La minaccia jihadista ha riportato l’attenzione sui contenuti dell’insegnamento religioso. Come e dove si formano i musulmani?
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 15:45:49
Era accaduto dopo il 2001, è successo di nuovo dopo il 2014. A ogni ondata di terrorismo islamista le istituzioni educative islamiche finiscono sotto i riflettori dei media, additate come terreno di coltura del fondamentalismo o identificate come suo più efficace antidoto. Al tempo dei Talebani e di al-Qaida era toccato soprattutto alle madrase pakistane e ai manuali usati nelle scuole saudite. Alcuni studi[1] avevano poi suggerito che, se certamente l’istruzione impartita nelle aule scolastiche influisce sulla forma mentis delle giovani generazioni, l’associazione tra libri di testo e radicalizzazione rischia di essere troppo sbrigativa. Questo legame è ancora più discutibile all’epoca di Isis, tanto è determinante il ruolo giocato nella sua ascesa da reti internet, social media e reclutatori digitali.
Tuttavia, anche negli ultimi anni non sono mancati i dibattiti sulle responsabilità dei centri d’insegnamento. Il più significativo ha avuto luogo in Egitto, dove la moschea-università di al-Azhar è stata accusata di diffondere attraverso i manuali adottati nei suoi istituti i germi dell’estremismo. I vertici della moschea hanno allora avviato un programma di revisione dei libri di testo incriminati, dai quali sono stati espunti i passaggi, come quelli relativi alla schiavitù, al jihad o allo statuto discriminatorio previsto per i non-musulmani, più problematici per la sensibilità moderna e soprattutto più in sintonia con l’ideologia e con le azioni delle organizzazioni jihadiste.
Se al-Azhar incarna, con la sua esistenza millenaria, quella tradizione islamica che il jihadismo ha contribuito a portare sul banco degli imputati, l’Istituto Mohammed VI per la formazione di imam, murshidīn e murshidāt (guide religiose, uomini e donne) di Rabat, di cui parla nel suo articolo Salim Hmimnat, è stato creato appositamente per contrastare le letture estremiste dell’Islam. Il progetto risale al 2005, quando per rispondere agli attentati terroristici di Casablanca la monarchia marocchina ha messo in atto una profonda riforma delle strutture religiose del Paese, ma nel 2015 si è trasformato in un’istituzione stabile, diventata il fiore all’occhiello di uno Stato che vuole presentarsi come un modello di moderazione e stabilità.
Tuttavia, una lettura dei piani di studio e dei manuali utilizzati al suo interno mostra anche i limiti e soprattutto la dimensione politica dell’iniziativa, che punta a integrare gli imam in una burocrazia religiosa al servizio degli obiettivi dello Stato e utilizza l’Islam come strumento di soft power per accrescere la proiezione internazionale, e in particolare africana, del Marocco. E anche nel caso egiziano è lecito chiedersi, come fa Ahmad Wagih nel suo articolo, quanto la polemica intorno ad al-Azhar sia effettivamente giustificata dalle responsabilità della moschea e quanto invece risponda al desiderio del potere di mettere sotto pressione le istituzioni religiose per limitarne l’autonomia. Non è una novità: in sistemi politici che hanno integrato la religione all’interno delle proprie strutture è normale che l’Islam venga usato per perseguire determinati interessi o veicolare determinati messaggi. Lo dimostra il caso della Giordania, che come il Marocco è alla ricerca di un equilibrio tra fedeltà alle radici e apertura alla modernità. I manuali per l’insegnamento religioso utilizzati nelle scuole del Paese, studiati da Ignazio de Francesco, mostrano infatti una tensione irrisolta tra una condanna netta delle interpretazioni terroristiche dell’Islam e l’insistenza su metodi che favoriscono un apprendimento acritico e su idee che rischiano di rivelarsi molto insidiose.
La questione educativa non può tuttavia essere ridotta alla prevenzione dell’estremismo e alle misure messe in atto in questa direzione dagli Stati. In una religione che, come l’Islam, è fondata sulla centralità del “sapere”[2] (lo ‘ilm), la trasmissione di quest’ultimo è questione di portata vastissima. Infatti, secondo un detto falsamente attribuito a Muhammad, ma molto citato dai musulmani, la conoscenza va ricercata per tutto il corso della vita, «dalla culla alla tomba». Non va peraltro dimenticato che se oggi la posta in gioco dell’istruzione islamica sembra essere diventata l’immunizzazione dei giovani dal virus dal jihadismo, la riforma delle istituzioni educative è un leitmotiv della storia moderna e contemporanea dei Paesi musulmani.
Le controversie sull’insegnamento impartito ad al-Azhar, per esempio, non nascono oggi, ma centocinquant’anni fa[3]. E i dibattiti sulla ristrutturazione del principale centro d’insegnamento religioso marocchino, l’Università Qarawiyyin di Fes, a cui oggi è annesso l’Istituto Mohammed VI per la formazione di imam, murshidīn e murshidāt, risalgono all’epoca del Protettorato francese[4]. Il tema è talmente rilevante che, a partire dagli anni ’60, si è sviluppata una corrente di pensiero, a cui è dedicata la sezione dei classici di questo numero, secondo la quale l’origine dei mali di cui soffrono le società musulmane è la diffusione al loro interno dei sistemi educativi secolari occidentali. Per porvi rimedio occorre allora islamizzare la conoscenza: un progetto che, partendo dalle università, vuole trasformare radicalmente il tipo d’istruzione a cui sono sottoposti i musulmani.
Nonostante quest’enfasi sulla riforma, sulla riorganizzazione delle strutture educative, sulla revisione dei programmi d’insegnamento, resistono le madrase tradizionali e i metodi ancestrali di apprendimento che le caratterizzano. Anzi: non solo resistono, ma sembrano conoscere un rinnovato interesse anche tra molti giovani musulmani, compresi quelli europei, disposti a sopportare condizioni ambientali e climatiche difficili pur di acquisire un sapere ratificato da catene di trasmissione che risalgono fino al Profeta dell’Islam. Lo documenta il reportage di Baptiste Brodard, dedicato a tre di questi centri tradizionali d’insegnamento islamico – uno in Algeria, uno in Mauritania e uno in Yemen –, dove il fedele può dedicarsi alla memorizzazione dei grandi testi religiosi e allo stesso tempo fare un’esperienza particolarmente intensa di vita comunitaria.
Un’altra forma di educazione tradizionale è quella che avviene nei percorsi sufi, descritti nell’articolo di Alexandre Papas. Per il sufismo, però, la vera conoscenza non si acquisisce nella madrasa ma è quella nascosta, a cui si accede attraverso un percorso iniziatico incentrato sul rapporto con un maestro. L’obbedienza incondizionata a quest’ultimo serve al discepolo per sottomettere il proprio ego, ricevendo una formazione che prevede precise regole di condotta in ogni ambito della vita: dall’alimentazione, al controllo degli istinti naturali, all’etichetta da osservare durante i viaggi.
Fortemente influenzata da una matrice sufi è anche l’educazione dei membri del movimento marocchino al-‘Adl wa-l-Ihsān, fondato negli anni ’80 dallo shaykh ‘Abd al-Salām Yāsīn e dominato dalla figura e dagli insegnamenti di quest’ultimo. Nella sua opera Il metodo profetico, Yāsīn ha delineato un complesso percorso pedagogico pensato per raggiungere la perfezione spirituale. Ma, come spiega Youssef Mounsif, nel caso di al-‘Adl wa-l-Ihsān la disciplina a cui è sottoposto il militante ha un duplice scopo: non soltanto l’accesso alla realtà divina (un obiettivo che caratterizza ogni percorso sufi), ma anche l’edificazione di una società e di uno Stato integralmente e autenticamente islamici.
Quanto detto finora, pur con tutte le sue sfaccettature, vale per il mondo sunnita. In quello sciita, la trasmissione del sapere religioso assume, se possibile, un rilievo ancora maggiore. Essa riguarda infatti una scienza sacra su cui si fonda la gerarchia tra i diversi livelli dell’autorità. Il luogo in cui avviene tale trasmissione è la hawza, la cui storia, tratteggiata da Alessandro Cancian, è segnata in epoca moderna e contemporanea da un duplice sviluppo: da un lato la rivalità tra diversi centri, in particolare tra la scuola di Qom, in Iran, diventata dopo la rivoluzione khomeinista del ’79 la “capitale intellettuale e religiosa” della Repubblica Islamica, e quella di Najaf, in Iraq, che rimane polo di riferimento dello sciismo non rivoluzionario; dall’altro la tendenza all’internazionalizzazione e all’integrazione con il mondo dell’università.
E l’Europa? Anche qui la questione della formazione dei musulmani si è fatta più pressante con l’emergenza legata al terrorismo jihadista. Finora, però, non si sono trovate risposte davvero soddisfacenti. Non mancano le iniziative, ma sia le varie comunità islamiche che i diversi Stati del Vecchio Continente si sono mossi in ordine sparso[5]: dove è stato possibile, come in Germania, si sono creati dei centri di teologia islamica all’interno delle Facoltà statali di Teologia; altrove sono state le organizzazioni islamiche a fondare istituti privati d’insegnamento. Più recentemente, in Belgio, l’islamologo musulmano Michaël Privot, ha annunciato la nascita imminente di un Istituto europeo di Studi islamici[6]. In generale, però, nella formazione dei musulmani europei svolgono ancora un ruolo preponderante i Paesi d’origine degli immigrati di religione islamica o i centri d’insegnamento situati al di fuori dei confini europei.
Non ci è stato possibile rendere conto di tutti questi aspetti. Qualche suggestione può venire però dalla storia delle Facoltà islamiche dei Balcani, analizzata da Enes Karić. Si tratta di un’esperienza interessante per almeno due motivi: in primo luogo perché in questo contesto i musulmani hanno dovuto fare i conti con l’esistenza dello Stato laico, ed è nelle locali Facoltà di Studi islamici che giuristi e teologi hanno riflettuto sulla questione; in secondo luogo perché, mostrando il nesso che lega comunità musulmane e istituzioni d’insegnamento, il caso balcanico fornisce qualche indicazione utile anche per l’Europa occidentale.
Nell’editoriale del precedente numero di Oasis, Felice Dassetto scriveva che in Europa l’urgenza «non è costruire moschee, ma formare teste». Perché ciò avvenga, occorre innanzitutto fare chiarezza sulle diverse tipologie d’istruzione religiosa islamica, sui suoi metodi e sui suoi obiettivi. Come ha segnalato Hmimnat a proposito del Marocco, un conto è la preparazione pratica impartita in un corso di formazione per imam, altra cosa è il sapere teologico degli ulema, che viene acquisito durante un lungo percorso di studi. In secondo luogo non si può ridurre la formazione a una questione di ordine pubblico. È sicuramente fondamentale che chi occupa posizioni di responsabilità in comunità e organizzazioni islamiche sappia interagire adeguatamente con il contesto in cui si trova e possa offrire garanzie di sicurezza e affidabilità. Nell’Islam, però, la conoscenza è fonte di autorità, e trasformare imam e leader religiosi in gendarmi o anche soltanto in formatori civici, ciò che spesso sono tentati di fare sia gli Stati europei che quelli dei Paesi a maggioranza musulmana, significa comprometterne la credibilità, lasciando che i fedeli cerchino altrove le figure di riferimento di cui hanno bisogno. È invece interesse di tutti che, oltre a impedire la diffusione dell’estremismo, i leader musulmani del futuro possano contribuire al benessere spirituale e culturale delle società in cui vivono.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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[1] Si vedano in particolare Eleanor Abdella Doumato e Gregory Starrett (a cura di), Teaching Islam. Textbooks and Religion in the Middle East, Lynne Rienner, Boulder (CO)-London 2017; Robert Hefner e Muhammad Qasim Zaman, Schooling Islam. The Culture and Politics of Modern Muslim Education, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2007.
[2] Si veda il classico Franz Rosenthal, Knowledge Triumphant. The Concept of Knowledge in Medieval Islam, Brill, Leiden-Boston 2007.
[3] Indira Falk Gesink, Islamic Reform and Conservatism. Al-Azhar and the Evolution of Modern Sunni Islam, I.B. Tauris, London 2009.
[4] Pierre Vermeren, Une si difficile réforme. La réforme de l’université Qarawiyyin de Fès sous le Protectorat français au Maroc, 1912-1956, «Cahiers de la Méditerranée», n. 75 (2007), pp. 119-132.
[5] Francis Messner e Moussa Abou Ramadan, L’enseignement universitaire de la théologie musulmane. Perspectives comparatives, Cerf, Paris 2018.
[6] Si veda l’intervista a Privot raccolta da Anne-Bénédicte Hoffner e pubblicata su La Croix il 1° luglio 2019, https://bit.ly/2K0P7eq