quali, nel giorno della resurrezione, Dio non rivolgerà la parola. Chi sono? – chiesero. Rispose – Chi rinnega i propri genitori […], chi rinnega il proprio figlio, e chi riceve un beneficio da altri e poi disconosce quel beneficio e lo rinnega»11. Sempre a titolo rappresentativo può essere richiamato il Nome al-Tawwâb cioè “Colui che molto perdona”; questo attributo divino, a partire dall’idea originaria di riconversione e ritorno a una condizione previa, si traduce facilmente – ma non sempre come vedremo – in quella peculiare virtù che è la vocazione al pentimento. La voce che al-Ghazâlî dedica al Nome al-Tawwâb è costruita sul mutuo ritorno; l’autore scrive: Dio è «colui che torna a facilitare ai Suoi servi le cause della riconversione volta dopo volta, rendendo evidenti per loro i Suoi segni [...] finché essi, allorché scoprono le sciagure delle colpe attraverso il Suo ammaestramento, provano paura grazie allo spavento che Egli ha messo loro e dunque tornano alla riconversione, e allora il favore di Dio torna verso di loro […]»; poi aggiunge: «chi, volta dopo volta, accoglie le discolpe dei peccatori, siano essi sudditi, amici o conoscenti, è conforme a questa qualità e da essa trae la propria sorte». In tal modo l’illustre teologo insegna che tawwâb non è solo il servo che si riconverte al Signore, ma è anche l’uomo che si riconverte al fratello12. Il perdono di Dio e quello dell’uomo Si muove sul medesimo terreno un’opera più antica, Il libro della riconversione di Ibn Abî al-Dunyâ di Baghdad (m. 281/894), dove compare un racconto sul primo musulmano cui venne amputata la mano. «Lo portarono dal Profeta e gli dissero che aveva rubato. Rispose: “Prendetelo e amputatelo”. Ma poi il suo volto si rabbuiò. Alcuni di quelli che sedevano con lui gli chiesero: “Ti ha messo in pena, Profeta di Dio?” Rispose: “Non siate gli aiutanti di Satana! Quando a un governante è presentato un caso penale (hadd), non può far altro che comminare la pena; ma Dio è colui che condona (al-ʿafw), e ama il condono”. Poi recitò: Invece condoneranno e scuseranno, voi non volete che Dio vi perdoni? Dio è colui che molto perdona, è il Compassionevole (Cor. 24,22)». In un altro caso – sempre nella proposta di Ibn Abî al-Dunyâ – il rapporto che lega il perdono di Dio e quello dell’uomo per il fratello è ancora più esplicito. «Dio ispirò a un profeta che il castigo era imminente. Quel profeta trasmise il messaggio al suo popolo e ordinò che i migliori tra loro uscissero e facessero ammenda a Dio. Uscirono in tre davanti al popolo. Il primo disse: “Signore, Tu ci hai ordinato nella Torah rivelata al tuo servo Mosè di non rifiutare la richiesta di chi si presenta alla nostra porta; ora, noi ci presentiamo a una delle Tue porte, e Tu non rifiutare la nostra richiesta”. Disse il secondo: “Signore, Tu ci hai ordinato nella Torah rivelata al tuo servo Mosè di condonare a chi ci fa torto; ora, noi abbiamo fatto torto a noi stessi, e Tu condona a noi”. Disse il terzo: “Signore, Tu ci hai ordinato nella Torah rivelata al tuo servo Mosè di liberare i nostri schiavi; ora, noi siamo Tuoi servi e schiavi, e Tu liberaci”. Dio ispirò a quel profeta che Egli aveva accolto la loro richiesta e che li aveva condonati»13. Vale la pena di ricordare che la possibile coincidenza degli attributi divini con le virtù umane non è affatto ignota alla nostra contemporaneità. Per restare alla conversione, tawba, pensiamo ad esempio al lavoro dello shaykh Mutawallî al-Sha‘rawî (m. 1998) nel suo pamphlet sulla tawba14. L’autore dichiara: «L’Islam non ha impresso nel musulmano il carattere della veemenza né quello della superbia, perché in tal caso egli sarebbe veemente e superbo finanche con gli altri i credenti. L’Islam lo vuole invece veemente e superbo quando occorre e, quando occorre, docile, ogni cosa a momento debito». Parte della tawba – spiega ancora al-Sha‘rawî – «è essere pieni di clemenza con chi lo merita, con i fratelli»15. Molti altri esempi si potrebbero aggiungere, tutti casi di buone qualità la cui pratica interessa la dottrina e la predicazione islamica tanto quanto le prescrizioni giuridiche. Ma quel che più importa sottolineare è che le “virtù islamiche” rappresentano valori del tutto condivisibili anche al di fuori delle società che si richiamano all’Islam, e segnatamente in Occidente. Per costruire una società fondata sulla pace e sulla reciproca solidarietà non occorre affatto postulare o ricercare un’omogeneità delle credenze religiose; la distensione dei rapporti sociali poggia piuttosto sull’affinità etica, cioè sulla corrispondenza, tra gli individui di qualsivoglia tradizione culturale, negli imperativi morali e nelle direttive basilari del comportamento. Allora, individuare i fondamenti etici della personalità islamica e verificare le condizioni della loro riproduzione attuale è un compito urgente.
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Note
1 Cfr. al-Bukhârî (m. 256/870), Al-Sahîh, kitâb badʾ al-wahy, n. 1; e Kitâb al-îmân wa al-nudûr, n. 6223.
2 Figura infatti nelle rivelazioni di più antica cronologia, ad esempio nella sura del Grumo di sangue che, secondo i commentatori, allude a una delle prime apparizioni di Gabriele a Muhammad (cfr. Cor. 96,9-14).
3 La quale, in ambiente esoterico e particolarmente nel sufismo, si combina con l’astinenza. Nel sufismo, taqwâ è timore in due sensi: non solo timore dell’ira divina nel mondo e nell’aldilà ma anche, in questa vita, timore della separazione da Dio. Detto altrimenti, la vera pietà per lo spirituale musulmano è astinenza da tutto fuorché da Dio. Cfr. anche L. Lewisohn, Taḳwā, EI2, suppl., 782.
4 Cfr. al-Tirmidhî (m. 279/892), Jâmiʿ, kitâb al-birr wa-l-sîla, no. 1846.
5 Ad esempio, la sura del Limbo recita: Dio possiede i Nomi Bellissimi (oppure: i Nomi più belli, al-asmâ’ al-husnâ) (Cor. 7,180; cfr. 59,24 e 20,8). E nella sura del Viaggio Notturno è detto: «InvocateLo con il nome Iddio, oppure invocatelo con il nome Al-Rahmân, comunque Lo invochiate a Lui appartengono i Nomi più belli» (Cor. 17,110).
6 Un noto detto del Profeta recita: “Dio ha novantanove nomi, cento meno uno; Egli è Dispari e ama il dispari [oppure: «ama essere designato con questi nomi uno per uno»] e chiunque li impari a memoria entrerà in paradiso». Il centesimo sarebbe noto solo a Dio (per il numero 99 cfr. le linee della mano); alcuni affermano invece che il loro numero è infinito.
7 Particolarmente rinomato è l’inventario di Walîd ibn Muslim al-Dimashqî, m.195/810, tradotto ed esaminato da Angelo Scarabel, Preghiera sui nomi più belli, Marietti, Genova 1996.
8 Cfr. Maqsad al-asnâ fî sharh asmâ’ Allâh al-Husnâ, Arabic Text, edited with introduction by Fadlou A. Shehadi, Dar el-Mashreq, Beirut 1971.
9 In questo senso Dio è il Gratissimo, poiché quel che Egli aggiunge in risposta all'ubbidienza dell'uomo non ha limite. Spiega infatti il grande dizionario Lisân al-‘Arab, “La lingua degli arabi” (sec. XIII), che shukr deriva dall’espressione shakarat al-ibil, applicata ai «cammelli che ingrassano al pascolo»; shakûr si dice del quadrupede a cui basta poco foraggio e addirittura con quel poco ingrassa, «come se ringraziasse anche se il beneficio che riceve è poco; la sua gratitudine sta nel […] manifestarsi del foraggio assimilato».
10 Cfr. Ida Zilio-Grandi, The Gratitude of man and the Gratitude of God. Notes on shukr in traditional Islamic thought, «Islamochristiana» 38 (2012), 45-61; Eadem, Gratitude and Ingratitude, EI3, 2 (2013), 96-99.
11 Ibi, 59.
12 Al-tawba, ed. ʿAbd Allâh al-Hajjâj, Maktabat al-turâth al-islâmî, Cairo 1422/2001; cfr. Ida Zilio-Grandi, Return, Repentance, Amendment, Reform, Reconversion. A contribution to the study of Tawba in the Context of Islamic Ethics, «Islamochristiana» 39 (2013), 71-91.
13 Ibidem.
14 Al-tawba, ed. ʿAbd Allâh al-Hajjâj, Maktabat al-turâth al-islâmî, Cairo 1422/2001.
15 Cfr. Zilio-Grandi, Return, 90.