Fino a qualche anno fa, sembrava che la Turchia di Erdoğan potesse fungere da laboratorio di convivenza tra culture diverse. Ma il presidente turco ha scelto la strada della polarizzazione ideologica
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:05
Almeno tre grandi discorsi circolano sulla decisione del presidente turco Erdoğan di riconvertire Santa Sofia in moschea. Il primo si rammarica per il tradimento della laicità turca, voluta da Atatürk e simboleggiata dal decreto con cui nel 1934 il padre della Turchia repubblicana aveva neutralizzato la dimensione religiosa della basilica/moschea. Il secondo, diffuso in particolare in alcuni ambienti musulmani, invita nella sua versione più moderata a non drammatizzare un gesto fondamentalmente riparativo, che restituisce un luogo alla sua originaria destinazione d’uso, mentre nella sua declinazione più militante si compiace per la riaffermazione dei diritti stabiliti dal sultano Mehmet II con la conquista di Costantinopoli nel 1453. Il terzo, prodotto soprattutto da studiosi di Turchia o del Medio Oriente, si concentra sulle motivazioni politiche della mossa di Erdoğan, nella quale vede soprattutto il tentativo di recuperare consensi e ricompattare il proprio elettorato da parte di un uomo politico in affanno.
Anche se con gradi e modalità differenti, tutte e tre le posizioni trascurano a mio avviso aspetti importanti della questione. La prima mitizza il lascito, peraltro già annacquato nel corso del tempo, di Mustafa Kemal, il quale non fu solo convinto modernizzatore, ma anche autocrate implacabile e avversario di qualsivoglia manifestazione di pluralità politica, culturale o religiosa. La seconda non coglie la portata simbolica del gesto di Erdoğan, preferendo affermare speciosamente la legittimità formale dell’operato del presidente turco e del tribunale che ha abolito il decreto del 1934; la terza finisce per minimizzare le cicatrici che le scelte del presidente turco rischiano di lasciare. Anche ammettendo che si tratti dell’effimero colpo di coda di un leader sul viale del tramonto, la “demuseificazione” di Santa Sofia preannuncia un finale di carriera piuttosto problematico.
Per riflettere sulle implicazioni più profonde della vicenda di Ayasofya è utile tornare alle considerazioni che il sociologo italiano Massimo Rosati, prematuramente scomparso nel 2014, aveva dedicato alla Turchia. Pur non essendo propriamente uno specialista del Paese euro-asiatico, Rosati lo considerava un promettente laboratorio, dalla portata potenzialmente universale, in cui il laicismo intransigente d’impronta kemalista stava lasciando spazio a una laicità più inclusiva, fondata sulla convivenza e sulla cooperazione tra cittadini di diverso orientamento culturale e religioso.
Uno dei segnali di questo cambiamento era rappresentato secondo Rosati proprio dai dibattiti relativi allo statuto di Santa Sofia, cui il sociologo aveva dedicato un capitolo del suo ultimo libro, The Making of a Postsecular Society. A Durkheimian Approach to Memory, Pluralism, and Religion in Turkey, uscito postumo nel 2015. Rosati, per il quale il futuro di Ayasofya aveva «un significato simbolico particolarmente importante, certamente per la Turchia, ma anche per un Europa multi-culturale e multi religiosa», osservava in particolare che a margine dello scontro tra le due posizioni egemoni (“centrali” le chiamava lui) dello spazio pubblico turco, quella laicista aggrappata al mantenimento della soluzione museale, e quella islamo-nazionalista ossessionata dalla riconquista di uno spazio che considerava usurpato, si stava sviluppando una terza tendenza, favorevole al superamento in senso “pluralista” dell’eredità di Atatürk. I fautori di questa prospettiva, tra i quali si trovavano sia musulmani che cristiani, auspicavano una riapertura dell’edificio ai diversi culti che nel corso del tempo si erano succeduti nella maestosa costruzione, lasciandovi ognuno la sua impronta: un luogo a disposizione di tutti e possesso di nessuno. Il sociologo era consapevole del fatto che questa opzione era ancora culturalmente e soprattutto organizzativamente debole e che il destino della basilica/moschea/museo sarebbe perciò dipeso dalla «politica degli spazi sacri» dell’AKP. Confidava (o s’illudeva) tuttavia che, nonostante le sue ambiguità, il partito di Erdoğan, potesse farsi garante della svolta “post-secolare” della Turchia. Nel 2005, l’attuale presidente turco si era d’altronde speso insieme all’allora primo ministro spagnolo José Luis Zapatero per promuovere presso le Nazioni Unite l’Alleanza di Civiltà, un’iniziativa volta a contrastare l’estremismo e a favorire il dialogo interculturale e interreligioso.
Oggi sappiamo che le cose sono andate in altro modo e che, soprattutto dopo il 2013, l’AKP ha intrapreso una strada decisamente diversa. Invece di superare l’eredità kemalista, Erdoğan l’ha rovesciata nel suo opposto, convertendo il nazionalismo laicista del fondatore della Repubblica turca in un nazionalismo religioso. È emblematica da questo punto di vista la paradossale scelta di far coincidere la riapertura al culto islamico di Santa Sofia con l’anniversario del Trattato di Losanna del 1923: mentre cancella uno dei simboli più eloquenti della memoria di Atatürk, il presidente turco celebra infatti l’atto con cui il suo predecessore ha restituito alla Turchia l’onore infranto dalla disfatta bellica e dall'umiliante trattato di Sèvres, stabilendola nella sua sovranità e nei suoi confini attuali.
Si può discutere se la traiettoria dell’AKP abbia subito una deriva incidentale o sia la conseguenza più logica della sua matrice ideale, e quindi se la riconversione di Santa Sofia sia un’occasione mancata o un esito già scritto. Resta che in un Medio Oriente tenuto ostaggio da polarizzazioni di ogni tipo (laici e religiosi, islamisti e anti-islamisti, rivoluzionari e contro-rivoluzionari), il presidente turco ha deliberatamente scelto di alimentare il fuoco della contrapposizione, quello che punta allo stesso tempo a galvanizzare una parte e a mortificare l’altra.
Credo si possa interpretare in questo senso il “dolore” espresso dal Papa in merito alla vicenda. Non la delusione per il passaggio di mano di quella che fu una grandiosa basilica cristiana, quanto il dispiacere per la vocazione mancata della Turchia: una terra, aveva detto Francesco visitando Ankara nel 2014, che «per la sua storia, in ragione della sua posizione geografica e a motivo dell’importanza che riveste nella regione, ha una grande responsabilità: le sue scelte e il suo esempio possiedono una speciale valenza e possono essere di notevole aiuto nel favorire un incontro di civiltà e nell’individuare vie praticabili di pace e di autentico progresso».
C’è un modo per non perdere di vista questo ideale: sottrarsi al gioco pericoloso dell’ostentazione dei trofei, e dedicarsi con umiltà e pazienza alla tessitura di rapporti personali e sociali. Sarà questo il modo più vero di onorare il nome di Santa Sofia, la Sapienza divina che misteriosamente guida la storia.