In seguito all’affermazione del terrorismo jihadista, la moschea-università del Cairo è stata accusata di favorire con i suoi metodi d’insegnamento la diffusione dell’estremismo
Ultimo aggiornamento: 25/11/2024 13:10:02
In seguito all’affermazione del terrorismo jihadista, la moschea-università del Cairo è stata accusata di favorire con i suoi metodi d’insegnamento la diffusione dell’estremismo. I vertici dell’istituzione hanno risposto avviando un programma di revisione dei libri di testo. Ma questa attenzione sulla trasmissione della tradizione religiosa rischia di oscurare le responsabilità del potere politico.
Nel corso della storia dell’Islam si sono susseguiti diversi modelli d’insegnamento, ciascuno dei quali rifletteva la cultura islamica e lo stato della comunità scientifica di una determinata epoca. L’insegnamento religioso ha preso avvio con la trasmissione orale delle varie branche del sapere islamico, per poi consolidarsi con la messa per iscritto e il processo di classificazione, suddivisione e raggruppamento operato dagli esperti religiosi. Alla fine del IV secolo dell’era islamica (X secolo dell’era cristiana, NdR) erano già state istituite tutte le scienze e stabilite le loro metodologie. In tutte queste fasi il sapere è stato un’immagine fedele delle varie dimensioni della società islamica. In particolare, però, va detto che lo stato delle scienze e i metodi d’insegnamento erano un riflesso della relazione tra il potere politico e la comunità intellettuale, e dell’inserimento di quest’ultima nella società musulmana.
La libertà della comunità scientifica
Per quanto nel corso della storia islamica il potere politico abbia potuto stabilizzarsi, nessuna autorità ha mai raggiunto una centralizzazione tale da poter controllare lo sviluppo del sapere e i programmi d’insegnamento. Nel complesso, la comunità scientifica, libera dalle pressioni politiche, ha potuto agire secondo criteri propri.
Infatti, anche nelle madrase nate sotto l’egida del potere politico, come la Nizāmiyya[1] di Baghdad, o le scuole istituite in Egitto, nel Levante e in altre aree[2], i programmi di studio venivano definiti unicamente dagli ulema incaricati dell’insegnamento sulla base delle esigenze della comunità scientifica e della dialettica di quest’ultima con la società. Ciascuno shaykh o imam stabiliva un programma d’insegnamento specifico, che impartiva ai suoi studenti secondo quanto riteneva opportuno. Alla Nizāmiyya, per esempio, Abū al-Ma‘ālī al-Juwaynī (m. 478/1085) insegnava la metodologia, che al-Ghazālī avrebbe successivamente commentato riportandola nel suo Mankhūl. Alla madrasa al-Ashrafiyya di Damasco, Abū ‘Amr ibn al-Salāh al-Shahruzūrī (m. 643/1245) aveva iniziato a insegnare la scienza degli hadīth secondo un ordine pressoché inedito, che ha poi riportato nella sua celebre opera Ma‘rifat anwā‘ ‘ilm al-hadīth [La conoscenza delle categorie della scienza dello hadīth]. E si potrebbero fare numerosi altri esempi.
A permettere alla comunità scientifica di sottrarsi alla pressione del potere è stato fondamentalmente il sistema dei legati pii (nizām al-awqāf), che ne salvaguardava l’indipendenza e le risorse finanziarie. Secondo la giurisprudenza islamica, il sistema del waqf, conosciuto anche come habs, prevede infatti che il proprietario originario ceda ogni diritto di proprietà del bene immobilizzato (mawqūf), mantenendo soltanto gli obblighi eventualmente pattuiti.
I metodi e i programmi d’insegnamento hanno così potuto consolidarsi, sopravvivendo all’ascesa e al declino delle varie dinastie islamiche, così come alle loro fasi di estensione o di arretramento. Per lungo tempo questo sistema non ha subito alcun cambiamento sostanziale e i waqf hanno continuato a garantire la libertà della comunità scientifica, sottraendola all’influenza del potere politico. Quest’ultimo peraltro non aveva quel carattere accentratore che invece possiede oggi, e non mirava a gestire tutti gli aspetti della vita quotidiana. Dopo molti secoli di funzionamento, questo sistema ha subito un cambiamento decisivo quando in epoca contemporanea gli Stati hanno assoggettato i waqf al proprio controllo, estendendovi la loro giurisdizione. Sarebbe stato questo il primo passo verso l’ingerenza statale nella revisione dei programmi d’insegnamento.
In Egitto la situazione non cambiò neanche dopo la nascita dello Stato moderno ad opera di Muhammad ‘Alī Pāshā: i metodi di al-Azhar rimasero legati al sapere tradizionale che era andato formandosi nel corso della storia islamica e potevano essere definiti soltanto dagli shaykh e dagli ulema preposti all’insegnamento.
Fu con le misure intraprese dal presidente Gamal Abdel Nasser, e in particolare con la legge di riforma di al-Azhar del 1961, che lo Stato egiziano assunse il controllo della moschea-università, trasformandola in un ramo del suo apparato. Con la riforma agraria, attuata con le leggi del 1952 e del 1961, lo Stato si impossessava inoltre dei beni waqf che avevano garantito l’indipendenza dell’insegnamento e del movimento intellettuale all’interno di al-Azhar. Contemporaneamente, veniva istituito il ministero degli Affari religiosi (Awqāf) e abolita la magistratura sciaraitica, ciò che permise allo Stato di consolidare il proprio controllo sulla moschea sia nella sua dimensione intellettuale che in quella giudiziaria.
La dialettica tra lo Stato e al-Azhar dopo il 2011
A partire dall’epoca nasseriana, la dialettica tra lo Stato egiziano e al-Azhar ha dunque assunto la forma di un tentativo da parte del primo di estendere il proprio controllo sulla seconda, inglobandola all’interno delle sue strutture.
La dialettica tra lo Stato egiziano e al-Azhar ha assunto la forma di un tentativo da parte del primo di estendere il proprio controllo sulla seconda
Così, al momento della rivoluzione del 2011, al-Azhar non solo era già annessa all’apparato dello Stato, ma quest’ultimo ha tentato di accrescere ulteriormente il proprio dominio, smantellando ogni residua forma di indipendenza della moschea. Si tratta tuttavia di un nuovo tipo di controllo, esercitato a partire da una prospettiva diversa, con metodi più precisi e allo stesso tempo meno visibili rispetto a quanto fatto da Nasser, il quale oltre a controllare al-Azhar puntava a beneficiare delle sue ingenti risorse finanziarie.
È stato in particolare il colpo di Stato militare che ha rovesciato il presidente Muhammad Morsi, eletto nel 2012, a modificare la forma della relazione tra lo Stato e molte istituzioni, a partire proprio da al-Azhar. Anche se solo formalmente, il grande Imam della moschea Ahmad al-Tayyib ha sostenuto l’intervento dei militari, e il 3 luglio, durante l’annuncio in diretta televisiva della destituzione di Morsi, è apparso seduto dietro al generale al-Sisi. Ciononostante, dopo poco tempo i rapporti tra l’imam e il nuovo uomo forte del Cairo hanno iniziato a farsi sempre più tesi.
Dopo l’esperienza completamente fallimentare del governo islamista, i militari si sono attivati per inaugurare in Egitto una nuova epoca, che possiamo definire “post-islamista”. Questa è iniziata con la dichiarazione del colpo di Stato nel 2013, che ha proclamato il fallimento e la fine dei movimenti islamisti. In secondo luogo, lo Stato ha preparato il terreno ai progetti di alcune potenze regionali, e in particolare degli Emirati Arabi, che avevano sostenuto il colpo di Stato. Uno di questi progetti, che sta radicalmente trasformando la regione a tutti i livelli, e in particolare a quello intellettuale, mira a sostituire le interpretazioni tradizionali dell’Islam con una serie di nuove concezioni e nuove letture della tradizione e dei metodi di insegnamento, a prescindere dalla loro correttezza e dalla loro congruenza con l’eredità del passato.
La prima manifestazione di questo processo è stato l’invito lanciato il 1° gennaio del 2015 da Abd al-Fattah al-Sisi, mentre si trovava al ministero degli Affari religiosi per la celebrazione della nascita del Profeta, a rinnovare il discorso religioso. In quell’occasione, il presidente egiziano si è detto «determinato a combattere questa grande battaglia intellettuale». Non mi soffermerò a decostruire questa affermazione e spiegarne la problematicità. Mi limito a notare che, per dar seguito alla richiesta del presidente, subito dopo quell’appello sono state costituite alcune commissioni e si sono tenute diverse riunioni preparatorie.
È in quel momento che è cambiato l’atteggiamento verso al-Azhar. Su pressione della comunità politica, hanno infatti iniziato a susseguirsi le voci, soprattutto di giornalisti e scrittori egiziani, che attribuivano ad al-Azhar e ai suoi metodi d’insegnamento la responsabilità del terrorismo e chiedevano di emendare i programmi di studio dell’università islamica da quelli che potevano essere considerati semi dell’estremismo. Tutto ciò nell’ottica di garantire che ad al-Azhar si diplomassero studenti moderati, equilibrati e indenni dal fondamentalismo e dalla violenza.
La riforma dei piani di studio di al-Azhar
Al-Tayyib ha allora deciso di istituire il “Consiglio per l’insegnamento pre-universitario”, composto da un centinaio di ulema di al-Azhar e di altre istituzioni, affidandone la presidenza al suo ex-vicario ‘Abbās Shumān. Oltre alla gestione di alcune questioni amministrative, quest’organo è stato incaricato di riformulare i concetti e le questioni particolarmente sensibili, quali l’uguaglianza, l’inviolabilità della persona umana, i principi della cittadinanza, il rapporto con i non-musulmani, per adattarle al clima sociale e politico odierno, eliminando dai libri di testo alcune sezioni anacronistiche della giurisprudenza islamica come i capitoli relativi al jihad e alla schiavitù, e le norme relative ai dhimmī (i “protetti” cristiani ed ebrei che, in cambio del pagamento di una tassa e del rispetto di alcune condizioni, avevano diritto a vivere nella comunità islamica, NdR).
Nonostante il processo di revisione dei curricula sia terminato, finora la commissione non ha rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale sui risultati dei suoi lavori, ciò che invece sarebbe stato opportuno per alleviare la pressione esercitata dall’opinione pubblica egiziana, che accusa al-Azhar di coltivare le radici della violenza e del terrorismo diffondendoli attraverso programmi d’insegnamento desueti.
Alcuni membri della commissione con cui ho avuto modo di entrare in contatto grazie all’intermediazione di persone a loro vicine[3] hanno fatto a questo proposito due notazioni.
La prima riguarda l’insegnamento primario, dove tutti i testi più antichi sono stati sostituiti da nuovi manuali più semplici e adatti agli studenti di oggi. Nell’insegnamento secondario, invece, ed è questo l’aspetto più importante, si sono mantenuti i testi tradizionali per il diritto, la teologia e la dottrina, ma li si è sottoposti a un processo di revisione. Nella giurisprudenza hanbalita, per esempio, si continuano a studiare i testi tratti da Al-Rawd al-murbi‘. Sharh Zād al-Mustaqni‘ dello shaykh Mansūr bin Yūnus al-Buhūtī (m. 1051/1641), ma ne sono state espunte alcune sezioni, e in particolare i capitoli più controversi e problematici, come quelli relativi al jihad e alla schiavitù o le norme che regolano lo statuto dei dhimmī, per i quali al-Azhar era finita sotto accusa. Questo significa che c’è stato un progresso effettivo nei lavori della commissione, anche se questi risultati non sono stati annunciati per problemi amministrativi.
L’invito di al-Sisi e ciò che è seguito possono essere visti come un primo passo verso il rinnovamento di cui il pensiero islamico ha bisogno, nella sua legge rivelata (la sharī‘a) così come nella legge positiva, per adattarsi ai tempi e poter progredire. Questo è vero, ma a mio avviso non è sufficiente e non esprime tutta la verità della questione. Occorre infatti considerare altri due aspetti.
Il pensiero islamico ha un problema reale che risiede nella relazione tra l’invariabilità del testo e la realtà
Va innanzitutto riconosciuto che da centocinquant’anni e forse anche di più il pensiero islamico ha un problema reale, che il passare dei giorni non fa che rendere più complicato. Questo problema risiede in particolare nella relazione tra l’invariabilità del testo, i cui significati, per quanto estesi, sono limitati dal quadro linguistico, e la realtà con i suoi eventi contingenti. La domanda è come fare interagire ciò che è costante con ciò che è mutevole. Non si tratta tuttavia di una questione inedita. La necessità di considerare entrambi gli aspetti nel processo di emissione delle fatwe, adattando il testo alla realtà, era già stata sollevata da alcuni ulema del passato, come, tra gli altri, Shihāb al-Dīn al-Qarāfī (m. 684/1285), Taqī al-Dīn Ibn Taymiyya (m. 728/1328) e Ibn Qayyim al-Jawziyya (m. 751/1350).
Oggi, però, il vero problema consiste nel fatto che la conoscenza di molti legislatori e islamisti attivi nell’ambito politico dei due termini dell’equazione, cioè il testo e la realtà, è diventata estremamente scarsa. Non solo la loro capacità di comprensione dei testi, delle fonti e delle risorse della sharī‘a non è minimamente comparabile a quella dei loro predecessori, ma essi non capiscono neppure le molte novità e i molti sviluppi che caratterizzano la realtà. Per esempio la stessa concezione e le problematiche dello Stato moderno, o il rapporto di quest’ultimo con la legge rivelata, restano inafferrabili per la maggior parte dei legislatori e degli islamisti, i quali si accontentano di evidenziare le criticità utilizzando categorie generali e facendo comparazioni semplicistiche.
In secondo luogo, quando si considerano gli appelli al rinnovamento religioso, sia a livello del discorso diffuso nello spazio pubblico che a livello dei metodi d’insegnamento, non si può prescindere dai rapporti con il potere e dalle pressioni politiche esistenti.
Il rinnovamento, strumento del potere
A ben riflettere, l’insistenza del potere egiziano sulla necessità di rinnovare i programmi educativi esige alcune considerazioni. Innanzitutto, facendo ricadere l’intera colpa dell’estremismo sui programmi d’insegnamento, si distrae l’attenzione dall’oppressione che il regime esercita e ha esercitato, come se la responsabilità della corruzione in Egitto potesse essere fatta ricadere su al-Azhar e sull’immobilismo dei suoi ulema, e non sui detentori del potere. In secondo luogo, sembra esserci la volontà dello Stato di preparare a livello intellettuale l’ambiente egiziano ai progetti regionali, che, come abbiamo detto, puntano sulla produzione di un nuovo discorso religioso. Tali progetti si estendono a diversi Paesi attraverso la creazione di centri di ricerca e il finanziamento di ricercatori che lavorano in questa direzione. In ultimo luogo, le pressioni esercitate da al-Sisi hanno innescato una nuova stagione di conflitti di potere tra la presidenza egiziana e al-Azhar[4], sfociati nella distruzione dall’interno della moschea, nel suo inglobamento da parte dello Stato, e nell’eliminazione di tutto ciò che potesse apparire in contrasto con la volontà della Presidenza.
L’espediente del rinnovamento e la circolazione di concetti simili nel pensiero arabo ed egiziano suscitano per questo dubbi e sospetti. I musulmani hanno senz’altro bisogno di rinnovamento e sviluppo, ma prima occorre chiarire queste categorie e i loro contenuti, definendone in maniera scientifica l’essenza.
I libri di testo contro i quali si sono scagliate la presidenza egiziana e, al seguito di quest’ultima, alcune correnti politiche, sono stati insegnati e studiati per molti secoli in una forma ancora più sistematica di quella attuale, eppure non ci è mai giunta notizia di estremisti che abbiano fatto saltare in aria chiese o di attentatori suicidi che si siano fatti esplodere durante una celebrazione cristiana. Anzi, fino alla metà del secolo scorso la maggior parte delle testimonianze contrasta con questo quadro cupo.
Trascurare il ruolo dei regimi autoritari, che logorano le risorse, la vita e l’umanità delle persone, nella nascita di ciò che oggi viene chiamato “terrorismo”, significa esporre la gente a una grande falsificazione e a una grande manipolazione. La maggior parte delle correnti takfiriste e jihadiste non sono altro che l’esito della repressione messa in atto da Gamal Abdel Nasser, mentre in epoca più recente difficilmente nasce un movimento jihadista senza lo zampino dei servizi segreti di qualche Stato, che lo creano o lo direzionano secondo determinati interessi.
Stati e regimi del mondo non sono così innocenti da costringerci a cercare i semi dell’estremismo in libri di autori morti secoli fa. Prima che a dei libri di carta ingiallita[5], la responsabilità del terrorismo andrebbe imputata al dispotismo politico, ai regimi che governano il mondo arabo e agli Stati che li sostengono. Se dopo aver preso in considerazione questo aspetto il fenomeno del terrorismo rimanesse ancora parzialmente inspiegato, allora potremo chiamare in causa la tradizione islamica.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Abbiamo bisogno di te
Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.
Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.
Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!
[1] Questa madrasa fu fatta costruire nel 459/1065 dal vizir selgiuchide Nizām al-Mulk (m. 485/1092). In seguito, sarebbero nate diverse altre madrase a Balkh, Nishapur e in altre città.
[2] Per maggiori dettagli su questo tema si veda ‘Abd al-Qādir bin Muhammad al-Nu‘aymī, Al-Dāris fī tārīkh al-madāris, Dār al-kutub al-‘ilmiyya, Bayrūt 1410/1990.
[3] Tra questi Sāmī Muhammad Ma‘ūz, assistente alla Facoltà di Lingua araba presso l’Università al-Azhar.
[4] Il disaccordo latente tra le due istituzioni non è un segreto. A gennaio 2019 il Presidente della Repubblica è arrivato a emanare un decreto con cui impediva a chiunque ricoprisse un incarico pubblico di vertice di viaggiare fuori dal Paese senza il permesso ufficiale dello stesso al-Sisi. L’obbiettivo di questo decreto non era altri che lo Shaykh al-Azhar.
[5] Il riferimento è ai testi della tradizione islamica, noti anche come “libri gialli”. A causa della loro mole, questi libri venivano stampati su carta economica molto sottile, che proprio per questo ingialliva velocemente (NdR).